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lunedì 21 settembre 2015

Riforma pensioni: flessibilità in uscita, opzione donna, opzione uomo e blocca il turn over


L’ipotesi allo studio del governo. Giuliano Poletti riaccende le speranze  per chi spera nella flessibilità pensionistica:” Stiamo lavorando sulle riforma delle pensioni. Sappiamo che c'è un aspetto da risolvere legato a uno scalino alto che blocca il turn over introdotto dalla Legge Fornero.

Il Governo lavora all'uscita anticipata delle donne dal lavoro dal 2016 a 62-63 anni con 35 di contributi: si tratta di una nuova opzione donna - spiegano tecnici dell'Esecutivo - che prevedrebbe, invece del ricalcolo contributivo, una riduzione dell'assegno legata alla speranza di vita e pari a circa il 10% per tre anni di anticipo rispetto all'età di vecchiaia. Senza interventi sulla riforma Fornero le donne del settore privato l’anno prossimo si troveranno di fronte a un nuovo scalino con il passaggio dell’età di vecchiaia da 63 anni e 9 mesi a 65 anni e 7 mesi (1 anno e 10 mesi in più rispetto al 2015).

La penalizzazione sarebbe meno pesante perché non sarebbe previsto il ricalcolo contributivo sull'intera vita lavorativa (come nell’opzione donna che scade quest’anno) ma solo un sistema legato alla speranza di vita. In pratica chi decide di uscire prima avrà un assegno decurtato.

Si studia anche un meccanismo di flessibilità per gli uomini guardando però solo a coloro che hanno perso il lavoro a pochi anni dalla pensione. Si lavora a una sorta di opzione uomo (sempre con decurtazione legata alla speranza di vita) ovvero la possibilità di accedervi con 3 anni di anticipo rispetto all'età di vecchiaia (66 anni e 7 mesi dal 2016) con un taglio dell'assegno legato non al ricalcolo contributivo, ma all'equità attuariale, cioè al tempo più lungo di percezione dell'assegno. Il Governo - spiegano tecnici dell'Esecutivo - studia anche il prestito pensionistico e una sorta di assegno di solidarietà per le situazioni di maggiore disagio, ossia all'anticipo di una parte della prestazione da restituire una volta che si raggiungono i requisiti per la pensione. Per le situazioni di maggiore disagio si ipotizza una ''pensione di solidarietà'', ovvero una sorta di ammortizzatore sociale di accompagnamento alla pensione.

Vediamo le proposte di Cesare Damiano

Pensione anticipata. Tra le varie idee è quella che è risultata a lungo la più gradita ai pensionandi. La soluzione vedrebbe l’uscita dal lavoro esattamente come avveniva nella pensione di anzianità soppressa dalla Fornero ma con qualche anno di ritardo. Età minima 62 anni a cui aggiungere 38 anni di contributi, con 63 anni servirebbero invece 37 anni di versamenti e così via (nella formulazione originaria occorrevano 60 anni di età più 40 di contributi).  Oggi servono 42 anni e 6 mesi per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne per accedere alla pensione anticipata (che è il nome dell’istituto, sebbene molti intendono il termine come mera anticipazione della pensione). E’ una delle soluzioni più “difficili” da attuare a causa degli elevati costi: si stima una spesa superiore ai 10 miliardi.

Pensione flessibile con penalizzazioni decrescenti. Età minima 62 anni con 35 anni di contributi: si percepirebbe inizialmente un assegno decurtato dell’8% che andrebbe a scalare fino a raggiungere lo zero (quindi fine della penalizzazione) a 66 anni. Con 41 anni di contributi si conseguirebbe la pensione di vecchiaia indipendentemente dall’età, come accadeva quando era in vigore la pensione di anzianità (all'epoca bastavano 40 anni di contributi).

Sul tema dei pensionamenti flessibili, si potrebbe individuare una strada che si potrebbe tradursi in realtà un nuovo meccanismo di flessibilità, prendendo in esame l'ipotesi Damiano del pensionamento anticipato con la quota 97, seppur con una maggiore percentuale di penalizzazione per ogni anno mancante dal raggiungimento dei termini di pensionamento. Al posto del 2% iniziale, si potrebbe passare ad un 3 o 4%, con l'effetto di arrivare a toccare un tetto massimo attorno al 15% per coloro che decidessero di uscire dal lavoro attorno ai 62 anni di età.

L'intervento per rendere flessibile l'uscita in pensione ci sarà. Ma dovrà essere compatibile con il quadro dei conti pubblici e degli obiettivi definiti dal Def, il Documento di Economia e Finanza con il quale il governo ha definito le stime per il Paese nel prossimo futuro. E quindi non potrà che essere minimo, focalizzato sulle categorie con maggiori problemi. "Sono possibili correttivi per chi è vicino ai requisiti ma in difficoltà con il lavoro", ha spiegato il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan.

giovedì 30 aprile 2015

Pensioni, bocciato il blocco della rivalutazione, la Consulta boccia la Fornero




Buco da cinque miliardi, guaio per l’Inps. Lo stop alla rivalutazione delle pensioni è incostituzionale. La norma che, per il 2012 e 2013, ha stabilito, «in considerazione della contingente situazione finanziaria», che sui trattamenti pensionistici di importo superiore a tre volte il minimo Inps (circa 1.500 euro lordi) scattasse il blocco della perequazione, ossia il meccanismo che adegua le pensione al costo della vita, è incostituzionale. Lo ha deciso la Consulta, bocciando l'art. 24 del decreto legge 201/2011 in materia di perequazione delle pensioni, ossia la cosiddetta norma Fornero contenuta nel ''Salva Italia'' varato dal governo Monti.

In pratica, con quelle disposizioni, ribattezzate “legge Fornero” e subito contestate venivano bloccati gli aumenti di tutti i trattamenti più ricchi, quelli che superavano di tre volte il minimo Inps. Per la Corte Costituzionale, nonostante quel blocco fosse motivato dalla «contingente situazione finanziaria», ovvero dalla crisi che finanziaria che stava aggredendo il nostro Paese, è incostituzionale. Secondo i supremi giudici, infatti, «l’interesse dei pensionati, in particolar modo i titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio».

Il blocco dell'indicizzazione delle pensioni bocciato dalla Consulta ha toccato una platea di circa 6 milioni di persone, ovvero quante sono quelle con un reddito da pensione superiore a 1.500 euro mensili lordi, secondo gli ultimi dati dell'Istat sulla previdenza. Si tratta di oltre il 36% del totale degli oltre 16,3 milioni di pensionati italiani.

Il blocco della perequazione per le «non fu scelta mia», si è subito difesa l'ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero ricordando che fu una decisione «di tutto il Governo» presa per fare risparmi in tempi brevi. «Vengo rimproverata per molte cose - ha aggiunto Fornero - ma quella non fu una scelta mia, fu la cosa che mi costò di più». Il 4 dicembre 2011 Fornero, all’epoca ministro del Welfare, non riuscì a trattenere le lacrime mentre in diretta tv insieme alla squadra del governo Monti, illustrava nel dettaglio agli italiani quali e quanti sacrifici li attendono con la manovra appena varata per far uscire il Paese dalla crisi. E fu la parola “sacrificio” a rimanerle bloccata in gola, impedendole di proseguire la frase che stava pronunciando sul blocco delle pensioni.

Secondo la Consulta, le motivazioni indicate alla base del decreto sono blande e generiche, mentre l'esito che si produce per i pensionati è pesante. «Deve rammentarsi - spiega la sentenza - che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull'ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato».

