Visualizzazione post con etichetta lavoro dipendente. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta lavoro dipendente. Mostra tutti i post

domenica 28 febbraio 2021

Permessi e congedi: cosa prevede la legge

 


Non tutti i lavoratori conoscono permessi e congedi di cui hanno diritto come dipendenti, molti anche retribuiti: vediamo caso per caso.


Oltre alle misure straordinarie previste per l’emergenza Coronavirus – con i diversi congedi e le equiparazioni tra quarantena e malattia o degenza ospedaliera, previsti a seconda dei casi e della categoria di lavoratori interessati – il Diritto del Lavoro prevede diverse forme di tutela e strumenti che si adattano a specifiche circostanze, volte a migliorare la conciliazione tra lavoro e famiglia. Ad esempio, tutti conoscono il congedo matrimoniale (15 giorni retribuiti al 100%), ma ci sono altri permessi meno noti, ad esempio quello per motivi sindacali. Ma non solo: vediamo tutte le regole sulle assenze retribuite del lavoratore, approfondite dalla Fondazione Studi di Consulenti del Lavoro in base a quanto previsto dai CCNL.


Congedo matrimoniale

Il congedo matrimoniale spetta a tutti i lavoratori e lavoratrici che contraggono matrimonio valido agli effetti civili, dura 15 giorni di calendario ed è retribuito al 100%. In genere non è obbligatorio che inizi esattamente il giorno delle nozze: dipendente e datore di lavoro possono concordare una data vicina, con una flessibilità che non dovrebbe essere superiore a 30 giorni. 


È il lavoratore a dover chiedere il permesso matrimoniale, ed ogni contratto stabilisce con precisione con quanto anticipo (in genere da 6 a 15). Le norme di riferimento sono il RDL del 1937 per gli impiegati e il contratto collettivo interconfederale del 1941 per operai di industria, artigianato e cooperative.


Congedi e permessi familiari

I lavoratori dipendenti hanno diritto a un permesso retribuito di 3 giorni in caso di grave decesso di un parente di primo grado (coniuge). È anche possibile chiedere, in casi gravi e documentati, un congedo straordinario non retribuito fino a un massimo di 2 anni. La norma di riferimento è l’articolo 4 della legge 53/2000.


Congedo straordinario per la cura delle persone disabili in situazione di gravità: con la Circolare n. 159 l’INPS fornisce indicazioni dettagliate sui requisiti soggettivi per il riconoscimento del congedo e sulle modalità per la presentazione delle domande. Si tratta di un congedo che può essere concesso al familiare che assiste la persona disabile che versa in situazione di particolare gravità o anche un parente o affine entro il terzo grado convivente. Questo nel caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti dei soggetti individuati dalla norma secondo precisi criteri di priorità.


Requisiti

Il permesso retribuito per l’assistenza ai disabili in condizione di gravità si traduce normalmente nel diritto a fruire di 3 giorni mensili ai sensi dell’art. 33, comma 3 della Legge 104 del 5 febbraio 1992, mentre il congedo straordinario può essere concesso fino a due anni (tali permessi e congedi non possono essere riconosciuti a più di un lavoratore per l’assistenza alla stessa persona disabile in situazione di gravità) a patto che di essere conviventi con il disabile e che i soggetti che vengono prima nell’ordine prioritario siano:


mancanti, assenza naturale e giuridica o altra condizione ad essa giuridicamente assimilabile, continuativa e debitamente certificata dall’autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità come il divorzio, la separazione legale o l’abbandono;

deceduti;

affetti da patologie invalidanti tali da impossibilitarli a svolgere la propria funzione assistenziale.


Permesso sindacale

L’articolo 2 dello Statuto dei lavoratori concede 10 ore annue di permessi retribuiti al 100% per la partecipazione ad assemblee sindacali. Sono retribuiti anche i permessi dei rappresentanti sindacali per partecipare a RSU, trattative, convegni sindacali (con preavviso di 3 giorni). I contratti collettivi possono prevede condizioni migliorative.


Legge 104

Per i lavoratori portatori di handicap o malattia grave (di cui alla Legge 104/1992)  ci sono 2 ore retribuite al giorno oppure 3 giorni al mese. Per prendersi cura di un parente è possibile avere sempre 3 giorni di permesso al mese, retribuiti al 50%.


Permesso elettorale

Chi accetta funzioni presso gli uffici elettorali, ad esempio come scrutatore ai seggi, compresi i rappresentanti di lista, possono assentarsi per l’intera durata della consultazione elettorale, con intera retribuzione. Per i giorni festivi compresi nel periodo elettorale (in genere la domenica), ricevono un compenso aggiuntivo allo stipendio o un riposto compensativo (per esempio al termine delle operazioni). La normativa di riferimento è l’articolo 119 del Dpr 361 del 1957.


Funzioni pubbliche

Riguarda coloro che vengono eletti a incarichi pubblici. I consiglieri nazionali e regionali hanno diritto a un’aspettativa per l’intera durata del mandato, senza stipendio. In pratica, c’è la garanzia della conservazione del posto di lavoro. Per i consiglieri comunali e provinciali, invece, è previsto un permesso retribuito per ogni giornata di riunione del consiglio, più un monte di 24 ore al mese.


Permessi studio

Gli studenti universitari hanno diritto a un permesso retribuito per l’intera giornata lavorativa del giorno d’esame.


Congedo formazione

I dipendenti con almeno cinque anni di anzianità aziendale possono chiedere un’aspettativa non retribuita per un massimo di undici mesi, per una volta sola nell’arco della vita lavorativa.




giovedì 26 marzo 2020

Cura Italia: bonus ai dipendenti che lavorano in azienda



Stipendio di marzo più pesante per alcuni lavoratori costretti a continuare a lavorare nonostante l’epidemia dilagante di coronavirus. Infatti, per venire incontro ai lavoratori dipendenti che hanno continuato a prestare la propria attività lavorativa in sede, il governo ha introdotto nel Decreto-Legge 18/2020 del 17 marzo una misura ad hoc volta ad aiutare tale categoria di lavoratori.

L’aiuto, in particolare, è di tipo economico e consiste nell’erogazione di una somma una tantum pari a 100 euro netti. L’importo sarà corrisposto direttamente nella busta paga di marzo ed è da rapportare al numero di giorni di lavoro svolti nella propria sede di lavoro nel predetto mese in quanto non era possibile svolgere lo smart working. Ad esempio chi ha continuato a lavorare nel mese di marzo, ma ha preso 10 giorni di ferie riceverà circa 66 euro netti in più.

Il decreto Cura Italia prevede l’erogazione di un bonus di 100 euro per i lavoratori dipendenti che non possono utilizzare lo smart working durante l'emergenza Coronavirus

Il nuovo D.l. "Cura Italia" prevede per il mese di marzo 2020, a favore:

dei lavoratori dipendenti, pubblici e privati , purché con reddito complessivo non superiore a 40.000 euro,  che, durante il periodo di emergenza sanitaria per il Coronavirus, continuino a prestare servizio nella sede di lavoro.

Le misure di prevenzione del contagio da COVID 19 finora messe in campo dal Governo hanno infatti puntato sulla promozione dello smart working e sull'utilizzo di ferie, permessi o addirittura di chiusura dei reparti aziendali non a rischio , ma è chiaro che probabilmente un grandissimo numero di lavoratori dipendenti è comunque costretto a recarsi nella sede aziendale , con tutti i rischi che ne conseguono. Probabilmente nel confronto con i sindacati è stato deciso di dare questo riconoscimento ai lavoratori , in primis coloro che lavorano ai servizi essenziali:  sanita, trasporti, forze di polizia, commercio al dettaglio.

L'importo del bonus  di 100 euro è  mensile cioè riferito al mese di marzo 2020 e va   quindi ragguagliato ai giorni  effettivi di presenza al lavoro nella sede aziendale .

Il premio non concorre alla formazione della base imponibile, ai fini delle imposte dirette.

Il premio  sarà  attribuito in via automatica dal datore di lavoro, che lo eroga a partire dalla retribuzione corrisposta nel mese di aprile,  oppure,  comunque,  entro il termine di effettuazione delle operazioni di conguaglio di fine anno.

I sostituti di imposta recuperano il premio erogato attraverso l’istituto della compensazione, di cui all’art.17 del decreto legislativo n. 241 del 1997.

il bonus è una tantum e spetta, al momento, unicamente per il mese di marzo 2020. Da notare, inoltre, che l’aiuto economico spetta solamente per chi ha continuato a lavorare nonostante l’emergenza epidemiologica che sta colpendo l’Italia. Ma non solo: i 100 euro sono da rapportare anche al numero di giorni di lavoro svolti nella propria sede di lavoro nel predetto mese.

Dunque, l’importo intero spetta a tutti ma in base ai giorni di lavoro effettivamente svolti.

Quindi le 100 euro devono essere proporzionate ai giorni lavoratori svolti a marzo.
È importante specificare, altresì, che dal punto di vista fiscale il bonus non concorre alla formazione del reddito di lavoro dipendente, in quanto si tratta di un importo esentasse. Pertanto, possiamo affermare che il dipendente non deve pagarci l’IRPEF poiché è un importo netto e non lordo.

Per coloro che si chiedono come fare per ricevere il bonus 100 euro, la risposta è molto semplice: niente. Infatti, i sostituti d’imposta – ossia i datori di lavoro – riconoscono, in via automatica, l’incentivo a partire dalla retribuzione corrisposta nel mese di aprile e comunque entro il termine di effettuazione delle operazioni di conguaglio di fine anno.

Da notare che i 100 euro non gravano sulle tasche del datore di lavoro, il quale è chiamato soltanto a anticipare l’importo, così come accade per l’assegno per il nucleo familiare. Infatti, al co. 3 dell’art. 63 del Dl 18/2020 è previsto che i sostituti d’imposta possono compensare l’incentivo erogato in busta paga mediante l’istituto di cui all’art. 17 del D.Lgs. 241/1997.



sabato 17 novembre 2018

Ferie non godute e indennità: quando si perdono



Se il datore di lavoro invita a fruire delle ferie e il lavoratore non lo fa, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, perde anche il diritto all'indennità sostitutiva, che invece spetta agli eredi: le sentenze della Corte di Giustizia UE.

Niente indennità sostitutiva delle ferie non fruite dal lavoratore, non richieste per sua volontà, in caso di cessazione del rapporto di lavoro. A stabilirlo è stata la Corte di Giustizia UE con le recenti sentenze C-619/16 e C-684/16). Diversamente il diritto del lavoratore a un’indennità finanziaria per le ferie non godute è trasmissibile agli eredi allorché sia deceduto (sentenza C-596/16 della stessa Corte di Giustizia UE).

I principi esposti dalla Corte si applicano sia in caso di occupazione nel settore pubblico sia in quello privato.

La monetizzazione delle ferie non godute per i dipendenti della Pubblica Amministrazione non è una procedura automatica e prevede un iter soggetto a limiti e alla presentazione di documenti specifici che possano motivare la richiesta di indennizzo sostitutivo.

Lo ha affermato da Corte di Cassazione con l’ordinanza 20091 del 30 luglio 2018, decisione che sottolinea come per poter incassare le ferie non godute sia necessario produrre documenti che dichiarino l’esistenza di circostanza e motivazioni specifiche che hanno portato alla necessità di rinunciare ai giorni di vacanza, in particolare definite esigenze di servizio o altre motivazioni inderogabili.

Nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico se l’interessato non prova che esso è stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da cause di forza maggiore.

La Cassazione, in sostanza, pone un limite preciso ai dipendenti pubblici che accumulano un notevole quantitativo di ferie arretrate nella speranza di richiedere, successivamente, un’indennità sostitutiva tale da convertire i giorni di assenza non goduti in denaro percepito attraverso il compenso.

In particolare il diritto alle ferie si estingue quando queste non siano state fruite per volontà del lavoratore, nonostante l’invito dal datore di lavoro a farlo. E questo principio è valido anche con riferimento al periodo minimo legale, pari a quattro settimane di ferie retribuite, generalmente un diritto irrinunciabile e mai monetizzabile se non a fine rapporto di lavoro.

Nel caso esaminato dalla Corte, circa due mesi prima della fine del rapporto, il datore di lavoro aveva invitato il lavoratore a fruire della rimanenza di ferie, senza costringerlo a osservare date prefissate. Il dipendente tuttavia aveva scelto, per ragioni proprie, di fruire di soli due giorni di ferie.

La Corte UE ha dunque chiarito che le norme UE non sono contrarie alla perdita del diritto alle ferie annuali non fruite e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla perdita del correlato diritto a un’indennità sostitutiva per le ferie non godute quando il lavoratore non abbia formulato richiesta di fruizione prima della cessazione del rapporto di lavoro e sia stato posto dal datore di lavoro, con informazione adeguata, in condizione di fruirne in tempo utile.

Questo perché viene ritenuto non legittimo il comportamento del lavoratore che si astenga deliberatamente dal fruire le proprie ferie annuali al fine d’incrementare la propria retribuzione all’atto della cessazione del rapporto.

Diversamente, in caso di decesso del lavoratore che non abbia fruito delle ferie che gli spettavano, il diritto all’indennità per ferie non godute non si estingue ma si trasmette agli eredi.

La Corte ha inoltre affermato che nel caso in cui il diritto nazionale escluda la possibilità per gli eredi di chiedere all’ex datore di lavoro del lavoratore deceduto un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute dal congiunto, gli eredi possono invocare direttamente il diritto dell’Unione.



domenica 11 novembre 2018

Stipendio basso, come rinegoziare l'aumento



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente.

 Cinque mosse per rinegoziare lo stipendio. Michael Page, specializzato nella selezione di professionisti, middle e top manager, consiglia di verificare prima se la propria retribuzione è il linea con la media nazionale.

In primo luogo avere in mente la situazione aziendale. Per poter fare una richiesta in linea con le possibilità dell'azienda è necessario conoscere la situazione finanziaria della società. Inoltre, è bene sapere se il proprio stipendio, o quello desiderato, è in linea con la retribuzione del mercato.

Riflettere sulle esigenze personali. Prima di effettuare una richiesta bisogna capire quale livello salariale minimo potrebbe essere soddisfacente e quale è invece la retribuzione ideale, in modo da iniziare a negoziare sempre dal valore più alto e lasciare spazio alle proposte. Per identificare nel modo più fattuale possibile queste cifre bisogna pensare al costo della vita attuale, alle tendenze del mercato e alla propria istruzione ed esperienza, senza tralasciare i desideri collegati al proprio percorso professionale per il breve, medio e lungo termine.

Non solo stipendio, le altre proposte da valutare. Quando ci si trova a negoziare bisogna sempre ricordarsi che il pacchetto retributivo non si limita solo al salario. L’offerta aziendale può comprendere formazione, orari flessibili, smart working, benefit etc. Inoltre, è molto importante valutare l'esistenza di un percorso di crescita e promozione chiaro e ben delineato.

Il tempismo è importante. L’ideale è che sia sempre il datore di lavoro ad affrontare per primo il tema del salario. Se un intervistatore cerca di cogliere le aspettative retributive durante un colloquio è bene chiedere più dettagli legati alla potenziale posizione prima di esporsi in tal senso, in modo da poterne discutere una volta conclusa la selezione e già ricevuta un’offerta.

Negoziare in modo deciso ma giusto. All’interno di una negoziazione è fondamentale essere preparati e non perdere di vista i punti sostanziali della propria richiesta. Entrambe le parti auspicano alla situazione più vantaggiosa per loro e, per questo motivo, bisogna sempre rispettare l’interlocutore senza però mostrare indecisioni o insicurezze.

"Negoziare lo stipendio - commenta Adriano Giudici, executive manager divisione engineering & manufacturing - è un momento sfidante, che mette in discussione non solo gli aspetti legati alla propria carriera ma anche quelli più vicini alla vita personale. Per questo motivo, consigliamo sempre di prepararsi seriamente in vista del confronto con il proprio datore di lavoro. Bisogna essere pronti a parlare di aspettative specifiche e realistiche basate sulle proprie capacità, esperienze e tendenze del mercato attuale, senza farsi prendere dall'emotività".




sabato 3 novembre 2018

Le necessità dei lavoratori: solidità e onestà dell'azienda




L’attivazione di servizi di benessere aziendale rappresentano un vero e proprio investimento per le aziende, una strategia che sempre più spesso nasce dall’impiego del premio di risultato e che ha come conseguenza l’aumento della soddisfazione dei dipendenti.

Un'azienda solida, un capo onesto, possibilità di lavoro flessibile e crescita professionale: ecco cosa piace ai lavoratori. Le richieste dei lavoratori si fanno sempre più chiare, avendo maggiore consapevolezza del proprio ruolo e delle competenze. Ma cosa vogliono di preciso? Ce lo rivela il recente sondaggio condotto da Kelly Services, Talent@work, che ha intervistato oltre 14mila candidati in dieci Paesi Europei su tre aspetti principali: ambiente e modalità di lavoro, leadership.

Il primo elemento è determinante: il 55% dei candidati, prima di accettare un’offerta, si informa sulle condizioni generali dei lavoratori. Ma conta anche la possibilità di fare carriera: il 41% punta a crescere dal punto di vista professionale. Il 40% ha bisogno anche di sapere che andrà a far parte di un’azienda solida, non accettando l’instabilità tipica di questo momento storico.

Per quanto riguarda il rapporto con la leadership, i lavoratori dichiarano di essere condizionati dal manager che è alla guida dell’azienda per cui si stanno candidando: nel dettaglio, l’86% considera un elemento fondamentale averne una buona opinione. In particolare, sono considerati valori fondanti il senso di responsabilità e l’onestà. Anche nel macro tema del rapporto con la leadership torna l’argomento della crescita professionale e il 69,6% si aspetta di acquisire nuove competenze con il nuovo lavoro.

Per quanto riguarda l’ultimo settore della ricerca la situazione appare altalenante. In generale piace l’idea di un lavoro flessibile, che garantisca un buon equilibrio tra vita privata e professionale, ma lo smart working non convince tutti. Il 66% dei rispondenti dichiara infatti di trovare il rapporto con i colleghi più semplice convivendo in ufficio, mentre il 45% apprezza il fatto di poter socializzare con altre persone, e il 34% dei lavoratori che hanno scelto il remoto afferma di sentirsi isolato.

Secondo quanto rivelato dal 5° Rapporto Welfare e 2° Rapporto Wellbeing di OD&M Consulting, risultato di due indagini condotte su un campione di 161 aziende italiane oltre 500 lavoratori, il 77,5% delle grandi aziende vanta un piano di welfare attivo ma anche il 62,5% delle piccole imprese sta pensando all’implementazione nel breve periodo.

Sono sette su dieci, inoltre, le aziende che vanno incontro ai bisogni dei lavoratori promuovendo analisi sociodemografiche o survey interne/focus group.

Il welfare aziendale è ormai un pilastro fondamentale del Total Reward per la gestione del rapporto azienda/lavoratore; proprio per questo, per garantire il successo dei piani sono cruciali il coinvolgimento dei dipendenti e la soddisfazione di effettivi bisogni che si estendono sempre più alla dimensione famigliare e al benessere individuale – afferma Miriam Quarti, Senior Consultant e Responsabile dell’area Reward&Performance di OD&M Consulting -. Presidiare l’intero processo, identificare le modalità di implementazione più coerenti con le finalità e procedere soprattutto con una comunicazione strategica e operativa mirata sono aspetti fondamentali per il successo del piano. Il welfare aziendale è parte integrante di un nuovo patto tra azienda e lavoratore, basato non più solo sull’erogazione di denaro, ma anche di servizi che aiutano le persone ad accrescere il loro benessere nell’organizzazione. Questo è un aspetto da valorizzare in modo adeguato con i lavoratori.


domenica 18 marzo 2018

Visite mediche fiscali: i casi di esonero dalla reperibilità



In caso di malattia il dipendente pubblico o privato deve farsi rilasciare il certificato medico e rendersi reperibile presso l’indirizzo indicato per la visita fiscale.

Sarà poi obbligo del medico curante inviare, in modo telematico, l’attestato medico all’Istituto di Previdenza.

Solo nel caso in cui la trasmissione per via telematica non sarà possibile il certificato medico sarà rilasciato in modalità cartacea.

Il dipendente avrà quindi due giorni di tempo, dal verificarsi della malattia, per presentare il certificato medico all'ufficio INPS di competenza e una copia al datore di lavoro.

Per visita fiscale si intende l’accertamento sanitario, cioè una visita medica, che viene effettuata da parte di un medico dell’Inps nei confronti del lavoratore, quando è assente per malattia.

La visita fiscale può essere effettuata:

su richiesta del datore di lavoro pubblico, fin dal primo giorno di assenza dal servizio attraverso il canale telematico messo a disposizione dall’INPS;

su disposizione dell’INPS.

La richiesta può essere presentata fin dal primo giorno di assenza del lavoratore.

Il lavoratore è tenuto a rendersi reperibile, per la visita fiscale, in determinati orari; in particolare, le fasce di reperibilità per la visita fiscale sono le seguenti: dipendenti statali e degli enti locali devono essere reperibili per l’intera settimana, festivi compresi, nelle fasce orarie dalle 9 alle 13, e dalle 15 alle 18.

Anche i lavoratori del settore privato devono essere reperibili tutta la settimana, compresi sabati e domeniche, ma le fasce orarie sono differenti e vanno dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19.