Manageritalia e Federmanager, le organizzazioni che hanno presentato ricorso alla Consulta ora, ovviamente, battono cassa. «Si è fatta giustizia, una sentenza che attendevamo – ha commentato Giorgio Ambrogioni, presidente Federmanager. Secondo cui i giudici hanno «tenuto conto di quello che la stessa Corte aveva affermato in particolare nell'ultima sentenza del 2010 nella quale aveva rivolto un monito al legislatore a non reiterare simili interventi iniquamente redistribuivi. Con i quattro blocchi precedenti attuati dal 1998 le nostre pensioni hanno subito complessivamente perdite definitive del potere di acquisto superiori al 20%. Siamo stati costretti - prosegue Ambrogioni - a rivolgerci alla magistratura perché il legislatore si è dimostrato sordo rispetto alle nostre legittime e sacrosante richieste». «Ora si proceda presto con i rimborsi» sostiene il presidente di Manageritalia, Guido Carella che assieme ad Ambrogioni si aspetta «che si arrivi in tempi rapidi a trovare il modo per compensare le migliaia di persone danneggiate dal provvedimento e auspichiamo che da oggi in poi l’abitudine di utilizzare le pensioni per fare cassa venga definitivamente accantonata, smettendo così di far vivere nell'incertezza i pensionati».



mercoledì 11 marzo 2015

Jobs act e la cancellazione per il rito Fornero



A seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei D.Lgs. n. 22/2015 e 23/2015, entrati in vigore il 7 marzo scorso, cambiano le regole per le aziende che intendono assumere personale con contratto a tempo indeterminato. Per i neo assunti, infatti, si applica il rinomato “contratto a tutele crescenti” che prevede importanti modifiche in caso di licenziamento illegittimo. In pratica, sono previste tutele crescenti per il lavoratore in funzione dell’anzianità di servizio. Le nuove regole, tuttavia, non si applicano soltanto ai neo assunti, ma anche ai lavoratori che vengono stabilizzati e a tutti i lavoratori, anche se assunti prima del 7 marzo 2015, nel caso in cu il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute dopo l’entrata in vigore del decreto, superi la soglia dei 15 dipendenti.

A continuazione del licenziamento, il datore di lavoro può offrire al dipendente un importo esentasse equivalente a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio (con un minimo di due mensilità e un massimo di 18). Se la soluzione conciliativa dà esito negativo, uno degli scenari che può prefigurarsi è quello del ricorso al giudice del lavoro.

A tale proposito, non potrà essere più utilizzato il rito Fornero, in quanto il decreto pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale prevede espressamente che le disposizioni dell'articolo 1, commi da 48 a 68, della legge 92/12 non si applichino ai licenziamenti intimati all'esito del contratto di lavoro a tutele crescenti.

La relazione illustrativa al decreto legislativo chiarisce che la ragione alla base della decisione di eliminare il rito Fornero per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti risiede nel fatto che il nuovo apparato sanzionatorio è totalmente svincolato dal precedente regime di tutela previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che costituisce, invece, la norma di riferimento sulla quale era stato ritagliato il rito abbreviato per le controversie in materia di impugnazione dei licenziamenti.

La legge 92/12 aveva introdotto il rito abbreviato con il preciso scopo di agevolare e rendere più rapida la conclusione delle controversie sui licenziamenti regolati dall'articolo 18 in una funzione, tra l'altro, di tutela delle imprese rispetto al danno economico e ai disagi organizzativi che potevano prodursi a causa della durata eccessivamente lunga del processo del lavoro ordinario.

Il rito Fornero ha determinato, peraltro, sin dalla sua prima applicazione enormi disagi sia per gli avvocati, sia per i magistrati chiamati ad utilizzare il nuovo strumento processuale, in quanto si erano palesate letture di segno opposto rispetto ad una serie composita di questioni procedurali. Non si contano le decisioni rese dai Tribunali su aspetti decisivi del nuovo procedimento, quali la natura obbligatoria o facoltativa del rito e la necessità che il giudice dell'opposizione fosse, o meno, diverso da quello che aveva trattato la fase sommaria.

Tutte queste questioni hanno finito per appesantire, invece che semplificare, il ruolo dei magistrati impegnati sul fronte delle cause di lavoro, tanto che in svariati Tribunali si è ritenuto di dover emettere dei veri e propri “prontuari” con le linee guida sull'applicazione del nuovo processo.

Con l'articolo di chiusura del decreto legislativo, il Governo ha deciso di cancellare il rito abbreviato per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti, ai quali tornerà, dunque, ad applicarsi l'ordinario processo del lavoro anche per le controversie relative all'impugnazione dei licenziamenti.

Il meccanismo previsto dall’ex ministro del Lavoro verrà sostituito da un’offerta di conciliazione (art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015). In pratica, il datore di lavoro ha la possibilità di offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un importo esente da imposizione fiscale e contributiva pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’esito della conciliazione dovrà essere comunicato dal datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto. Qualora il datore di lavoro omette tale comunicazione, dovrà scontare una sanzione che va dai 100 ai 500 euro per lavoratore (50 - 250 euro per le agenzie del lavoro).

I licenziamenti disciplinari tra Jobs act e riforma Fornero. Basta un poco di fatto materiale.
La categoria del “fatto materiale” è tornata, del tutto inaspettatamente, in auge a proposito dell’individuazione della tutela ex art. 18 l. 300/1970 a fronte di un licenziamento disciplinare illegittimo.

La categoria del fatto materiale era stata elaborata all’indomani della riforma c.d. Fornero (legge n. 92/2012) che nell’art.18 conserva la tutela reintegratoria (sia pure nella specie c.d. attenuata) subordinandola all’“insussistenza del fatto contestato” dal datore come giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Era stato allora proposto da più autori di restringere la formula legale alla sola ipotesi di mancanza del fatto materiale contestato; intendendosi, sotto evidente influenza penalistica, la sola mancanza degli elementi materiali dell’illecito disciplinare. E confinando conseguentemente nella categoria residuale delle “altre ipotesi” tutela delle indennità (così genericamente individuate nel 5° comma dell’art.18) tutti gli altri casi in cui fosse invece insussistente  l’antigiuridicità, l’imputabilità, la volontarietà della condotta, l’elemento soggettivo ed infine il difetto di proporzionalità. Anche se la mancanza di quest’ultimo requisito può ancora riportare alla reintegra per altra via, quante volte si venga a configurare la seconda ipotesi in presenza della quale l’art.18, 4° comma, riformato dalla legge 92, prevede l’operatività della tutela forte per essere il fatto riconducibile ad una condotta disciplinare “punita con una sanzione conservativa”nei contratti collettivi e codici disciplinari.




domenica 1 dicembre 2013

Fondi pensione obbligatori per aiutare i giovani




"Se si vuole parlare dei giovani, bisogna necessariamente parlare di secondo pilastro, di obbligatorietà dei fondi pensione integrativi, di abbattimento fiscale sui fondi stessi".

Questo il pensiero del segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, a margine di un convegno sulle pensioni, in Bocconi. "I dati della ragioneria mostrano che la sostenibilità delle pensioni è certa: siamo ben al di sopra della garanzia". Così il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, che però avverte che "la questione vera è recuperare le cose che sono state stravolte dalla legge Fornero e cioè una riforma senza fare differenze". Il segretario della Cisl plaude poi all'iniziativa delle pensioni d'oro nella legge di stabilità: "Credo che questo rientri in uno schema di solidarietà che noi approviamo".

In Italia esiste un sistema di welfare legato agli ammortizzatori sociali che si finanzia con i contributi previdenziali, mentre nel regno unito vi sono fondi specificamente destinati a determinati ammortizzatori sociali. In Italia la cassa integrazione guadagni ha un costo molto elevato, a differenza di quanto avviene in altri paesi dell’Unione europea: è uno strumento utile ma dispendioso.

L’Ocse – Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, è un organismo internazionale che svolge attività di studi e ricerche sui problemi economici, sociali e finanziari, l’identificazione di pratiche commerciali ed il coordinamento delle politiche locali ed internazionali dei 34 paesi membri.

Le riforme hanno affrontato una serie di punti chiave dei sistemi pensionistici. Uno delle misure più visibili e politicamente controverse è stato l’innalzamento dell’età pensionabile. l’età pensionabile è aumentata nella maggior parte dei paesi dell’OCSE.