Durante le fasce di reperibilità, sin dal primo giorno in cui si ammala, il lavoratore in malattia deve restare a disposizione del medico fiscale. Al verificarsi della malattia, il dipendente è tenuto a comunicare la malattia al datore di lavoro e a recarsi dal proprio medico curante perché rediga ed invii all’Inps in tempo reale il certificato telematico.

Se il lavoratore si reca dal medico il giorno successivo alla malattia e la visita è ambulatoriale, perde il primo giorno di malattia; lo stesso accade nel caso in cui la visita non sia ambulatoriale, ma il lavoratore si presenti alla visita medica con oltre un giorno di ritardo dal verificarsi della patologia. Dunque il dipendente in malattia dovrà  dimostrare che queste prestazioni non potevano essere effettuate in un momento diverso, in modo da poter essere presente nel proprio domicilio di malattia durante le fasce orarie di reperibilità.

L’INPS ha fornito chiarimenti in merito al campo di applicazione della normativa che prevede le esclusioni dall’obbligo di reperibilità per i lavoratori dipendenti del settore privato.

Si ricorda che, sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i lavoratori subordinati la cui assenza sia connessa con:

patologie gravi che richiedono terapie salvavita, comprovate da idonea documentazione della Struttura sanitaria;

stati patologici sottesi o connessi a situazioni di invalidità riconosciuta, in misura pari o superiore al 67%.

I lavoratori interessati dall’esenzione, sono quelli con contratto di lavoro subordinato appartenenti al settore privato, sono esclusi quindi i lavoratori iscritti alla gestione separata dell’Inps.

In base al nuovo art. 4 del DM 206/17:
Sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i dipendenti per i quali l’assenza è riconducibile ad una delle seguenti cause di esclusione:

patologie gravi che richiedono terapie salvavita;

causa di servizio riconosciuta che abbia dato luogo all’ascrivibilità della menomazione unica o plurima alle prime tre categorie della Tabella A allegata al decreto del Presidente della Repubblica 30 dicembre 1981, n. 834, ovvero a patologie rientranti nella Tabella E del medesimo decreto: la novità riguarda il riferimento ad una norma ed a tabelle specifiche. Per leggere il decreto: Tabella causa di servizio 2018 esclusione visite fiscali.

stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta, pari o superiore al 67%: la novità introdotta riguarda solo la precisazione che la percentuale minima di invalidità che dà diritto all'esenzione dalle visite fiscali, è un'invalidità pari o superiore al 67%.

Per cui nelle patologie gravi che richiedono terapie salvavita, rientrano malattia molto gravi come per esempio tumori con terapie chemioterapiche o dialisi per il malfunzionamento dei reni, per malattie professionali INAIL e infortunio già accertate dall'amministrazione e comprovate dall'istituto come malattia causa di servizio.

Riassumendo, le esclusioni dall'obbligo di reperibilità per la visita fiscale, vi sono solo se la malattia è connessa ad una delle condizioni sopra elencate e solo se l'amministrazione si già in possesso della documentazione formale sanitaria che certifichi la patologia che causa l'esclusione dal suddetto obbligo, pertanto, nel caso in cui il dipendente che rientra nel regime di esenzione non fosse trovato presso il proprio domicilio in occasione della visita fiscale, non andrebbe incontro a responsabilità e all'applicazione di alcuna sanzioni.





domenica 11 marzo 2018

Lavoro dipendente: trasferte e orario di lavoro





La trasferta presuppone che al lavoratore venga temporaneamente richiesto di prestare la propria opera in un luogo diverso da quello in cui deve abitualmente eseguirla (si tratta della sede indicata nel contratto di lavoro quale luogo normale di svolgimento dell’attività lavorativa) anche all'estero. A tale richiesta alla quale il lavoratore in genere è tenuto a adeguarsi.

Trasferte, le indicazioni del Ministero del Lavoro sulla nozione di orario di lavoro, nella quale non rientrano le ore trascorse in viaggio.

Per il Ministero del Lavoro, il tempo impiegato per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta non è da considerarsi orario di lavoro, quindi, per definire se un periodo sia da ricomprendersi nell’orario di lavoro è necessario che si verifichi la coesistenza di tre criteri indicati dall’art. 1, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 66/2003:

il prestatore di lavoro deve essere al lavoro,

deve essere anche a disposizione del datore di lavoro,

nonché deve essere nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni.

Nella normativa non è più quindi presente alcun riferimento alla nozione di orario di lavoro effettivo e per questo va considerato orario di lavoro sia il tempo dedicato al lavoro che quello in cui il lavoratore è presente nel luogo di lavoro, disponibile a far fronte alle necessità del datore di lavoro con la propria attività. A titolo di esempio, si ritiene che rientrino nell’orario di lavoro:

la timbratura del cartellino;

il tempo necessario per la vestizione e la vestizione quando è d’obbligo una divisa ed è disciplinato il tempo e il luogo in cui deve avvenire;

l’entrata ed uscita dal pozzo nelle cave e nelle miniere.

Il luogo della prestazione lavorativa è un elemento fondamentale del contratto di lavoro subordinato. Per quanto nella maggior parte dei casi la sede di lavoro sia fissa e identificata in modo specifico al momento della stipula del contratto di assunzione, per particolari tipologie di attività può essere richiesto, occasionalmente o con maggior frequenza, lo svolgimento della prestazione lavorativa in luoghi differenti rispetto alla normale sede di lavoro contrattualmente definita. In queste ipotesi il datore di lavoro deve valutare se vi sia l’obbligo di erogare trattamenti economici aggiuntivi rispetto alla retribuzione ordinaria che vadano a remunerare il tempo impiegato dal lavoratore per raggiungere il luogo di temporanea assegnazione e per il rientro.

Va considerato orario di lavoro sia il tempo dedicato al lavoro che quello in cui il lavoratore è presente nel luogo di lavoro, disponibile a far fronte alle necessità del datore di lavoro con la propria attività, ad esempio per timbrare il cartellino, vestirsi, se è d’obbligo una divisa. Non rientra nella nozione di orario di lavoro, invece, il periodo di reperibilità del lavoratore, a meno che egli non venga effettivamente chiamato al lavoro.

Dubbi sono sorti in passato anche con riferimento alle ore di viaggio effettuate quando il lavoratore è in trasferta, ovvero quando presti temporaneamente la propria attività in un luogo diverso da quello in cui effettua normalmente la sua prestazione lavorativa. Poiché in generale, non rientrano nell’orario di lavoro tutte le attività preparatorie allo svolgimento della prestazione se avvengono quando il prestatore non è soggetto al potere direttivo del datore di lavoro ma può godere di una certa autonomia, le ore di viaggio non rientrano nell’orario di lavoro qualora il lavoratore sia libero di scegliere i tempi di partenza, il mezzo di trasporto e così via. La giurisprudenza con riferimento alla trasferta ritiene che qualora al lavoratore sia corrisposta un’indennità di trasferta di tipo retributivo, il tempo impiegato per raggiungere la sede di lavoro non sia da sommare al normale orario di lavoro perché l’indennità di trasferta è volta anche a compensare il disagio psico-fisico degli spostamenti; qualora, invece, l’indennità di trasferta abbia una funzione di rimborso delle spese sostenute dal prestatore di lavoro, se il tempo di viaggio avviene al di fuori dell’orario di lavoro va assimilato all’orario di lavoro.



martedì 21 novembre 2017

Lavoro. Whistleblowing è legge: tutelato il dipendente che denuncia illeciti



La legge sul whistleblowing, che reca disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato, contiene numerose e importanti novità.

Soffiatore di fischietto, in inglese 'whistleblower', detto anche impropriamente gola profonda (deep throat), identifica un individuo che denuncia pubblicamente o riferisca alle autorità attività illecite o fraudolente. E' il protagonista della nuova legge, ovvero è un lavoratore che, nello svolgimento delle proprie mansioni in amministrazioni pubbliche o in un'azienda privata, si accorge di una frode, un rischio o una situazione di pericolo, che possa arrecare un danno e lo segnala.

Quindi il cosiddetto whistleblowing è la segnalazione di attività illecite da parte del dipendente che ne sia venuto a conoscenza per ragioni di lavoro ed  è uno strumento legale usato per segnalare all'autorità giudiziaria, alla Corte dei conti, all'Autorità nazionale anticorruzione o al responsabile nella propria azienda di un eventuale pericolo sul posto di lavoro, frode, danno ambientale, false comunicazioni sociali, illecite operazioni finanziarie, casi di corruzione, concussione o negligenza medica.

Dopo la segnalazione il lavoratore non potrà essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, sottoposto ad altre misure di ritorsione e sarà vietato rivelarne l'identità. Si prevede il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento e la nullità di ogni atto discriminatorio o ritorsivo. L'onere della prova è invertito. Spetterà cioè al datore di lavoro dimostrare che le misure sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione del dipendente.

L'eventuale adozione di misure discriminatorie va comunicata dall'interessato o dai sindacati all'Anac che a sua volta ne dà comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica e agli altri organismi di garanzia. In questi casi l’Anac può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria a carico del responsabile da 5.000 a 30.000 euro, fermi restando gli altri profili di responsabilità. Inoltre, l’Anac applica la sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro a carico del responsabile che non svolga le attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute. La misura della sanzione tiene conto delle dimensioni dell'amministrazione.

Spetta poi all'amministrazione l’onere di provare che le misure discriminatorie o ritorsive adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente comunque sono nulli. Il segnalante licenziato ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno. Le tutele invece non sono garantite nel caso in cui, anche con sentenza di primo grado, sia stata accertata la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque reati commessi con la denuncia del medesimo segnalante ovvero la sua responsabilità civile, nei casi di dolo o colpa grave.

La nuova legge impone ai datori di lavoro di integrare e modificare i modelli organizzativi predisposti, ovvero dovranno individuare uno o più canali (di cui almeno uno di natura informatica) che consentano ai dipendenti di presentare, a tutela dell'integrità della società, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte.

Ogni tutela salta nel caso di condanna del segnalante in sede penale (anche in primo grado) per calunnia, diffamazione o altri reati commessi con la denuncia o quando sia accertata la sua responsabilità civile per dolo o colpa grave.



venerdì 3 novembre 2017

Retribuzione imponibile e minimali: come si determinano i contributi





La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente.

Con effetto dal 1° gennaio 2017, il minimale di retribuzione giornaliera per il tempo pieno, valido per la generalità dei lavoratori, è fissato in € 47,68. La retribuzione minima giornaliera per il calcolo dei contributi non deve essere inferiore al minimo contrattuale e al minimo legale. In particolare, il minimale contrattuale giornaliero è determinato sulla base delle tabelle retributive del contratto collettivo di settore e deve essere applicato anche dai datori di lavoro non aderenti, neppure di fatto, al CCNL. Il minimale legale rappresenta il “minimo dei minimi”, ovvero la soglia al di sotto della quale la retribuzione minima giornaliera non può comunque scendere.

Come calcolare i contributi?

La retribuzione imponibile utile al fine del calcolo della contribuzione previdenziale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi o individuali.

L’importo giornaliero della retribuzione imponibile, inoltre è soggetto al vincolo del controllo del minimale previsto dall’art 7 della legge 11 novembre 1983 n. 638, ovvero alla soglia minima pari al 9,5% del trattamento minimo di pensione in vigore al primo di gennaio.

La retribuzione minima giornaliera per il calcolo dei contributi, quindi deve essere non inferiore al maggiore dei due importi minimi, sia quello contrattuale che quello legale, se la retribuzione è superiore ad entrambi, andrà utilizzata quella effettiva.

I contributi entro il minimale sono i contributi previdenziali calcolati sul minimale di retribuzione imponibile: questo è il valore minimo che per legge deve essere rispettato per permettere l’accredito dei contributi, cioè il “reddito minimo” sul quale deve essere applicata l’aliquota contributiva, dunque su cui vanno calcolati i contributi. Normalmente i contributi previdenziali sono calcolati applicando un’aliquota alla retribuzione, o al reddito imponibile: quando, però, la retribuzione o il reddito sono inferiori a un determinato ammontare, detto minimale, i contributi sono calcolati applicando l’aliquota prevista al minimale e non al reddito effettivo.

Un esempio:

Tizio, che ha un negozio ed è iscritto alla Gestione Inps commercianti, guadagna, nell’anno, 5.000 euro;

l’aliquota previdenziale della Gestione commercianti è pari al 23,19% (salvo alcune eccezioni);

i suoi contributi dovrebbero quindi ammontare a 159,50 euro (il 23,19% di 5.000);

la Gestione commercianti, però, prevede un reddito minimale annuo pari a 548 euro: significa che chi ha un reddito inferiore a tale soglia, anche se non ha guadagnato nulla, deve comunque pagare i contributi sul minimale, come se avesse guadagnato, nell’anno, 15.548 euro;

Tizio, quindi, anziché pagare 1.159,59 euro, deve pagare 3.613,02 euro di contributi (3.605,58 contributo Ivs più 7,44 contributo maternità, calcolati sul minimale);

naturalmente, se il reddito è superiore, è a questo che deve essere applicata l’aliquota contributiva.

Per i lavoratori dipendenti è previsto un reddito, o stipendio minimale: se l’imponibile, di fatto, risulta inferiore al valore minimale determinato dall’Inps, i contributi si calcolano su quest’ultimo valore e gli accrediti sono diminuiti in proporzione.

Nel dettaglio, il minimale settimanale per l’accredito dei contributi obbligatori e figurativi per i lavoratori dipendenti ammonta al 40% del trattamento minimo di pensione in vigore al 1° gennaio di ogni anno.

Ciò vuol dire che poiché il trattamento minimo è pari a 501,86 euro, il minimale settimanale su cui calcolare i contributi è pari a 200,74 euro.

Quello annuale è invece pari a 10.438,48 euro (200,74 moltiplicato per 52 settimane).

I contributi settimanali calcolati sul minimale, per i dipendenti del settore privato, risultano così pari a 66,24 euro (200,74 per 33%, cioè l’aliquota complessiva Ivs a carico di dipendente e datore di lavoro), mentre quelli annuali devono risultare almeno pari a 3.444,48 euro (cioè 66,24 per 52).

Se è stato versato nell’anno un ammontare almeno corrispondente a tale cifra, il dipendente risulta assicurato per tutte e 52 le settimane. Se, invece, il lavoratore non raggiunge la retribuzione imponibile minima di 10.438,48 euro, i periodi coperti sono ridotti: la diminuzione è calcolata in proporzione a quanto versato, dividendo lo stipendio per il minimale settimanale.

Un esempio per comprendere meglio: se X, nell’anno, ha un imponibile di 8.500 euro, non si vedrà accreditate 52 settimane di contributi, ma soltanto 42 (ottenute dividendo 8.500 per il minimale settimanale di retribuzione, ossia per 200,74).

In pratica, anche se X ha lavorato tutto l’anno, ai fini della pensione si vedrà accreditate 10 settimane in meno, come se non avesse lavorato per oltre 2 mesi. Questo succede perché non è previsto un numero minimo di ore di lavoro su cui versare i contributi. Di conseguenza, la contribuzione va calcolata tenendo conto dell’orario pattuito tra le parti nel contratto di lavoro, anche se inferiore a un eventuale orario minimo stabilito dal contratto collettivo.

Lo stesso minimale valido per gli artigiani e i commercianti è valido anche per i liberi professionisti e i lavoratori parasubordinati (co.co.co.) iscritti alla Gestione separata: tuttavia, per loro, i versamenti calcolati sul minimale non sono obbligatori, ma il minimale serve unicamente per rapportare, su base mensile e annuale, i contributi versati.

Un esempio:

Caio, lavoratore parasubordinato, lavora per tutto l’anno come co.co.co., da gennaio a dicembre, ricevendo una retribuzione pari a 12.000 euro, liquidata mensilmente dal committente;

i contributi su 12.000 euro di reddito ammontano a 3.806,40 euro, di cui 1/3 sono a carico del lavoratore e 2/3 a carico del committente, che li versa all’Inps, Gestione separata (assieme a quelli a carico del collaboratore, che gli sono trattenuti dalla retribuzione) entro il 16 del mese successivo a quello in cui è erogato il compenso: il committente di Caio, dunque, ha versato 317,20 euro per 12 mesi;

tuttavia, nonostante Caio abbia lavorato per 12 mesi e il committente abbia versato i contributi ogni mese, alla fine dell’anno il lavoratore si vede accreditati soltanto 9 mesi di contribuzione: questo perché il suo reddito imponibile è sotto il minimale da assoggettare a contribuzione, dunque gli vengono accreditati soltanto i mesi di contributi corrispondenti ai contributi versati;
548 per 31,72% (l’aliquota contributiva valida per i co.co.co., nella Gestione separata) è pari, difatti, a 4.931,83 euro circa: questi sono i contributi annui calcolati sul minimale;

rapportando al mese i contributi minimali, abbiamo un ammontare di 410,99 euro circa: vuol dire che, perché sia accreditato almeno un mese di contributi, devono essere versati, nell’anno, almeno 410,99 euro;

poiché il committente di Caio ha versato 3.806,40 euro, Caio si vede accreditati, dunque, 9 mesi di contributi (3.806,40 euro/410,99): il risultato deve essere arrotondato solo per difetto e non per eccesso (quindi non si possono accreditare 10 mesi di contributi se i versamenti non sono almeno pari a 4109,90 euro).

Lo stesso procedimento di calcolo vale anche per i versamenti effettuati nel fondo delle casalinghe: in questo caso, il minimale è pari a 310 euro annui ed il minimale mensile a 25,82 euro.

In pratica, l’Inps accredita per ogni anno tanti mesi di contributi, quanti ne risultano dividendo l’importo complessivo versato nell’anno per 25,82 euro, sino a un massimo di 12 mesi. In questo modo:
se in un anno risultano versati 110 euro, ad esempio, i mesi accreditati sono 4;

perché risulti accreditata un’annualità intera, bisogna versare all’Inps 310 euro;

se in un anno sono versati più di 310 euro, i contributi non possono essere “spalmati” nelle annualità non interamente coperte, ma servono soltanto ad aumentare la misura dell’assegno di pensione.

In alcuni casi particolari i contributi non sono calcolati sulla retribuzione effettivamente erogata ma su retribuzioni stabilite convenzionalmente.

Per i lavoratori domestici l’importo del contributo orario è stabilito annualmente, sempre da una circolare dell’Inps. Tali importi sono stabiliti in relazione a retribuzioni convenzionali commisurate a fasce di retribuzione effettiva. L’Inps ha pubblicato la circolare per l’anno 2014 nella quale è confermato che per i lavoratori che prestano attività presso lo stesso datore di lavoro per più di 24 ore settimanali l’importo dei contributi da versare è fisso (nel 2014 pari a 1,01 euro ad ora, importo che si eleva a 1,08 euro all'ora in caso di contratto a termine) ed è indipendente dall’entità della retribuzione effettiva percepita. Per maggiori informazioni vediamo i contributi 2014 per lavoratori domestici.

Sulla base di retribuzioni convenzionali sono calcolati anche i contributi per i lavoratori italiani operanti all'estero, in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale. Tali retribuzioni sono fissate con decreto ministeriale.





lunedì 23 ottobre 2017

Benessere aziendale, cosa si intende?



Il benessere aziendale può essere definito come un pacchetto di servizi, beni e opere che l'azienda mette a disposizione dei propri dipendenti e dei loro familiari. Si tratta certamente di uno dei temi caldi del momento nel settore lavoro. Andiamo quindi a vedere di cosa si tratta.

Si definisce Welfare Aziendale l’insieme delle iniziative volte ad incrementare il benessere del lavoratore e della sua famiglia. Questo nuovo sistema di retribuzione sta diventando sempre più punto fondamentale di ogni realtà lavorativa, indipendentemente dal settore di riferimento.  Il bisogno di  Welfare si può dunque definire universale: un piano ben strutturato è in grado di soddisfare i bisogni e le esigenze dei lavoratori.

Sapere cos’è il Welfare è solo il primo passo per comprendere pienamente i vantaggi che derivano dall’attivazione di un piano, i benefici sono molteplici e bilaterali.  Il Welfare Aziendale  consente di introdurre un sistema di servizi a sostegno del collaboratore, con vantaggi fiscali per l’azienda e il dipendente.

Quali sono i vantaggi? Andiamo ad analizzarli nel dettaglio

Aumento del potere d’acquisto:

Contributi aziendali, sconti, promozioni, convenzioni per accedere a beni e servizi con condizioni esclusive

Incremento della produttività aziendale

Il miglioramento del clima aziendale porterà alla diminuzione del turnover e dell’assenteismo

Risparmio sul costo del personale

Ottimizzazione del vantaggio fiscale, servizi in ottemperanza alla norma vigente del TUIR art.51 – art.100

Miglioramento del clima all’interno dell’azienda

Aumento considerevole del benessere del lavoratore

Miglior conciliazione tra vita privata e professionale

Cominciamo col dire che non esiste una normativa uniforme ed organica in materia di Welfare aziendale. Pertanto tutto ciò che viene riconosciuto dal datore di lavoro e che è volto al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori rientra nel concetto di Welfare aziendale. Il Welfare aziendale infatti altro non è che il sistema che garantisce il benessere dei dipendenti.