I Sistemi pensionistici integrativi hanno bisogno di essere rafforzati per garantire che essi contribuiscano efficacemente all’adeguatezza del reddito da pensione. Il risparmio dei fondi pensione è stato duramente colpito nella fase iniziale della crisi finanziaria globale, ma ora i livelli patrimoniali e di solvibilità hanno in gran parte recuperato. Tuttavia, le pensioni integrative sono sotto forte pressione a causa di un clima di sfiducia nel settore finanziario o in presenza di un basso tasso di interesse. Ad esempio, l’entusiasmo per pilastri privati a capitalizzazione è diminuita in alcuni paesi del centro Europa. Ungheria e Polonia hanno abolito o significativamente ridimensionato il loro sistemi pensionistici integrativi obbligatori.

Questo in parte è stata una conseguenza della sottovalutazione dei costi fiscali connessi all’introduzione del sistema pubblico-privato, in parte finanziato dalla collettività. Ma un’altra ragione stava facendo crescere il malcontento a causa delle alte spese di amministrazione e rendimenti deludenti dei fondi pensione. Perfino in Germania, dove i singoli fondi privati sono fortemente promossi e sovvenzionati con danaro pubblico, ci si interroga sul fatto se il sostegno pubblico per le pensioni private è la strada giusta da percorrere. A volte si pensa che il denaro dei cittadini potrebbe invece essere utilizzato per rafforzare i sistemi a ripartizione della previdenza pubblica.

Allo stesso tempo, altri paesi si sono mossi nella direzione opposta, promuovendo organizzazioni pensionistici ben gestite e a basso costo che sono meglio orientate alla esigenze delle famiglie a basso reddito. Un buon esempio è il National Occupazione Savings Trust (NEST) del Regno Unito, che opera come standard nel nuovo programma nazionale di iscrizione automatica. Il governo britannico si aspetta di indirizzare i maggiori benefici derivanti per colmare il gap cui sono esposti famiglie di basso e medio reddito a causa delle prestazioni relativamente basse delle pensione pubbliche e la natura volontaria dell’apporto delle pensioni integrative.

Questo segue una precedente riforma in Nuova Zelanda, che ha introdotto l’adesione automatica per i nuovi assunti. Altri paesi con sistemi pubblici più piccoli, come l’Irlanda, sono consapevoli che l’adesione alla pensione complementare su base puramente volontaria non comporta alti tassi di copertura e contributi sufficienti. Stanno quindi prendendo in considerazione una politica morbida per l’ adesione automatica se non addirittura obbligatoria ai fondi pensione. Altri paesi si distinguono per la loro gestione prudente ed efficace dei fondi complementari come la Danimarca e i Paesi Bassi, dove, nonostante la crisi, i rendimenti degli investimenti sono rimasti positivi in termini reali nel corso dell’ultimo quinquennio.

Mentre l’insoddisfazione per le pensioni integrative gestite da soggetti privati è comprensibile, è importante ricordare le ragioni per cui paesi hanno iniziato a diversificare le fonti di reddito da pensione, introducendo la previdenza complementare.

In primo luogo i fondi sono destinati a limitare l’onere di pre-finanziamento di almeno una parte degli obblighi pensionistici futuri sulle giovani generazioni in un contesto di rapido invecchiamento della popolazione. Questa sfida demografica persiste e pensare di tornare ai sistemi a ripartizione non aiuterà affrontare l’incombente crisi sulle pensioni. Il lavoratore medio – basso forma il gruppo di persone che sarà a più alto rischio di non avere una pensione adeguata. La maggior parte dei paesi protegge chi ha un basso reddito attraverso pensioni minime e reti di sicurezza per la vecchiaia, mentre la maggior parte delle persone medio – alto, potendo beneficiare di un reddito elevato, completano la pensione pubblica con risparmi personali e investimenti.

Rimane importante incoraggiare l’adesione per la pensione complementare, indirizzandoli sia ad un fondo professionale o un piano individuale pensionistico.

Ma il dibattito attuale mette in evidenza l’urgenza di affrontare il problema dei costi della gestione dei regimi privati. E’ infatti difficile giustificare l’obbligo ai lavoratori di aderire ad un fondo pensione che alla fine beneficia solo gli amministratori.

In merito all’ invecchiamento della popolazione esso richiede una visione molto più ampia rispetto a quella percepita dalla maggior parte dei governi che si muovono molto lentamente. Le pensioni sono il riflesso della vita lavorativa di ogni individuo. I sistemi pensionistici pubblici da soli non saranno in grado di correggere le disuguaglianze e i periodi di disoccupazione subiti.



domenica 22 settembre 2013

Contratto di apprendistato in aumento



L'Inps con la circolare n. 128 del 2 novembre 2012 ha precisato che, secondo orientamenti del ministero del lavoro, lo sgravio può essere concesso in conformità alla regola comunitaria degli aiuti «de minimis». I datori di lavoro (piccole imprese) che occupano fino a nove addetti, e che dal 2012 al 2016 assumono apprendisti, hanno diritto allo sgravio del 100% dei contributi Inps per la durata di tre anni. L'agevolazione interessa esclusivamente i datori di lavoro che occupano un numero di addetti pari o inferiore a nove.

Aumenta il ricorso all'apprendistato: lo hanno utilizzato il 21,3% delle imprese (si era fermi al 18,4% nel 2011); e questo contratto viene usato dal 29,6% delle grandi aziende (nel 2011 tale quota era al 24,2%). Il contratto a tempo determinato ha una diffusione del 39,5%; il contratto di inserimento, cancellato dalla legge Fornero, del 2,1% (ma ha un tasso di conversione in contratto stabile del 43,6%).

L'analisi del mercato del lavoro 2012 pubblicata, dal Centro Studi di Confindustria mostra una notevole fotografia sulla struttura dell'occupazione nelle imprese. Il riferimento è il 2012 (sul 2011). C'è un aumento dell'apprendistato, anche se il peso di questo contratto (sul totale) resta modesto. A fine 2012 gli apprendisti rappresentavano l'1,4% dei lavoratori alle dipendenze; e di quelli occupati un anno prima, quasi un quarto sono stati trasformati a tempo indeterminato. Sempre nel 2012, poi, le trasformazione dei contratti a tempo in rapporti stabili hanno rappresentato il 33,5% del totale in essere a fine 2011. Il tasso di conversione raggiunge il 38,6% nell'industria, mentre si ferma al 23,9% nei servizi.

Ancora nel 2012 è cresciuto il tasso di trasformazione dei lavoratori somministrati (da 3,3% a 3,9%) e ancor più quello dei collaboratori a progetto (da 1,4% a 2,8%). Solo in lieve aumento l'utilizzo di questi contratti: l'incidenza dei lavoratori in somministrazione equivalenti a tempo pieno sul totale dell'occupazione alle dipendenze è stata del 2,4% (2,2% nel 2011); quella dei collaboratori ha raggiunto il 3,5% (6,1% nei servizi), dal 3,2% dell'anno prima.

Una caratteristica del rapporto di quest'anno del CsC è l'indagine sulle altre forme di flessibilità in uscita, la cui disciplina è stata modificata dalla legge 92. Per esempio, lo staff leasing, abolito nel 2007 e reintrodotto nel 2009, ha registrato nel 2012 una diffusione del tutto trascurabile: solo un'impresa su 250 vi ha fatto ricorso (una su 200 nell'industria). Marginale è stato anche l'utilizzo dell'associazione in partecipazione. Le collaborazioni occasionali, invece, sono usate da circa un'impresa su 10; come quelle a progetto, sono più diffuse nei servizi. Solo poco più elevata in media (una su sette) la quota di imprese che utilizzano lavoratori con partita Iva, i quali rappresentano il 3,1% della forza lavoro alle dipendenze nel totale dei settori, il 6% nei servizi. Anche il contratto intermittente è più utilizzato nei servizi (soprattutto nei trasporti), ma la sua incidenza sull'organico alle dipendenze è marginale.