Il Welfare viene già da tempo, riconosciuto, almeno in parte, dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Sono molteplici ad esempio, i CCNL che prevedono  dei versamenti obbligatori da parte del datore di lavoro, nell'ambito dell'assistenza sanitaria integrativa. Ma anche nell'ambito della previdenza complementare: quasi la totalità dei CCNL prevede che nel caso in cui il lavoratore decida di destinare il proprio TFR ai fondi di previdenza il datore di lavoro debba effettuare il versamento di un ulteriore contributo al fondo.

Rientra sempre nel concetto di Welfare anche lo Smart Working di recente istituzione. Previsto dalla l. n. 81/2017 e definito “lavoro agile”, lo Smart Working già di uso comune in molti paesi, si affaccia nel nostro ordinamento come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che certamente può ampiamente facilitare la conciliazione vita-lavoro.


Tuttavia il luogo dove il Welfare può trovare la propria massima applicazione è quello aziendale: le singole imprese sono infatti i soggetti che meglio possono individuare i bisogni dei dipendenti. Per scendere al livello pratico, di seguito vengono illustrate le fasi per l'istituzione del Welfare in azienda.

Analisi dei bisogni dei dipendenti
Il primo passo per attuare il Welfare in azienda sarà pertanto quello di effettuare un'indagine circa le misure più utili ai dipendenti. Qualora esse non fossero già conosciute dall'Ufficio del personale, pensiamo ad esempio alle aziende di notevoli dimensioni, si potrà procedere con la consegna di un questionario in forma anonima ai dipendenti che dovranno restituirlo compilato. Il questionario può essere articolato attraverso domande a risposta multipla e può lasciare spazio anche a suggerimenti da parte dei lavoratori

Analisi di fattibilità
L'azienda passa al vaglio le preferenze espresse dai dipendenti e individua le misure in concreto attuabili. Oggetto delle analisi aziendali saranno quindi sia l'organizzazione in concreto di tali misure che , e soprattutto, il budget da predisporre a tal fine. A questo punto l'azienda può procedere con l'elaborazione concreta del Welfare aziendale.

L'istituzione del Welfare può seguire due strade: l'accordo collettivo di secondo livello oppure il regolamento aziendale.

La stipula di un accordo sindacale aziendale è certamente la scelta più vantaggiosa per quelle aziende in cui esiste già un consolidato sistema di relazioni sindacali. Il Welfare può infatti rivelarsi come uno dei migliori strumenti per migliorare i rapporti con i sindacati.

In alternativa è sempre possibile procedere con la stesura di un regolamento aziendale. In questo caso la fonte del Welfare non avrà natura negoziale ma costituirà un atto unilaterale del datore di lavoro. Nell'elaborazione del Welfare si dovrà sempre fare attenzione a riconoscere misure omogenee per la totalità o per categorie di dipendenti individuabili attraverso criteri oggettivi. È infatti fondamentale non trasformare il Welfare in bonus ad personam. Conclusa la fase di elaborazione del piano, i dipendenti potranno iniziare a godere delle misure offerte dall'azienda. Una delle modalità più semplici è l'utilizzo delle piattaforme online, alle quali i dipendenti accedono avendo a disposizione una certa somma da "spendere".

Welfare aziendale: il nuovo incentivo
Come noto le misure di welfare, come anche i premi di produttività,  sono stati oggetto di agevolazioni fiscali , rafforzate notevolmente dalle leggi di stabilità 2016 e  2017 e rientrano anche in  un nuovo provvedimento.

È attualmente  in attesa di registrazione dalla Corte dei Conti il decreto interministeriale  che prevede l'istituzione di particolari agevolazioni nel caso la contrattazione aziendale preveda  misure di Welfare aziendale , volte  alla migliore conciliazione tra vita professionale e vita privata dei lavoratori. L'agevolazione consiste in un sgravio il cui ammontare verrà determinato in base alla disponibilità delle risorse ma non potrà essere superiore al 5% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dichiarata nell'anno.

Condizione essenziale per accedere allo sgravio è quella di aver depositato il contratto collettivo aziendale presso l'Ispettorato territoriale del lavoro.

L'accordo aziendale deve prevedere delle misure rientranti nelle seguenti aree di intervento:

Area di intervento genitorialità;

Area di intervento flessibilità organizzativa (smart working);

Welfare aziendale.

Il contratto collettivo aziendale deve riguardare almeno il 70% dei lavoratori occupati. Il termine di presentazione della domanda per il 2017 è al momento fissata al 15 novembre 2017 per i contratti depositati entro il 31 ottobre. Per la piena operatività si attendono tuttavia la pubblicazione in Gazzetta del decreto e le istruzioni operative da parte dell'INPS.

Confermate anche per il 2017 le agevolazioni fiscali per i premi di produttività e per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa.

Cosa è cambiato nel 2017. Sono stati elevati i limiti reddituali di accesso con conseguente ampliamento della platea dei lavoratori beneficiari. In particolare, si prevede un innalzamento, da 50.000 a 80.000 euro, del tetto massimo di reddito di lavoro dipendente, relativo al periodo d’imposta precedente, che consente l’accesso alla tassazione agevolata.

Gli importi dei premi erogabili aumentano da 2.000 a 3.000 euro nella generalità dei casi e da 2.500 a 4.000 per le aziende che coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro.

In tema di welfare aziendale, le agevolazioni si applicano anche nel caso di erogazione dei benefits sulla base delle previsioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro, degli accordi interconfederali o di contratti collettivi territoriali.



giovedì 7 settembre 2017

Buoni Pasto le novità del 2017



E' stato pubblicato nella GU n. 186 del 10 agosto 2017 il Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico n. 122 del 7 giugno 2017  "Regolamento recante disposizioni in materia di servizi sostitutivi di mensa,  in  attuazione  dell'articolo  144,  comma  5,  del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50".

Entrerà in vigore il 9 settembre 2017.

Dalla data di entrata in vigore il buono pasto si potrà spendere anche negli agriturismi, negli ittiturismi, nei mercatini e negli spacci aziendali. Il suo valore è comprensivo dell'Iva prevista per le somministrazioni al pubblico di alimenti e bevande. Il lavoratore a favore del quale è stato emesso il buono non potrà naturalmente cederlo a terzi, anche se si tratta di familiari o parenti e potrà acquistarvi alimentari e bevande e non beni differenti da quelli commestibili.

I buoni sono utilizzati esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato, a tempo pieno o parziale, anche qualora l'orario di lavoro non prevede una pausa per il pasto, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato.

Per essere valido, il buono pasto in forma cartacea deve contenere le seguenti informazioni:

codice fiscale - o ragione sociale - del datore di lavoro;

ragione sociale e il codice fiscale della società di emissione;

valore facciale;

termine temporale di utilizzo;

spazio da compilare indicando la data di utilizzo, la firma del titolare, e il timbro dell’esercizio dove questo viene utilizzato.

Nei buoni pasto in forma elettronica queste informazioni sono “associate elettronicamente ai medesimi in fase di memorizzazione sul relativo carnet elettronico”. Non c’è alcun obbligo di firma, poiché questo è sostituito dall’associazione dei dati del buono pasto ad un numero - o codice - identificativo riconducibile al titolare stesso.

Si ricorda che a far data dal 1° luglio 2015 «Non concorrono a formare reddito (..) le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro, nonché quelle in mense organizzate direttamente da datore di lavoro o gestite da terzi, o, fino all'importo complessivo giornaliero di euro 5,29, aumentato a euro 7 nel caso in cui le stesse siano rese in forma elettronica, le prestazioni e le indennità sostitutive corrisposte agli addetti ai cantieri edili, ad altre strutture lavorative a carattere temporaneo o ad unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione».

Il regolamento individua gli esercizi presso i quali può essere erogato il servizio sostitutivo di mensa reso a mezzo dei buoni pasto, le caratteristiche dei buoni pasto e il contenuto degli accordi stipulati tra le società di emissione di buoni pasto e i titolari degli esercizi convenzionabili, al fine di garantire la libera ed effettiva concorrenza nel settore, l'equilibrato svolgimento dei rapporti tra i diversi operatori economici, ed un efficiente servizio ai consumatori.

Si accettano buoni pasto fino a un massimo di otto. Per la prima volta sarà consentito l'uso cumulativo dei tagliandi, seppure non oltre il limite di otto buoni.

La novità non è di poco conto perché dovrebbe sgombrare il campo da una serie di dubbi sulla possibilità di fruire dei benefici fiscali a seguito dell'utilizzo di più ticket in contemporanea, ad esempio per fare la spesa al supermercato.

Non solo, ma potrebbe anche contribuire a far decollare il mercato dei ticket in formato elettronico, penalizzato forse dalla combinazione dell'immediata tracciabilità degli stessi (e facile accertabilità degli abusi) con le incertezze interpretative.

Andiamo con ordine. Il decreto dello Sviluppo economico del 7 giugno 2017, n. 122, disciplina i servizi sostitutivi di mensa di cui al decreto legislativo 50/2016, il Codice dei contratti di appalto pubblici.

Pur essendo un provvedimento di esecuzione e attuazione del Codice dei contratti pubblici in realtà ha una portata piuttosto ampia, tanto è vero che individua «gli esercizi presso i quali può essere erogato il servizio sostitutivo di mensa reso a mezzo dei buoni pasto, le caratteristiche dei buoni pasto e il contenuto degli accordi stipulati tra le società di emissione di buoni pasto e i titolari degli esercizi convenzionabili».

Il provvedimento è rilevante anche per le imprese private interessate da tali servizi. Rispetto all'articolo 285 del Dpr 207/2010, che disciplinava la medesima materia, è previsto un ampliamento degli esercizi convenzionati presso i quali si può usufruire del servizio di mensa e vengono introdotte dettagliate previsioni sul contenuto degli accordi tra società emittenti ed esercizi convenzionati.

In relazione agli esercenti che possono erogare il servizio sostitutivo di mensa, oltre alla vendita al dettaglio di generi alimentari e quelle per il consumo sul posto dei prodotti provenienti dai fondi di imprenditori agricoli e coltivatori, sono previsti anche gli agriturismi e gli ittiturismo.

Con riferimento ai termini di pagamento nei confronti degli esercizi convenzionati, la società emittente è tenuta a rispettare le disposizioni del decreto legislativo 231/2002, come modificato dal decreto legislativo 192/2012. Inoltre l'accordo deve contenere l'indicazione dello sconto incondizionato riconosciuto alla società emittente dai titolari degli esercizi convenzionati.

Dal punto di vista fiscale, la legge prevede che nessuna tassazione né contribuzione previdenziale è dovuta relativamente ai buoni pasto cartacei corrisposti ai lavoratori, fino a 5,29 euro al giorno, o in alternativa, fino a 7 euro per i ticket in formato elettronico (in quest'ultimo caso, con decorrenza 1°luglio 2015). Se si considera il numero degli otto buoni, il limite complessivo dovrebbe essere 42,32 euro nel caso di buoni cartacei e 56 euro nel caso dei ticket elettronici.