Ricordiamo che al fine di incentivare la diffusione dell’apprendistato, la legge n. 183 del 12 novembre 2011 (legge di stabilità per il 2012, ha previsto all'art.22, comma 1 - a far data dal 1° gennaio 2012 e fino al 31 dicembre 2016 - lo sgravio contributivo totale per le assunzioni di apprendisti effettuate da datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze un numero di addetti pari o inferiore a nove per i primi tre anni di svolgimento del contratto. Per gli anni successivi, il datore di lavoro è invece tenuto a versare l’aliquota del 10%, ordinariamente prevista per tutti i contratti di apprendistato.


sabato 13 aprile 2013

Procedura di mobilità con le modifiche della riforma del lavoro per dal 2013


Innanzitutto sottolineiamo che l’indennità di mobilità ha lo scopo di favorire la rioccupazione per particolari categorie di lavoratori licenziati, e consentire loro di superare i momenti di difficoltà economica successivi al licenziamento.

Ricordiamo che le aziende destinatarie della mobilità hanno facoltà di avviare la relativa procedura e stabilire il numero dei lavoratori in esubero, dopo aver esaminato la situazione insieme ai rappresentanti sindacali e di categoria. Al termine della procedura, le aziende procedono al licenziamento dei lavoratori e ne comunicano i dati agli Uffici del Lavoro per l'iscrizione nelle liste di mobilità.

Adesso c'è più tempo alle aziende per comunicare i dati dei lavoratori coinvolti nei licenziamenti collettivi agli uffici del Lavoro e alle associazioni di categoria. Possibilità di sanare irregolarità nella procedura con un accordo sindacale. Sono queste due delle modifiche alle regole sulla dichiarazione di mobilità introdotte dalla riforma del mercato del lavoro (legge Fornero), che hanno inciso anche sulle sanzioni.

La legge di riforma 92/2012 ha previsto due importanti correttivi alla fase «amministrativa» delle procedure di mobilità, che prevede alcuni obblighi: comunicazione di apertura della procedura, versamento del contributo d'ingresso all'Inps, iscrizione dei lavoratori alle liste di mobilità.

Inoltre, è stato ritoccato l’obbligo (articolo 4, comma 9, della legge 223/91) di inviare, contestualmente ai licenziamenti, agli organismi coinvolti, l’elenco dei lavoratori licenziati con l’indicazione, per ciascuno, del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, precisando come sono stati applicati i criteri di scelta del personale in esubero. Dall’entrata in vigore della riforma (18 luglio 2012), questo obbligo può essere assolto «entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi».

Gli eventuali vizi della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo alle rappresentanze sindacali e alle associazioni di categoria possono essere rimediati nell'ambito di un accordo sindacale concluso in seno alla procedura di mobilità (articolo 4, comma 12 della legge 223/91): rispetto al precedente dettato normativo, la mancanza di uno degli elementi essenziali da indicare nell'apertura della procedura e richiesti per la legittimità dei recessi, può essere dunque corretta in corsa senza inficiare tutto l'iter.

La riforma del lavoro ha modificato anche l'applicazione delle sanzioni previste dall'articolo 18 della legge 300/1970, in caso di violazione della procedura. Il licenziamento imposto senza la forma scritta è nullo, con diritto alla reintegra piena nel posto di lavoro e a un indennizzo per il risarcimento del danno subìto non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. In alternativa alla reintegrazione, ma in aggiunta al risarcimento del danno, il lavoratore può optare per un'indennità pari a quindici mensilità. Vige invece il principio della reintegra "attenuata" (reintegrazione e pagamento di un'indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità) in caso di violazione dei criteri di scelta. Diverse le conseguenze nelle ipotesi di violazione delle procedure collettive: c'è la sola tutela risarcitoria tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità.

L'ampliamento, dal 1° gennaio 2013, del perimetro delle imprese che possono accedere alla cassa integrazione straordinaria, coinvolge anche le procedure di licenziamento collettivo, che possono essere avviate se l'impresa che è stata ammessa alla Cigs ritiene di non poter garantire un reimpiego a tutti i lavoratori sospesi. Il ministero del Lavoro ha chiarito (interpello 29/2012), che, in questo caso, i requisiti dimensionali sono richiesti solo al momento della presentazione della domanda di Cigs.

In base all'art. 5, comma 4, L. n. 223/1991, per ciascun lavoratore licenziato nel corso dell'intervento C.i.g.s., le aziende comprese nel campo di applicazione della disciplina della C.i.g. straordinaria sono tenute a versare in 30 rate mensili, alla gestione degli interventi assistenziali dell'INPS una somma pari a 6 volte (3 volte in caso di accordo sindacale) il trattamento iniziale di mobilità. Il pagamento rateale non comporta aggravio di interessi. Il mancato versamento del contributo, così come della sua anticipazione, non comporta la sospensione della procedura di licenziamento, né la perdita da parte dei lavoratori interessati dell'indennità di mobilità.

Le aziende destinatarie della procedura di mobilità sono:
settore industria con più di 15 dipendenti;

settore commercio con più di 200 dipendenti;

aziende artigiane dell’indotto: nel solo caso in cui anche l’azienda committente abbia fatto ricorso alla mobilità;

cooperative che per la natura dell'attività svolta e per consistenza della forza occupazionale rientrino nel campo di applicazione della disciplina della mobilità e siano soggette agli obblighi della relativa contribuzione;

aziende costituite per l'espletamento di attività di logistica:più di 200 dipendenti.

domenica 17 marzo 2013

Lavoro 2013: licenziamenti individuali per motivi economici


Innanzitutto diciamo che il licenziamento individuale per motivi economici è il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, regolato dall’articolo 3 della legge n.604/1966, secondo la quale costituiscono giustificato motivo oggettivo di licenziamento individuale:
la crisi dell'impresa
la cessazione dell'attività
il venir meno delle mansioni cui era in precedenza assegnato il lavoratore, nel caso in cui non è possibile il suo ricollocamento in altre mansioni esistenti in azienda e compatibili e coerenti con il livello di inquadramento.

Il licenziamento individuale per motivi economici, non è dovuto a un inadempimento del lavoratore, ma a esigenze tecniche ed economiche dell’attività aziendale.

Nelle aziende con più di 15 dipendenti l'assenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro per licenziare, quando viene comprovata davanti a un giudice, produce il reintegro del lavoratore e il risarcimento del danno subito.

Va messo in evidenza che la disciplina limitativa del licenziamento individuale risultante dalle leggi attualmente vigenti si applica nei confronti dei lavoratori dipendenti che rivestono la qualifica di impiegato ed operaio e, per quelli assunti in prova, dal momento in cui l'assunzione diviene definitiva (art. 10 L. n. 604/1966). La disciplina del licenziamento economico si applica sia ai vecchi lavoratori sia ai nuovi assunti.

Vediamo adesso i primi numeri sulla procedura di conciliazione preventiva, introdotta dalla riforma Fornero per i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo (cosiddetti licenziamenti economici), danno utili indicazioni per valutare se e come sta funzionando l'istituto.

Secondo i dati del ministero del Lavoro, aggiornati al 31 gennaio 2013, emerge un primo fatto positivo: le direzioni territoriali stanno rispettando i termini che fissa la legge per svolgere la procedura. In gran parte dei casi, le parti sono convocate entro sette giorni dalla formulazione della richiesta di conciliazione, e la procedura si conclude entro i 20 giorni successivi. Non si tratta di un dato banale, se si considerano le croniche difficoltà della Pa quando deve gestire termini così stretti.

Il dato risulta ancora più positivo se si considera che i tentativi di conciliazione richiesti alla data del 31 gennaio sono molti: sono state, infatti, presentate 12.563 richieste, con alcuni picchi nelle città più popolose (1.042 a Roma, 1.180 a Milano, addirittura 1.450 a Napoli).