Finora, la non cumulabilità dei ticket poneva il sostituto di imposta nella scomoda situazione di dover decidere se l'utilizzo multiplo dei ticket non consentito dalla legge avesse ricadute anche fiscali. Ossia, se si dovessero applicare le ritenute fiscali e previdenziali sui valori eccedenti i 5,29 o i 7 euro giornalieri conseguenti l'utilizzo in contemporanea di più buoni.

Con il decreto 122/2017 la questione si semplifica, in quanto i limiti all'esenzione di 5,29 o 7 euro al giorno, dovrebbero essere relativi alla corretta erogazione dei ticket, giacché ne è consentito l'uso cumulativo fino a otto buoni. Perciò, il datore di lavoro dovrebbe innanzi tutto concentrarsi sulla corretta distribuzione dei tagliandi, più che sul loro corretto utilizzo.

A tal proposito, i ticket devono essere corrisposti alla totalità o a gruppi omogenei di lavoratori; i beneficiari possono essere dipendenti sia a tempo pieno che parziale e anche collaboratori; come base di calcolo, infine, i ticket agevolati vanno commisurati al numero di giorni in cui il lavoratore effettua la propria prestazione lavorativa.

I buoni pasto emessi in forma cartacea dovranno riportare – oltre al codice fiscale o alla ragione sociale del datore di lavoro, alla ragione sociale e il codice fiscale della società di emissione, al valore facciale espresso in valuta corrente, al termine ultimo di utilizzo e ad uno spazio destinato all’apposizione della data di utilizzo, della firma del titolare e del timbro dell’esercizio convenzionato ove il buono viene utilizzato – anche la seguente dicitura: «il buono pasto non è cedibile, né cumulabile oltre il limite di otto buoni, né commercializzabile o convertibile in denaro; può essere utilizzato solo se datato e sottoscritto dal titolare».

Le medesime indicazioni saranno riportate anche sui buoni pasto emessi in forma elettronica attraverso un’associazione elettronica sul relativo carnet elettronico ed il titolare del buono apporrà la firma in via digitale al momento dell'utilizzo.



giovedì 8 giugno 2017

Licenziabile il manager: quando e motivazioni



Per la Cassazione lo svolgimento di attività extralavorativa in orario aziendale lede il vincolo fiduciario con il dipendente con mansioni direttive.

Lo svolgimento di attività extra lavorativa durante l'orario di lavoro, seppure in un settore non interferente con quello curato dal datore di lavoro, da parte di un responsabile commerciale con notevole autonomia nella gestione della attività, offendei il vincolo fiduciario tra le parti anche quando non comporta un danno economico all'Azienda e giustifica il licenziamento. In tale caso infatti le energie lavorative del prestatore vengono distolte ad altri fini e, quindi, finisce per essere non giustificata la corresponsione della retribuzione che, in relazione alla parte commisurata all'attività non resa, costituisce per il datore un danno economico e per il lavoratore un profitto ingiusto.

La sentenza della Cassazione n. 13199 del 25 maggio 2017 sottolinea inoltre, e soprattutto,  come il vincolo fiduciario con il dipendente risulta maggiormente stringente nel caso di attività autonome e lontane dal controllo diretto del datore di lavoro ed è più grave la lesione del patto, anche se non ne risulta un danno economico all'azienda.

Un Area Manager era stato licenziato per giusta causa a seguito della contestazione di calo di produttività, e fatti di rilievo disciplinare consistiti:

nell'avere portato sul luogo di lavoro articoli da commercializzare per conto di una società di cui faceva parte;

nell'essersi recato durante l'orario di lavoro presso il negozio di cui era socio;

di aver accumulato 13 episodi di ritardo nell'arrivo in azienda.

Il suo ricorso era stato respinto dal Tribunale mentre la Corte di Appello, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento e condannato la società a reintegrare nel posto di lavoro con risarcimento del danno, il giudice di appello ha ritenuto infatti che:

a) il problema gestionale derivante  dall'attività commerciale propria sul luogo di lavoro era  privo di prova certa;

b) l'avere costituito una società commerciale per la vendita di capi di abbigliamento di per sé non costituiva illecito disciplinare, in quanto non interferiva con quella svolta dal datore di lavoro;

c) l'avere raggiunto in due occasioni l'esercizio commerciale in orario di lavoro con l'autovettura aziendale non giustificava il licenziamento ma solo una sanzione conservativa, in quanto era un fatto episodico e senza conseguenze sull'attività aziendale;

d) la natura flessibile dell'orario richiesto al lavoratore, connessa alle mansioni direttive affidategli, rendeva priva di rilievo la timbratura effettuata oltre le ore 9:30.

La società ha presentato ricorso in cassazione, affidandosi a due motivi:

la società ricorrente denuncia che la Corte territoriale  non aveva considerato le ragioni per le quali la flessibilità dell'orario era stata concessa, per cui il mancato rispetto delle previsioni contrattuali non poteva ritenersi giustificato ogniqualvolta il dipendente, prima di recarsi in ufficio, aveva svolto attività di carattere personale, senza recarsi nelle sedi e nelle agenzie dislocate sul territorio;

la Corte ha errato nel non ritenere grave l'accertata attività esterna durante l'orario di lavoro, a causa della breve durata e per la mancanza di danno e nel considerare che sottrae all'obbligo la mansione direttiva che, invece, costituiva un'aggravante nella valutazione della condotta del lavoratore. Al lavoratore, infatti, erano affidati lo sviluppo e la gestione dei rapporti commerciali che, comportando una notevole autonomia nella gestione della attività, presupponevano l'esistenza di uno stringente vincolo fiduciario fra le parti.

I giudici della Cassazione hanno ritenuto fondato il secondo motivo, in quanto ha errato la Corte territoriale nel sostenere che «un comportamento illecito ridotto temporalmente», dal quale non sia derivato un pregiudizio concreto per il datore di lavoro, non sia idoneo a ledere il vincolo fiduciario, perché detta lesione può verificarsi ogniqualvolta la condotta ponga in dubbio la correttezza del futuro adempimento . Nel caso in cui la prestazione richiesta al dipendente, si svolga al di fuori della diretta osservazione e del controllo da parte del datore di lavoro, è maggiore l'affidamento che quest'ultimo deve potere riporre nella correttezza e nella buona fede del lavoratore.

Accogliendo il secondo motivo, i giudici si sono basati sul principio secondo cui “l'obbligo di fedeltà impone al lavoratore di astenersi dal porre in essere, non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi altra condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei una situazione di conflitto con gli interessi del datore di lavoro”.

Ricordiamo inoltre che il licenziamento del manager può essere legittimo anche quando i conti dell’impresa sono buoni, ovvero non sussiste un periodo di crisi aziendale e non ci sono spese straordinarie da sostenere, se la “soppressione” della sua posizione lavorativa è funzionale a un nuovo assetto riorganizzativo che, oltre a determinare una migliore efficienza può anche accrescere i margini di guadagno del datore di lavoro che sono pur sempre una ‘garanzia’ per la tenuta generale dei livelli occupazionali complessivi di una azienda. E' quanto ha sottolineato la Cassazione nella sentenza con la quale lo scorso 7 dicembre.

martedì 14 marzo 2017

Colloquio disciplinare il lavoratore non puo mancare all'appuntamento fissato



In caso di provvedimento disciplinare, il lavoratore che fa richiesta di essere sentito oralmente per rendere le proprie giustificazioni non ha diritto ad un differimento dell'incontro per il colloquio fissato dal datore di lavoro per una certa data , in particolare se adduce una generica impossibilità di presenziare. Infatti l'obbligo di accogliere tale richiesta sussiste solo a fronte di un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. Questa la conclusione della Corte di Cassazione nella sentenza n. 5314 del 2 marzo 2017.

Nel caso specifico il lavoratore aveva richiesto un colloquio difensivo oltre il termine di 5 giorni  dal momento della contestazione dell'addebito. Prima di questo termine come noto il  datore di lavoro non puo irrogare il provvedimento disciplinare (nel caso di specie il licenziamento) per consentire al lavoratore di presentare eventuali giustificazioni del suo comportamento (art. 7 c.2 Statuto dei lavoratori). Tuttavia il datore, a seguito di tale richiesta, aveva convocato il lavoratore per una certa data,e questi non si era presentato , fornendo giustificazioni mediche vaghe e non documentate.

La Cassazione nel rigettare il suo ricorso contro il licenziamento, ha confermato la decisione del giudice di merito che non ha giudicato in alcun modo inadempiente il datore di lavoro . Ha inoltre precisato che "la convocazione è evidentemente strumentale al colloquio a difesa e  non esiste alcuna norma della negoziazione collettiva, né l'art. 55 del D. Igs n. 165 2001, che preveda un  diritto del lavoratore al differimento dell'incontro".

Il lavoratore ha diritto – entro 5 giorni di calendario dal ricevimento della lettera di contestazione, che salgono a 10 giorni nel settore del credito cooperativo e a 15 giorni nel settore delle Assicurazioni (ANIA) – a formulare le proprie difese per iscritto e/o richiedendo un colloquio.

E’ necessario evidenziare come ogni procedimento disciplinare faccia storia a sé; inoltre la casistica delle possibili infrazioni è pressoché illimitata: ne consegue che è impossibile creare una bozza standard di lettera di controdeduzioni.

A titolo assolutamente generale, la lettera di contestazione ha lo scopo d’individuare una o più inadempienze nella prestazione lavorativa ascrivibili al lavoratore interessato.  Ne consegue che la lettera di controdeduzioni o il colloquio devono evidenziare se il lavoratore abbia commesso veramente delle inadempienze; oppure se il lavoratore fosse realmente in grado di tenere una condotta diversa da quella contestata; oppure ancora se ciò fosse impossibile o almeno difficile per le circostanze più diverse.

E’ necessario esaminare la lettera di contestazione individuando quali siano i punti di forza e i punti di debolezza e poi fornire le spiegazioni in ordine a ciascun elemento della contestazione.
In primo luogo devono essere verificati gli aspetti formali – la tempestività, la precisione nell'identificare i fatti contestati ecc. – e quindi gli aspetti sostanziali.

Per valutare e controbattere gli aspetti sostanziali è necessario esaminare la normativa aziendale che disciplina l’operatività contestata. Qualora la contestazione riguardi materie di particolare difficoltà tecnica, sarà opportuno che il sindacalista si consulti con una persona che abbia specifiche competenze al riguardo; in caso di coinvolgimento di altri soggetti, occorre sempre ricordare il vincolo di riservatezza al quale è tenuto il sindacalista.

Qualora siano già state fornite al proprio responsabile o alle funzioni ispettive alcune spiegazioni sui fatti contestati, sarà necessario tenerne conto nella stesura delle difese.
Non serve tentare di smentire fatti oggettivi ed accertati.

E’ importante sottolineare problematiche che riguardano carenze organizzative e procedurali dell’azienda, carichi di lavoro, carenze nella formazione, carenze nella comunicazione di nuove normative, carenze procedurali eccetera.

La lettera di controdeduzioni deve essere redatta in maniera lineare e sintetica, senza polemiche, che avrebbero quale unico risultato quello di esacerbare la situazione.

Nella lettera sarà opportuno evitare di trattare questioni riguardanti difficoltà di carattere personale e così pure coinvolgere altri colleghi di lavoro; al più tali aspetti potranno essere trattati in sede di colloquio. In ogni caso, la chiamata di corresponsabilità con altri lavoratori è sempre da valutare con la massima cautela.

La scelta fra la lettera di controdeduzioni ed il colloquio dipende da diverse variabili.
La lettera è indicata nei casi in cui la situazione è nel complesso definita e vi sono sufficienti elementi per dare una giustificazione esaustiva dei fatti contestati.

Nei casi incerti, può essere preferibile il colloquio, che consente al sindacalista d’intervenire sulle situazioni di contesto già accennate (carenze organizzative e procedurali dell’azienda, carichi di lavoro, eccetera).

Il colloquio può dare una personalità fisica a quella che può apparire come una mera pratica burocratica dell’ufficio del personale, ma per alcuni può anche essere una situazione di stress e come tale da evitare.  La richiesta di colloquio permette però di avere qualche giorno in più per approfondire meglio la contestazione e preparare le proprie difese.

Nel colloquio l’azienda solitamente si limita a verbalizzare le spiegazioni del lavoratore: è quindi necessario arrivare al colloquio con una traccia scritta delle proprie difese.

E’ anche possibile presentare al colloquio una memoria scritta che affronta gli aspetti formali e sostanziali, mentre il sindacalista aggiungerà verbalmente le proprie osservazioni circa le situazioni di contesto (le lacune aziendali). Il verbale del colloquio risulterà così formato dalla memoria scritta e dalla verbalizzazione di quanto dichiarato dal sindacalista.

E’ possibile formulare le proprie difese in una lettera ed in più richiedere anche il colloquio.
E’ importante che la richiesta del colloquio sia esplicita: inserire nella lettera di controdeduzioni frasi del genere “il sottoscritto è a disposizione per ogni ulteriore chiarimento” è da evitare, perché crea incertezza su quali siano le concrete intenzioni del lavoratore.


martedì 7 febbraio 2017

Busta paga:i nuovi obblighi ai datori di lavoro



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente. Il pagamento dello stipendio potrà essere effettuato solo con versamento in banca o alle Poste e la firma sulla busta paga non costituirà più una prova dell’avvenuto pagamento.

Stipendi versati solo in banca o in posta e la firma sulla busta paga non costituirà prova dell'avvenuto pagamento. Sono queste le principali novità introdotte dal disegno di legge (c1041) recante "disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori".

In arrivo cambiamenti in tema di busta paga con il disegno di legge C1041 recante “Disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori” che vede come prima firmataria la Titti Di Salvo (Dem) e relatrice Valentina Paris (Pd) ed è attualmente all’esame della Commissione Lavoro della Camera in sede referente.

L’obiettivo principale del provvedimento è quello di evitare brogli sulle retribuzioni, andando a contrastare il fenomeno che affligge molti lavoratori ai quali i datori di lavoro corrispondono una retribuzione inferiore ai minimi fissati dalla contrattazione collettiva, pur facendo firmare loro una busta paga nella quale risulti una retribuzione regolare, dietro minaccia di licenziamento o dimissioni in bianco.

Il Ddl prevede quindi che il versamento dello stipendio possa avvenire solo in banca o alla posta, eliminando al contempo la validità probatoria della firma apposta sulla busta paga per l’avvenuto pagamento della retribuzione. Il tutto senza caricare di nuovi oneri imprese e/o lavoratori, allo scopo è prevista, entro tre mesi dall’entrata in vigore della norma, la stipula di una convenzione tra il Governo, Associazione bancaria italiana e Poste italiane Spa per individuare gli strumenti bancari e postali idonei per consentire ai datori di lavoro di eseguire il pagamento della retribuzione ai propri lavoratori.

Sarà il lavoratore, al momento della firma del contratto, a decidere per il pagamento mediante:

accredito diretto sul proprio conto corrente;

emissione di un assegno da parte dell’istituto bancario o dell’ufficio postale, consegnato direttamente al lavoratore (o ad un delegato in caso di comprovato impedimento);

pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale.

I datori di lavoro o committenti non potranno più corrispondere la retribuzione per mezzo di assegni o di somme contanti di denaro, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

In fase di assunzione il datore di lavoro dovrà comunicare, al Centro per l’Impiego competente per territorio gli estremi dell’istituto bancario o dell’ufficio postale che provvederà al pagamento delle retribuzioni al lavoratore, nel rispetto delle norme sulla privacy. La comunicazione, per evitare di attribuire nuovi carichi burocratici ai datori di lavoro, sarà inserita nello stesso modulo che i datori di lavoro inviano obbligatoriamente al Centro per l’impiego in caso di nuove assunzioni. Per annullare l’ordine di pagamento il datore di lavoro dovrà trasmettere alla banca o alle Poste copia della lettera di licenziamento/dimissioni del lavoratore.

In caso di inadempimento sono previste sanzioni amministrative pecuniarie da 5mila a 50mila euro. Per la mancata comunicazione al Centro per l’Impiego è prevista una sanzione di 500 euro seguita da un accertamento della direzione provinciale del lavoro.

Sono esclusi da tali obblighi i datori di lavoro non titolari di partita IVA, i rapporti di lavoro domestico e familiare e i rapporti instaurati dai piccoli o piccolissimi condomini.

l provvedimento che si compone di 5 articoli introduce un semplice meccanismo che consiste nel rendere obbligatorio il pagamento delle retribuzioni ai lavoratori (nonché ogni anticipo), attraverso gli istituti bancari o gli uffici postali.

La scelta del sistema di pagamento è rimessa direttamente al lavoratore, il quale potrà optare per l'accredito diretto sul proprio conto corrente, per l'emissione di un assegno (consegnato direttamente al lavoratore o in caso di comprovato impedimento a un suo delegato) oppure per il pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale.

Viene vietato in sostanza ai datori di lavoro il pagamento della retribuzione a mezzo di assegni o contante qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

Si stabilisce, inoltre, che la firma della busta paga non costituisce prova dell'avvenuto pagamento della retribuzione.

Il provvedimento fissa l'obbligo per il datore di lavoro, al momento dell'assunzione, di comunicare al centro per l'impiego competente gli estremi dell'istituto bancario o dell'ufficio postale che provvederà al pagamento delle retribuzioni al lavoratore, nel rispetto delle norme sulla privacy.

La comunicazione, per evitare di attribuire nuovi oneri burocratici ai datori, sarà inserita nello stesso modulo che gli stessi inviano obbligatoriamente al centro per l'impiego quando effettuano nuove assunzioni. La modulistica, quindi, dovrà essere opportunamente modificata (dai centri per l'impiego) entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge per permettere l'invio corretto della comunicazione anche in modalità telematica.

Allo stesso modo, l'ordine di pagamento potrà essere annullato soltanto trasmettendo alla banca o alle poste copia della lettera di licenziamento o delle dimissioni del lavoratore, rese secondo le modalità di legge, fermo restando l'obbligo di effettuare tutti i pagamenti dovuti al lavoratore dopo la risoluzione del rapporto di lavoro.

La convenzione - La proposta di legge prevede, inoltre, la stipula di una convenzione (entro tre mesi dall'entrata in vigore) tra il Governo e l'Associazione bancaria italiana e la società Poste italiane Spa che individua gli strumenti bancari e postali idonei per consentire ai datori di lavoro di eseguire il pagamento della retribuzione ai propri lavoratori, con l'importante previsione che ciò non deve determinare nuovi oneri né per le imprese nè per i lavoratori.

Le esclusioni - Il ddl esclude dagli obblighi introdotti i datori di lavoro che non sono titolari di partita Iva, i quali spesso non sono neanche titolari di un conto corrente. In ogni caso sono esclusi dalla pdl, i rapporti di lavoro domestico e familiare (nei quali i datori spesso sono persone anziane o disabili), così come i rapporti instaurati dai piccoli o piccolissimi condomini (ad es. per pulizia scale o manutenzione verde condominiale).

Le sanzioni - Sono, infine, previste pesanti sanzioni pecuniarie (da 5mila a 50mila euro) per i datori di lavoro che non ottemperano agli obblighi introdotti dalla legge. Chi non comunica al centro per l'impiego competente per territorio gli estremi dell'istituto bancario o dell'ufficio postale che effettuerà il pagamento delle retribuzioni è soggetto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di 500 euro e al successivo accertamento della direzione provinciale del lavoro, che procederà alle conseguenti verifiche.





giovedì 8 dicembre 2016

Busta paga trattamento fine rapporto



Il trattamento di fine rapporto (conosciuto anche come liquidazione o buonuscita) è una somma accantonata dal datore di lavoro e che viene corrisposta al lavoratore dipendente nel momento in cui il rapporto di lavoro cessa per qualsiasi motivo. Per questa ragione l'accantonamento annuo del TFR viene considerato dal datore di lavoro come un normale costo di competenza dell'esercizio (al pari del salario stesso). In passato il TFR veniva chiamato indennità di anzianità perché il suo scopo era quello di fungere da buonuscita per i lavoratori che rimanevano per molti anni a lavorare in azienda.

I lavoratori dipendenti possono scegliere di mantenere il TFR in azienda (dunque come liquidazione) oppure di versarlo in un fondo pensione, unitamente alla retribuzione, la quota di trattamento di fine rapporto maturata mensilmente.

Il TFR matura durante lo svolgimento del rapporto di lavoro e riveste carattere retributivo, costituendo quella parte di retribuzione accantonata il cui pagamento è differito al momento della cessazione del rapporto stesso.

Il calcolo del TFR è l'importo che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore al termine del rapporto di lavoro e a richiesta dopo un periodo (anticipazione del TFR), di solito 8 anni di servizio nella stessa azienda in determinati casi stabiliti dalla legge come, ad esempio, la necessità di affrontare importanti spese medico-sanitarie. L'anticipazione è limitata al 70% dell'importo liquidato in caso di risoluzione del contratto di lavoro.

Il meccanismo di calcolo prevede che il TFR si calcoli sommando per ogni anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione annua dovuta, divisa per 13,5.

La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese pari o superiori a 15 giorni. La quota della retribuzione annuale accantonata deve essere rivalutata ogni anno al 31 dicembre con l'applicazione di un tasso dell' 1,5% in misura fissa e del 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo (per le famiglie di operai ed impiegati) accertato dall'Istat.