Risulta importante vedere gli esiti di queste richieste: alla data di osservazione 1.124 procedimenti risultavano ancora pendenti, mentre 1.831 si sono estinti per mancata comparizione delle parti. Le procedure concluse con un accordo tra le parti sono state 3.958, e il numero di quelle concluse con un mancato accordo è quasi identico, 3.638. Sommando le liti concluse con un accordo ai procedimenti abbandonati spontaneamente dalle parti, si scopre che quasi metà dei licenziamenti sono stati abbandonati o conciliati grazie alla procedura (il 46%), in cambio di una transazione economica.

Il grande numero di conciliazioni raggiunte potrebbe essere legato all'incertezza intorno alla nuova disciplina dei licenziamenti: ancora non ci sono sentenze che hanno definito i contorni del nuovo regime sanzionatorio e la procedura accelerata introdotta dalla legge Fornero mostra dei problemi di interpretazione che ne stanno depotenziando l'efficacia.

Un altro fattore, meno episodico e più strutturale, che può aver aumentato il numero delle conciliazioni può essere la regola, introdotta dalla riforma, che consente l'accesso all'Aspi alle persone che risolvono, nell'ambito della procedura obbligatoria, il proprio rapporto di lavoro. In passato le persone che risolvevano il rapporto di lavoro doveva escogitare gli stratagemmi più spericolati per accedere al trattamento di disoccupazione, in quanto questo spetta solo a chi ha perso il lavoro contro la propria volontà.

Quindi in sintesi in riferimento al licenziamento individuale per motivi economici vediamo cosa accade. Se il giudice ritiene non valido il motivo economico addotto dall’azienda, può decidere il reintegro del lavoratore. Sarà il dipendente, nel caso, a scegliere in alternativa l’indennizzo.

Mentre con la riforma riforma Fornero. Se il giudice ritiene non valido il motivo economico addotto dall’azienda, potrà decidere solo per l’indennizzo economico, che sarà tra le 15 e le 27 mensilità in base alle dimensioni dell’azienda, dell’anzianità del lavoratore e del comportamento delle parti.

Se il motivo economico è addotto per mascherare un licenziamento disciplinare o discriminatorio, si ricade nelle due ipotesi qui di seguito. Ossia, Il giudice non è chiamato a valutare il tipo di licenziamento, ma se dovesse valutare l’inesistenza dei motivi economici, scatterà l’indennizzo tra le 15 e le 27 mensilità.

Licenziamento sentenze della Cassazione del 2013


Con la nuova riforma del lavoro la certezza è una sola: non esiste una strada sola per le istanze di reintegro nel posto di lavoro. A fare da esempio, c'è la vertenza che riguardava un lavoratore addetto a un appalto, poi improvvisamente cessato. Quel che più conta, però, è che, nel caso esaminato, il ritorno sul posto di lavoro non è stato interpretato come diretta conseguenza del sollevamento incongruo dall’incarico.

Esclusa, per il soggetto coinvolto, anche la possibilità di vedersi collocato ad altra mansione o funzione sempre nello stesso ambiente di lavoro.
Qualora un caso simile fosse pervenuto all’attenzione del Tribunale prima dello scorso 18 luglio, quando, cioè, è diventata legge dello Stato la riforma Fornero, l’esito del procedimento sarebbe stato opposto. Dunque, anche qualora l’autorità giudiziaria ravvisi l’illiceità dell’interruzione del rapporto di lavoro, non è automatico che a questa sentenza consegua il ritorno all’occupazione precedentemente svolta o a una affine.

Ne consegue che il diritto al reintegro non vada in alcun modo collegato alla legittimità o meno dell’atto di licenziamento, poiché viene inteso come collegato, ma non corrispondente, alla decisione di interruzione del rapporto di lavoro. Infatti, non è un caso che il datore di lavoro sia stato condannato, in chiusura di dibattimento, al risarcimento del lavoratore, ma non alla sua riassunzione completa. Quindi, il panorama sviluppatosi con la legge Fornero è molto, forse troppo, variegato e scivoloso: saranno le situazioni contingenti a determinare il diritto al reintegro o meno del lavoratore ingiustamente licenziato che ha sporto ricorso. Questo è uno scenario che porta sempre più incertezza sulla posizione occupazionale di moltissimi dipendenti, anche nel caso si rivolgano al giudice essendo certi di spuntarla contro il datore di lavoro.

Comunque la riforma del mercato del lavoro potrebbe riportare in primo piano la figura del licenziamento discriminatorio, anche se – alla luce degli orientamenti della giurisprudenza – non sarà facile per un lavoratore dimostrare di esserne stato vittima. La legge 92/2012 ha modificato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, incidendo sui licenziamenti disciplinari e su quelli per motivi economici, ma ha sostanzialmente lasciato immutata la disciplina dei licenziamenti discriminatori.

Mentre la risoluzione del rapporto basata su motivi disciplinari o economici, se ritenuta illegittima, può essere oggi sanzionata, in alcuni casi, con il solo indennizzo economico, in luogo della reintegrazione sul posto di lavoro, l'illegittimità del licenziamento discriminatorio continua a prevedere come sanzione la reintegrazione del lavoratore in azienda.

Con la sentenza 3547 del 7 marzo 2012, la Cassazione ha affermato che il licenziamento del dirigente può essere considerato arbitrario solo quando si dimostra pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà. In pratica, se il licenziamento è collegato a un effettivo processo di riorganizzazione del settore aziendale, la motivazione risulterà lecita e obiettivamente verificabile, escludendo in questo modo l'arbitrarietà del provvedimento espulsivo. Di diverso avviso la tesi del ricorrente, secondo cui la soppressione dell'area di responsabilità non rientrava in precise scelte organizzative ma era dettata da intenti ritorsivi o discriminatori.

Ricordiamo inoltre che in un'altra vicenda giuridica la Cassazione ha dato ragione al direttore provinciale di una confederazione e consigliere di amministrazione di una società controllata dalla stessa confederazione. Il lavoratore sosteneva di essere stato licenziato per volontà del presidente in conseguenza del proprio rifiuto di sottoscrivere il bilancio aziendale e di aver espresso un fermo rifiuto sul distacco di alcuni dipendenti della federazione presso la società controllata, poiché si sarebbe potuta ravvisare l'ipotesi di somministrazione di manodopera vietata. La Cassazione, con la sentenza 2958 del 27 febbraio 2012, ha confermato la pronuncia di merito ritenendo che l'assunto difensivo fosse adeguatamente motivato. Infatti, da un lato c'erano indici di ritorsione nei confronti del dipendente, dall'altro era mancato un riscontro fattuale del motivo economico posto alla base del licenziamento per riduzione dei costi ingenti legati alla posizione lavorativa del direttore.

Altra sentenza. Niente licenziamento se il lavoratore è costretto all'inattività. E' quanto ha stabilito la Cassazione con la sentenza 1693 depositata il 24 gennaio 2013. Un dipendente di un'azienda telefonica denunciava di aver subito una dequalificazione professionale giungendo alla totale inattività lavorativa. La ditta aveva privato quasi completamente il dipendente delle sue mansioni, fino a licenziarlo per giusta causa per mancata osservanza dell'orario di lavoro. Il tribunale accoglieva la domanda di risarcimento del danno e rigettava quella sull'illegittimità del licenziamento. In appello, invece, la corte disponeva la reintegra del lavoratore e gli riconosceva il risarcimento del danno. In sostanza, l'inattività forzosa  del lavoro voluta dall'azienda ha contribuito a determinare l'inadempimento del lavoratore, ridimensionando la gravità delle mancanze imputategli. La società sosteneva che per il datore di lavoro esiste solo l'obbligo di retribuire il proprio dipendente, non anche quello di farlo lavorare, e che se il datore di lavoro provvede al regolare pagamento della retribuzione il lavoratore non può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione.