Per cominciare il calcolo del TFR è necessario essere in possesso di tutta la documentazione completa del proprio rapporto di lavoro con il datore di lavoro che deve erogare il TFR. Detto questo ne distinguiamo due diversi tipi: il Tfr lordo, che serve ai fini del calcolo di quanto spetta al lavoratore dipendente, e quello netto, che rappresenta la cifra effettiva in denaro che questi percepirà.

Il primo passo per capire a quale cifra corrisponderebbe il TFR netto in busta paga è quello di calcolare il tfr lordo: ovvero, mediante la somma delle quote accantonate in un anno lavorativo (che corrispondono alla quota di retribuzione lorda annua divisa per 13.5 meno il contributo fondo adeguamento pensione (fap) pari allo 0.50% della retribuzione soggetta a contribuzione inps (imponibile previdenziale).L’aliquota da applicare al TFR, in caso di cessazione del rapporto di lavoro ,corrisponde ad un valore medio cosi’ calcolato nel modo seguente:

a) Si determina in primo luogo il TFR lordo complessivo ;

b) Si divide poi il TFR complessivo per il numero di anni e si moltiplica il risultato per 12 (mesi), ottenendo così il reddito annuale di riferimento;

c) Si calcola infine l’aliquota Irpef media , come rapporto tra l’imposta ( determinata applicando al reddito annuale di riferimento l’ aliquota IRPEF vigente ) e l’ammontare del reddito annuo di riferimento; L’aliquota cosi calcolata si applica alla base imponibile;

Come viene calcolato il TFR: un esempio

Si supponga che la retribuzione annua Lorda di un lavoratore sia pari a € 24000 e che la quota accantonata annualmente sia pari a € 1777.77.

A questo punto è necessario moltiplicare quest’importo per gli anni lavorativi. Ad esempio per 15 anni di lavoro, il TFR lordo complessivo corrisponderà a € 26.666.

Per ottenere il reddito annuale di riferimento occorrerà dividere 26.666 per il numero di anni (15) e il risultato moltiplicarlo per 12 mesi :  26.666/15*12= 21,333.24

L’imposta relativa al reddito di riferimento  sarà di € 5159  così ottenuta :
23% di 15000= 3450 €
27%  di 6333.24 =  1709 €
L’aliquota definitiva  relativa al reddito di riferimento:  5159/21,333.24*100= 24.18%

Imposta netta  : 26,666 * 24.18% =  € 6,447

Dunque il TFR netto ammonterà  a :€  26,666 - € 6,447= € 20,219 ( tfr lordo – imposta netta)

La previdenza complementare

Fino al 31.12.2006, il trattamento di fine rapporto non destinato alla previdenza complementare introdotta con il d.lgs. n. 124/1993 al fine di assicurare livelli più elevati di copertura previdenziale, restava in azienda sino alla cessazione del rapporto di lavoro.

A partire dall'1 gennaio 2007 ciascun lavoratore è chiamato a decidere se destinare il proprio TFR alle forme pensionistiche complementari (indicando il fondo pensione prescelto) oppure se mantenerlo presso il datore di lavoro, formulando esplicito rifiuto, altrimenti l'adesione al fondo complementare avviene automaticamente tramite il meccanismo del silenzio-assenso.

La scelta va effettuata entro 6 mesi dall'assunzione, se avvenuta successivamente all'entrata in vigore della riforma (mentre per i lavoratori già in servizio è stata espressa entro il 30.6.2007).

In ogni caso, anche laddove il lavoratore non aderisca alla previdenza complementare, la legge prevede per le aziende con almeno 50 dipendenti che le quote accantonate di TFR non rimangano presso il datore di lavoro, dovendo confluire nell'apposito fondo istituito presso l'Inps.

Il “Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto” è stato istituito presso l'Inps dall'art. 2 della l. n. 297/1982, “con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del TFR, di cui all'art. 2120 c.c., spettante ai lavoratori o loro aventi diritto” ed esteso dal d.lgs. n. 80/1992 anche ai crediti di lavoro diversi dal TFR secondo i presupposti dettati dall'art. 2 dello stesso.

La condizione necessaria per far sorgere il diritto al pagamento del TFR a carico del Fondo di garanzia è l'intervento della situazione di insolvenza del datore di lavoro (Cass. n. 9068/2013) e i casi in cui il lavoratore o i suoi aventi diritto possono richiedere il pagamento del trattamento di fine rapporto e dei relativi crediti accessori sono espressamente disciplinati dall'art. 2, commi 2-5 della l. n. 297/1982 (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, esperimento esecuzione forzata quando le garanzie patrimoniali risultino in tutto o in parte insufficienti).

L'anticipazione del TFR

La legge prevede che il lavoratore, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro, possa chiedere, in costanza di rapporto, un'anticipazione del TFR non superiore al 70% sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta.
Il datore di lavoro concede le anticipazioni richieste annualmente entro i limiti del 10% degli aventi titolo e comunque del 4% del numero totale dei dipendenti.

Come espressamente disposto dalla legge, la richiesta deve essere giustificata dalla necessità di far fronte:

-a spese sanitarie per terapie o interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche. Il carattere di straordinarietà che giustifica la concessione dell'anticipazione va inteso nel senso di particolare complessità o pericolosità delle terapie e degli interventi ovvero di rilevanza importanza medico-economica;

-all'acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile. Il diritto sussiste anche nel caso in cui l'acquisto venga effettuato dal coniuge in comunione dei beni;

L'art. 5 del d.lgs. n. 151/2001 ai sensi dell'art. 7 della l. n. 53/2000 prevede, inoltre, che è possibile ottenere l'anticipazione del TFR per far fronte alle spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei “congedi parentali”.

Pertanto, per definizione, il TFR non ha alcun legame con la prestazione pensionistica pubblica e non rappresenta in alcun modo una fonte di finanziamento di quest’ultima, ma può piuttosto essere utilizzato per finanziare la previdenza complementare.

Per esempio, se un lavoratore dipendente privato decide di destinare il TFR maturato nel corso della vita lavorativa a un forma di previdenza complementare può raggiungere, al pensionamento, un’integrazione alla pensione pubblica variabile tra il 6% e il 12% del reddito.

È utile ricordare che chi destina il proprio TFR a un fondo pensione può in caso di necessità ottenere anticipazioni: fino al 75% del montante accumulato per spese mediche e prima casa e fino al 30% senza motivazioni (dopo 8 anni di adesione al fondo). Un'opportunità, in caso di emergenza, da non sottovalutare.







domenica 30 ottobre 2016

Lavorare con busta paga e Partita IVA



In alcune condizioni è possibile avere sia un lavoro dipendente o assimilato che una Partita IVA, questo significa ricevere sia una busta paga aziendale, sia redditi derivanti da lavoro autonomo. La scelta di avere un doppio reddito, da dipendente e da autonomo, può derivare ad esempio dalla necessità o dalla volontà di migliorare la propria condizione economica o anche semplicemente dalla possibilità di guadagnare degli extra facendo fruttare una propria passione o un proprio hobby.

Se si vuole intraprende questa strada, bisogna avere chiari alcuni passaggi:

versamento dei contributi INPS;

obblighi di comunicazione ai datori di lavoro;

cumulo dei redditi.

Il dipendente privato che decide di aprire una partita IVA, come ditta che sia individuale o società o come libero professionista, non deve trasgredire divieti inseriti nel contratto di lavoro. Anche per quanto riguarda la comunicazione con il proprio datore di lavoro, non esistono obblighi espliciti, potrebbe però essere comunque meglio comunicare tutte le eventuali informazioni, evitando così qualsiasi problematica.

Per quanto riguarda le regole previste dalla legge è importante ricordare l'art. 2015 del Codice Civile, che tratta l'obbligo di fedeltà da parte del lavoratore. Per questo motivo il lavoratore non può divulgare notizie riguardanti la propria azienda, o allo stesso tempo non può farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio. In caso di violazione dell'obbligo di fedeltà il dipendente può essere licenziato ed inoltre è tenuto a risarcire il datore di lavoro dei danni subiti. La violazione dell’obbligo di fedeltà costituisce inadempimento contrattuale che dà luogo a responsabilità disciplinare e, nella maggior parte dei casi, integra la giusta causa di licenziamento. Il lavoratore è inoltre tenuto al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro (Cass. n. 6473/1993).

Infine per quanto riguarda contribuzione previdenziale INPS, per il dipendente a tempo indeterminato full time, che avvia un’attività d’impresa commerciale, non è necessaria l’iscrizione alla Gestione commercianti dell’INPS né il versamento di ulteriori contributi. Per un lavoratore dipendente che avvia un’attività da libero professionista, è previsto l’obbligo di iscriversi alla Gestione separata INPS versando il contributo proporzionale del 18%.

Un dipendente privato può aprire una partita IVA, come ditta individuale/società o come libero professionista, senza problemi di compatibilità, ovvero può aprire una propria attività conservando il proprio lavoro alle dipendenze di un’azienda privata a patto che non vi sia concorrenza tra lavoro svolto come dipendente e quello a partita IVA, se il contratto lo vieta espressamente. Se non vi è esplicito divieto non vi è alcun problema di coesistenza tra le due attività. In generale non vige alcun obbligo di comunicazione al datore di lavoro, anche se è generalmente conveniente informare l’azienda per non incorrere in problematiche che potrebbero portare ad un licenziamento per giusta causa.

Per quanto riguarda la contribuzione previdenziale INPS:

in caso di lavoratore dipendente a tempo indeterminato a tempo pieno (ovvero con almeno 26 ore lavorative settimanali) che avvia un’attività d’impresa commerciale, se è possibile qualificare il lavoro in azienda come prevalente sia in termini di tempo che in termini reddituali (reddito annuo come lavoratore dipendente maggiore del reddito derivante dall'attività commerciale), non è necessaria l’iscrizione alla Gestione commercianti dell’INPS né il versamento di ulteriori contributi.

Una volta avviata l’attività l’INPS invierà al lavoratore comunque una comunicazione in merito all'iscrizione del soggetto alla Gestione commercianti, tuttavia sarà sufficiente rispondere spiegando i motivi che prevedono la cancellazione dell’iscrizione e provando l’esistenza del rapporto di lavoro dipendente allegando una copia dell’ultima busta paga percepita.

Nel caso di lavoratore dipendente che avvia un’attività da libero professionista, è previsto l’obbligo di iscriversi alla Gestione separata INPS versando il contributo proporzionale del 18%;

in caso di contratto di lavoro a tempo determinato bisogna valutare se complessivamente nel corso dell’anno il periodo trascorso come lavoratore dipendente può essere o meno considerato prevalente rispetto all'attività commerciale esercitata.




Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...
BlogItalia - La directory italiana dei blog