La Cassazione ha affermato che il rifiuto del lavoratore subordinato di svolgere la propria prestazione lavorativa (mansioni inferiori) può essere legittimo, e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive, se il rifiuto è proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede (Cassazione n. 4060/2008). L'interesse aziendale all'esecuzione della prestazione è venuto meno nella misura in cui il comportamento del dipendente di non osservare l'orario di lavoro è stato tollerato dalla società che non ha contestato immediatamente con sanzioni di carattere disciplinare. L'inattività forzata del lavoratore non solo non giustificherà il licenziamento ma sarà anche fonte dell'obbligo di risarcimento del danno in capo al datore di lavoro.

La Cassazione civile, sezione lavoro con la sentenza 4197 del 20 febbraio 2013 ha stabilito che è illegittimo il licenziamento per abbandono del posto di lavoro se il codice disciplinare aziendale richiede, per rendere lecito l'atto del datore di lavoro, una condizione in più, vale a dire che il comportamento del lavoratore abbia determinato un danno o pericolo all'azienda o a persone.

Il caso riguarda un dipendente di una società cooperativa, che, durante l'attività lavorativa, lascia, improvvisamente, il posto di lavoro, esce dall'azienda e viene, di conseguenza, licenziato. Il lavoratore impugna l'atto del datore di lavoro di fronte al giudice sostenendo, a sua giustificazione, di essersi dovuto recare in ospedale per rimuovere un corpo estraneo dall'occhio e, comunque, di avere comunicato l'uscita al proprio superiore. Il tribunale dà ragione alla società e conferma il licenziamento. Il dipendente licenziato si rivolge alla Corte d'appello, che rovescia la decisione di primo grado, ritenendo illegittimo il licenziamento: secondo i giudici, il lavoratore era ricorso, effettivamente, a cure mediche, aveva segnalato il suo allontanamento al suo superiore e non aveva determinato, con la sua condotta, né interruzione nel ciclo produttivo aziendale né, come richiesto per la liceità del licenziamento dalla specifica regolamentazione aziendale, danno o pericolo a cose o a persone.

La Cassazione riconosce, che si era verificato un infortunio sul lavoro, avvalorando così le affermazioni del lavoratore circa l'esistenza di una situazione di emergenza. In secondo luogo, la Corte d'appello ha tenuto presente il principio in base al quale un licenziamento è giustificato solo se la condotta del lavoratore fa venir meno la fiducia del datore nell'esattezza delle future prestazioni.

sabato 16 febbraio 2013

Ministero del Lavoro la circolare n. 3 del 2013 sul Tfr e retribuzione


Il tentativo obbligatorio di conciliazione può allargare la propria efficacia fino a diventare una sorta di accordo "omnibus": trattandosi infatti di una procedura a carattere conciliativo, il ministero del Lavoro ha precisato nella circolare 3/2013 che in questa intesa è possibile comprendere altre questioni di natura economica inerenti al rapporto di lavoro come, ad esempio, le differenze retributive, le ore di lavoro straordinario o il trattamento di fine rapporto.

Quindi sono i tre binari su cui si articola la circolare n. 3/2013 del ministero del Lavoro sulla conciliazione obbligatoria preventiva (articolo 7 della legge 604/1966, modificato dalla legge Fornero 92/2012, articolo 1, comma 40). Senza dimenticare l'obbligo di pagamento del ticket sui licenziamenti scattato il 1° gennaio scorso, che va versato a prescindere dall'esito della conciliazione, salvo le ipotesi – in via transitoria fino al 2015 – di licenziamento per cambio appalto e chiusura cantiere in edilizia. Le imprese e la casistica. La conciliazione preventiva è un vero e proprio percorso a tappe.

Obbligatorio per i datori di lavoro che occupano più di 15 lavoratori (in base alla legge 300/1970) e che effettuano licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, vale a dire per motivi inerenti all'attività produttiva e all'organizzazione del lavoro. Il Ministero del Lavoro ha precisato che il calcolo della base numerica – per il rispetto della disposizione – deve essere effettuato tenendo conto della media dei lavoratori occupati negli ultimi sei mesi, secondo i consolidati indirizzi della giurisprudenza in materia. Il computo dell'organico deve essere depurato dalle tipologie contrattuali escluse per effetto di disposizioni legislative ad hoc, come i rapporti di apprendistato, i lavoratori somministrati, e così via.

Rientrano invece nel conteggio i lavoratori a tempo parziale, "pro-quota" rispetto all'orario normale contrattuale, così come i lavoratori intermittenti.

Con riferimento alle ipotesi di recesso, la circolare ha precisato che, oltre alle ipotesi per legge  di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, rientrano nell'obbligo di conciliazione anche i licenziamenti intimati per inidoneità fisica, per impossibilità di ripristino (destinazione del lavoratore ad altre mansioni), per chiusura di cantiere in edilizia e quelli conseguenti a provvedimenti di natura amministrativa (si pensi al ritiro del porto d'armi per una guardia giurata).

La procedura si sviluppa in tre fasi  per intraprendere la conciliazione:

il datore di lavoro deve trasmettere alla Direzione Territoriale del Lavoro DTL competente per territorio (in base al luogo di attività del dipendente), e per conoscenza al lavoratore, una comunicazione in cui manifesta la volontà di intimare il licenziamento e indica i motivi alla base di questa scelta;

quando la Dtl riceve la comunicazione, la procedura si intende avviata, e la convocazione delle parti avviene entro il termine perentorio di sette giorni;

entro 20 giorni da questa convocazione, la conciliazione deve concludersi (salvo il caso di sospensione o richiesta delle parti).

Fatte salve le eccezioni per l'edilizia indicate in precedenza, qualunque sia l'esito della procedura – recesso o risoluzione consensuale del rapporto – il datore di lavoro è tenuto a versare all'Inps il ticket sui licenziamenti introdotto dalla riforma per finanziare l'Aspi (articolo 2, comma 31 della legge 92/2012): ora il ticket può arrivare fino a 1.376 euro, ma si attende ancora la rivalutazione per il 2013.

Se la conciliazione sfocia in un accordo di risoluzione consensuale, il lavoratore potrà fruire dell'Aspi solo se ha i requisiti previsti: in questa ipotesi, il sussidio va corrisposto anche per le risoluzioni avvenute dal 18 luglio 2012 (messaggio Inps n. 20830/2012).

Un'altra criticità potrebbe derivare dalla gestione della "sospensione" del rapporto durante la procedura, fino alla sua cessazione: se il lavoratore ha continuato a prestare la propria attività, questo periodo deve essere considerato come preavviso lavorato, anche nei casi in cui il relativo periodo disposto dal Ccnl è inferiore alla durata del procedimento di conciliazione. Una stortura a cui il datore di lavoro potrebbe ovviare specificando nella comunicazione di avvio della procedura che la prestazione lavorativa non è richiesta e impegnandosi a corrispondere l'indennità di mancato preavviso.

È giusto sottolineare l'importanza che durante la procedura sia osservato con cura: la motivazione del licenziamento è rimessa alla valutazione del datore di lavoro, ma il recesso intimato in violazione degli obblighi sulla conciliazione è inefficace, con l'applicazione di un'indennità risarcitoria a favore del lavoratore, che il giudice può determinare tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità.

Il difetto di motivazione potrebbe portare a conseguenze sanzionatorie ben più pesanti nel momento in cui, in caso di contenzioso giudiziale, il licenziamento fosse classificato in ipotesi diverse da quella del giustificato motivo oggettivo. La mancata attivazione della conciliazione obbligatoria può comunque essere sanata se le parti intendono attivare una conciliazione in sede sindacale dopo il licenziamento: in questa ipotesi, il recesso dà luogo all'Aspi.
In queste ipotesi, il lavoratore deve essere pienamente consapevole della definitività e inoppugnabilità dell'intesa che andrà a sottoscrivere (in base all'articolo 410 del Codice di procedura civile): la commissione di conciliazione, nel caso vi siano somme corrisposte a vario titolo, dovrà evidenziare separatamente quelle finalizzate all'accettazione del licenziamento.

Per quanto riguarda gli aspetti di natura fiscale e contributiva legati alla transazione, costituiscono redditi da lavoro dipendente quelli che derivano da titoli che hanno a oggetto la prestazione lavorativa.

Nel caso di fallimento della procedura presso la Dtl, le parti possono ancora tentare altre vie per scongiurare il contenzioso giudiziale: ad esempio, attivando la conciliazione facoltativa in sede sindacale o affidando la controversia a un collegio arbitrale irrituale, come previsto dal collegato lavoro (legge 183/2010).

Nella prima ipotesi, l'accordo tra le parti è solitamente già stato raggiunto e la conciliazione serve a definire il verbale conciliativo: questo deve essere sottoscritto dal datore di lavoro, dal lavoratore e dai rappresentanti sindacali che hanno assistito le parti.

L'importanza della sottoscrizione, anche da parte del sindacato, è evidenziata da una sentenza della Cassazione (n. 13910/1999): per la Corte, il regime di inoppugnabilità (secondo gli articoli 410 e 411 del Codice di procedura civile) delle rinunzie e delle transazioni relative a diritti inderogabili dei lavoratori (articolo 2113 del Codice civile) presuppone che la conciliazione sia caratterizzata dall'intervento di un soggetto «terzo», ritenuto idoneo a tutelare il lavoratore nel momento in cui effettua la rinuncia o la transazione.

Una volta sottoscritto, il verbale in sede sindacale è depositato presso la Dtl a cura di una delle parti o per il tramite di un'associazione sindacale e poi nella cancelleria del tribunale per essere dichiarato esecutivo.

Nel secondo caso, la controversia può invece essere risolta attraverso un collegio arbitrale irrituale composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente.

La parte che intenda avvalersi di questa procedura deve notificare un ricorso sottoscritto e diretto alla controparte. Se quest'ultima accetta, nomina a sua volta il proprio arbitro di parte per proseguire nell'iter della conciliazione.

Anche i contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali più rappresentative, possono prevedere commissioni "ad hoc" alle quali i datori di lavoro o i lavoratori possono affidare la risoluzione della vertenza lavorativa.
 

domenica 13 gennaio 2013

Costa Crociere può ricorrere al rito abbreviato della legge Fornero per licenziare Schettino


Ad un anno dallo schianto tragico della Concordia il giudice del lavoro annuncia che la Costa può ricorrere al rito abbreviato per licenziare Schettino.

La Costa può ricorrere al rito Fornero per legittimare il licenziamento per giusta causa del comandante Francesco Schettino. La decisione – contestata dal legale del capitano, Rosario D'Orazio – è stata presa dal presidente della sezione Lavoro del tribunale di Genova Ravera. Si sdoppia, quindi, il procedimento sulla posizione lavorativa di capitan Schettino, allontanato dalla compagnia di navigazione per "violazione delle norme" e del cosiddetto "minimum etico", in relazione ai comportamenti contestati al comandante dopo il naufragio della Concordia abbandono della nave, ritardo nei soccorsi ed altro.

A Genova, dunque, resta il procedimento avviato dalla società; a Torre Annunziata, invece, resiste quello intrapreso dallo stesso Schettino per impugnare il provvedimento di licenziamento e chiedere il reintegro. La posizione difensiva del comandante si basa, in parte, anche sulle risultanze investigative della procura di Grosseto che avrebbero riscontrato un errore, da parte del timoniere, nell'esecuzione degli ordini di disimpegno della nave poco prima dell'impatto contro gli scogli dell'isola del Giglio. La prossima udienza nel capoluogo ligure si terrà a marzo, quando le parti approfondiranno le rispettive posizioni. A Torre Annunziata, invece, l'appuntamento è per fine mese. Resta, a questo punto, solo da capire chi dei due fori sarà competente per la decisione finale.

La Costa lo aveva allontanato per "violazione delle norme" e del cosiddetto "minimum etico", in relazione ai comportamenti contestati al comandante dopo il naufragio della Concordia.

Il giudice ha fissato in 20 giorni il tempo per rispondere alle eccezioni sollevate dalla difesa di Schettino. La prossima udienza nel capoluogo ligure si terrà il 14  marzo. A Torre Annunziata, invece, l'appuntamento è per fine mese.
In sostanza, il "rito Fornero" prevede tempi rapidi per il giudizio ed è stato concepito per aiutare i dipendenti licenziati. In questo caso però la Costa, datore di lavoro, se ne avvale per corroborare la pratica di licenziamento già decisa in azienda.

"Ora c'è un imbarazzo per Costa Crociere – sostiene il legale- perché la compagnia si trova con un duplice procedimento attivo e quindi sicuramente uno dei due non potrà gestirlo. In parole semplici c'è un conflitto interno tra il suo rito speciale e il suo rito ordinario. L'unica certezza che c'è in questo momento è che non si possa procedere con entrambi i riti. Vediamo ora cosa deciderà il giudice di Torre Annunziata il 30 gennaio e cosa decideranno anche gli avvocati delle parti perchè il giudice di Genova ha ritenuto ammissibile anche la mia difesa e quindi il mio attacco nei confronti di Costa Crociere".

Per una parte, la posizione difensiva del comandante si basa sulle risultanze investigative della procura di Grosseto che avrebbero riscontrato un errore, da parte del timoniere, nell'esecuzione degli ordini di disimpegno della nave poco prima dell'impatto contro gli scogli dell'isola del Giglio.

sabato 15 dicembre 2012

Congedi parentali 2013 le novità

I congedi parentali per il 2013 derivano da tre normative di legge quella della Fornero (legge 92/2012) sulla Riforma del lavoro, che dal 1° gennaio 2013 estende ai padri l'obbligo di un giorno di riposo (più due facoltativi) per la nascita del figlio, da utilizzare entro i cinque mesi di vita di quest'ultimo; dal Dl Sviluppo, che semplifica l'iter dei certificati medici per l'assenza del dipendente a causa della malattia del figlio; e dal Decreto legge «anti-infrazioni dell’Unione europea, che consentirà di fruire dei congedi parentali, quelli possibili fino agli otto anni di vita del bambino, anche a ore durante le giornate lavorative.

Con il decreto legislativo Sviluppo, in particolare l'articolo 47 consente a entrambi i genitori, in modo alternativo, di astenersi dal lavoro per periodi corrispondenti alle malattie di ciascun figlio di età non superiore a tre anni. Entro un massimo di cinque giorni lavorativi all'anno la facoltà è concessa anche per le malattie di ogni figlio di età compresa fra i tre e gli otto anni. A seguito delle novità, la certificazione di malattia necessaria al genitore per fruire di questi congedi sarà inviata online all'Inps direttamente dal medico curante, e dall'Istituto previdenziale sarà girata con le stesse modalità al datore di lavoro (e all'indirizzo di posta elettronica del lavoratore che ne faccia richiesta).

Mentre dal 1° gennaio 2013 con la legge Fornero dovrebbero partire le misure introdotte in via sperimentale per gli anni 2013-2015. Si tratta dell'obbligo per il padre lavoratore dipendente di astenersi dal lavoro, per un giorno, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio; entro lo stesso periodo, il padre lavoratore dipendente ha la facoltà di astenersi per ulteriori due giorni, anche continuativi, previo accordo con la madre e in sua sostituzione in relazione al periodo di astensione obbligatoria spettante a quest'ultima. Per questi giorni di astensione viene riconosciuta un'indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione. Il padre lavoratore deve dare preventiva comunicazione in forma scritta al datore di lavoro dei giorni prescelti per astenersi dal lavoro con un preavviso di almeno 15 giorni. La legge Fornero attribuisce poi alla madre lavoratrice, al termine del periodo di congedo di maternità, per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale, un voucher per l'acquisto di servizi, ovvero per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, da richiedere al datore di lavoro.

Il Dl «anti-infrazioni Ue» consente la fruizione oraria dei congedi parentali, delegando alla contrattazione collettiva di settore la regolamentazione e i criteri di calcolo della base oraria. Con una modifica all'articolo 32 del Dlgs 151/2001 viene precisato che il termine di almeno 15 giorni con cui il lavoratore è tenuto a preavvisare dare il datore di voler fruire del congedo parentale deve indicare l'inizio e la fine del periodo di congedo, durante il quale le parti possono concordare, ove necessario, adeguate misure di ripresa dell'attività lavorativa.

Riassumiamo le novità che ci aspettano dal 2013.

I genitori possono alternativamente astenersi dal lavoro per periodi corrispondenti alle malattie di ciascun figlio di età non superiore a tre anni. Entro cinque giorni lavorativi all'anno la facoltà è concessa anche per le malattie di ogni figlio di età compresa fra tre e otto anni. La certificazione di malattia necessaria al genitore per fruire di questi congedi sarà inviata online all'Inps direttamente dal medico curante.

Per i giorni di congedo parenale dal 1° gennaio 2013 il padre lavoratore dipendente dovrà astenersi dal lavoro per un giorno (altri due giorni sono facoltativi) entro i cinque mesi dalla nascita del figlio. Per questi giorni di astensione dal lavoro sarà riconosciuta un'indennità giornaliera pari al 100% della retribuzione. Il dipendente dovrà comunicare per iscritto all'azienda i giorni prescelti per astenersi dal lavoro con un preavviso di almeno 15 giorni.

Vediamo il congedo parentale a ore e come si svilupperà che risulta una novità per la legge italiana. Questa tipologia di congedo consente ai genitori (padri e madri) di usufruire in modo più elastico del congedo parentale, suddividendolo anche in ore, per esempio scegliendo di lavorare a mezza giornata (indennità 30% dello stipendio).

Quello che una volta si chiamava congedo facoltativo, garantisce a entrambi i genitori un periodo di sei mesi ciascuno, fino a un massimo di 10 mesi in tutto, che possono diventare 11 nel caso in cui sia il papà a prendere almeno tre mesi consecutivi. Ora il tempo complessivo si estende oltre i limiti temporali che scaturivano dall’articolazione in giornate lavorative integrali.

E’ una iniziativa volta a promuovere la conciliazione famiglia-lavoro a costo zero, anzi: frazionando in ore il permesso si può lavorare in congedo part-time, mantenendo intatta la retribuzione per le ore di presenza sul lavoro.

Il congedo parentale sussiste di 6 mesi per ciascun genitore, fino a un massimo di 10 mesi complessivi (11 se il padre sta a casa 3 mesi consecutivi) nei primi otto anni di vita del bambino.

Ad oggi i lavoratori con figli possono suddividere il congedo parentale in giorni, settimane o mesi mentre il nuovo decreto mira a recepire la direttiva 2010/18/UE.

Il frazionamento in ore permette di allungare nel tempo il periodo in cui poter usufruire del monte-congedo, diluendo anche maggiormente gli effetti in busta paga.
Ad esempio: mezza giornata di congedo parentale consente di avere in busta paga l’intera retribuzione per le ore lavorate più l’indennità del 30% per quelle in congedo.

La domanda di congedo frazionato quando sarà presentata al datore di lavoro, il dipendente dovrà indicare inizio e fine del congedo che intende prendere. E’ prevista anche la possibilità di mantenere il contatto fra azienda e lavoratore durante il congedo, magari per concordare modalità di ripresa dell’attività lavorativa.

sabato 10 novembre 2012

Applicazione riforma del lavoro 2012 sui licenziamenti


Con ordinanza del 25 ottobre 2012 il Tribunale di Milano, ha avuto modo di pronunciarsi per la prima volta sul nuovo rito breve in materia di licenziamenti introdotto e disciplinato dalla riforma del lavoro attuata nel 2012. Afferma l'ordinanza poiché il lavoratore rivendicava il diritto alla reintegrazione in capo ad un datore di lavoro diverso da quello che aveva formalmente proceduto all'assunzione, la lite non poteva essere decisa usufruendo del rito abbreviato.

Per utile memoria si consideri che l'art. 1, commi 47-69, della legge n. 92/2012 introduce nell’ordinamento il nuovo «rito speciale per le controversie in tema di licenziamenti», volto, nelle intenzioni del Legislatore, ad accelerare con corsia preferenziale la generalità dei processi che hanno ad oggetto invocazione di tutela nei confronti di licenziamenti ritenuti illegittimi, con riferimento allo spettro d'azione delle sanzioni dettate dall’art. 18 della legge n. 300/1970.

Secondo quanto si legge nell'ordinanza, limita le decisioni a quelle sole domande in cui è richiesta la reintegrazione alle dipendenze del medesimo datore di lavoro che ha proceduto alla intimazione del licenziamento, restando escluse tutte quelle controversie nelle quali la pronuncia reintegratoria presuppone un'indagine istruttoria volta ad accertare, anche se in via preliminare o incidentale, che la titolarità del rapporto di lavoro deve essere imputata ad altro datore di lavoro, diverso da quello che aveva formalmente in carico il rapporto.
In particolare la delineata struttura del rito speciale si compone di due fasi distinte:
una necessaria, con caratteristiche di urgenza, nella quale il giudice è chiamato ad accogliere o a rigettare, con propria ordinanza, il ricorso (di norma presentato dal lavoratore, ma la legge n. 92/2012 non sembra escludere che al rito speciale possa rivolgersi anche il datore di lavoro);

una eventuale, in quanto rimessa alla attivazione da parte dell’interessato (il lavoratore o il datore di lavoro che sia risultato soccombente), consistente nell’opposizione proposta contro l’ordinanza.

In sostanza l'ordinanza esclude dalla normativa, la legge Fornero, e di conseguenza dal rito accelerato, controversie di portata significativa, quali quelle in materia di licenziamenti che  coinvolgono contratti di somministrazione di manodopera ovvero quelle che riguardano anche il requisito dimensionale dell’impresa, sulla genuinità dell’appalto dei servizi e nelle ipotesi in cui si va da impugnare il licenziamento anche nei confronti di che è effettivo titolare del rapporto di lavoro sottostante non solo ne confronti di chi formalmente ha costituito il rapporto provvedendo a comminare il licenziamento.

Quindi fra i casi per i quali debba trovare applicazione il nuovo rito sommario a doppia fase di primo grado i licenziamenti ritenuti illegittimi che attengono, ad esempio, ad un contratto di collaborazione coordinata e continuativa nella modalità a progetto ovvero ad una associazione in partecipazione con apporto di lavoro o ancora ad un rapporto di lavoro autonomo reso in regime fiscale IVA del quale contestualmente, e preliminarmente, il ricorrente voglia far riconoscere la genuina e reale natura di lavoro subordinato, anche in forza delle presunzioni (assolute e relative) introdotte dalla stessa legge n. 92/2012.

L'interpretazione ha come conseguenza la riduzione dell'ambito di applicazione del rito speciale dal momento che esclude quelle controversie nelle quali si chiede una diversa qualificazione del rapporto di lavoro sottostante sotto il profilo, quantomeno, della sua riconducibilità ad un datore di lavoro che non è quello che aveva formalmente assunto il dipendente licenziato. Tra le cause interessate quelle in materia di licenziamento che presuppongono un accertamento sulla regolarità del contratto di somministrazione di lavoro, nelle quali la titolarità del rapporto è rivendicata in capo all'utilizzatore delle prestazioni.

Questa interpretazione riduce in modo evidente la sfera di applicazione della legge Fornero lasciando fuori da questa tutela settori di grande importanza quale quello della regolarità del contratto di somministrazione nelle quali la  titolarità è rivendicata in capo all’utilizzatore, tutte le ipotesi di accertamento del requisito dimensionale mediante collegamenti societari e le ipotesi di verifica delle genuinità di appalti per prestazioni d’opera o di servizi.

La tesi del Tribunale di Milano sembra porsi in aperto contrasto con lo stesso tenore letterale della norma perché non considera che il nuovo procedimento sommario si applica anche alle controversie sui licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro sottostante.
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