venerdì 31 ottobre 2014

Comportamento antisindacale:occorre lesione di interessi collettivi del sindacato



Per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) occorre che gli atti e i comportamenti del datore di lavoro impediscano o limitino l'esercizio delle libertà e attività garantite al sindacato, assumendo rilevanza esclusivamente la lesione oggettiva degli interessi collettivi di cui il sindacato è portatore, e restando privo di rilievo, ai fini della concessione della tutela inibitoria, l'intento del datore di lavoro, sia nel senso che la tutela non può essere negata in presenza di situazioni di buona fede dell'autore del comportamento, sia nel senso che l'intento di nuocere al sindacato non è idoneo ad integrare condotta antisindacale ove manchi la lesione degli interessi collettivi considerati dalla norma.

La definizione del concetto di libertà e attività sindacale si ottiene, in positivo, riconducendo a tale ambito tutte le attribuzioni di cui il sindacato è titolare ai fini della tutela di interessi collettivi; in negativo, collocando fuori del suo ambito, la sfera degli interessi morali e patrimoniali dei singoli lavoratori.

La condotta del datore di lavoro violatrice di diritti individuali, derivanti dalla legge (anche dalla Costituzione, come il diritto alla retribuzione o alle ferie) o dai contratti collettivi, non può mai concretare condotta antisindacale, fermo restando che al pregiudizio del diritto individuale potrebbe accompagnarsi anche il pregiudizio di interessi collettivi, come, ad esempio, nel caso di inadempimenti retributivi connessi a scioperi, di reazioni disciplinari all'esercizio di attività sindacali.

L'attualità del comportamento antisindacale, quale condizione della domanda di cui ex art. 28 legge n. 300 del 1970, non è esclusa dall'esaurirsi del singolo comportamento, atteso che la lesione dell'attività sindacale, che segna l'interesse del sindacato, permane qualora il comportamento denunciato sia suscettibile di produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell'attività sindacale.

L'attualità della condotta antisindacale non è esclusa dall'inerzia nella presentazione del ricorso ex art. 28, ove il comportamento illegittimo sia idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo per la sua portata intimidatoria e per la conseguente situazione di incertezza tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell'attività sindacale.

Ha natura antisindacale la condotta del datore di lavoro pubblico, che abbia violato il diritto di informazione e consultazione del sindacato, così incidendo sulla sfera patrimoniale del medesimo, intesa quale comprensiva del suo diritto all'immagine e al rispetto della sua funzione. Quando sussiste  un diritto delle organizzazioni sindacali di essere informate o interpellate, la violazione di tale obbligo lede un diritto del sindacato e integra un comportamento antisindacale. E l'inadempimento perdura fino a quando non sia eseguita la prestazione dovuta. Inoltre nel caso in esame la perdurante vigenza dei provvedimenti adottati in violazione degli obblighi di informazione perpetua fino alla completa rimozione degli effetti pregiudizievoli lamentati, consistenti nella permanente vigenza dei provvedimenti adottati in violazione degli obblighi di informazione, cioè la sottrazione al sindacato della facoltà di controllo dell'esercizio del potere.

L'attualità della condotta antisindacale e dei suoi effetti, che costituisce condizione per la pronuncia del provvedimento di cui all'art. 28 della legge n. 300 del 1970, deve essere verificata e valutata nella concretezza del suo modo di essere e della sua attitudine a impedire o limitare l'esercizio della libertà e dell'attività sindacale o del diritto di sciopero, anche facendo uso di presunzioni, ma sicuramente non mediante mere illazioni o asserzioni.

L'attualità del comportamento antisindacale non è esclusa dall'esaurirsi del singolo comportamento, atteso che la lesione dell'attività sindacale permane anche successivamente quando il comportamento denunciato sia suscettibile di produrre effetti durevoli nel tempo.

È infondata l'eccezione relativa all'attualità della condotta antisindacale, quando la semplice dichiarazione di antisindacalità del comportamento denunciato può rivestire una qualche utilità sul piano della rimozione degli effetti.

L'esaurirsi della singola azione antisindacale del datore di lavoro non può costituire preclusione alla pronuncia di un ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo, nel caso in cui questo risulti ancora persistente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne deriva, tale da determinare una restrizione o un ostacolo al libero svolgimento dell'attività sindacale.

È ammissibile il ricorso ex art. 28 quando il comportamento denunciato come antisindacale sia permanente e idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo. L'attualità del comportamento denunciato come antisindacale deve essere ritenuta sussistente qualora ne persistano gli effetti al momento della presentazione della domanda . E' ammissibile il ricorso alla procedura dell’art. 28 non solo quando al momento della proposizione della domanda sia attuale la condotta antisindacale o i relativi effetti, ma anche quando il dedotto comportamento antisindacale sia espressione di un persistente atteggiamento del datore di lavoro, tale da comportare ripercussioni negative durevoli sull'attività e libertà sindacale.

La concreta possibilità che i reiterati rifiuti di concessione dell’assemblea sindacale tornino a ripetersi giustifica l’interesse del sindacato all’ottenimento di un provvedimento che imponga una regola di comportamento per il futuro. Qualora la condotta antisindacale non sia meramente episodica, ma destinata a persistere nel tempo, deve essere ordinato il divieto di reiterare in futuro i medesimi comportamenti.

In tema di repressione della condotta antisindacale, di cui all’art. 28 dei lavoratori, la legittimazione ad agire è riconosciuta dalla citata norma alle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, richiedendo pertanto il solo requisito della diffusione del sindacato sul territorio nazionale, con ciò dovendosi intendere che sia sufficiente – e al tempo stesso necessario – lo svolgimento di un’effettiva azione sindacale non su tutto ma su gran parte del territorio nazionale, senza esigere che l’associazione faccia parte di una confederazione né che sia maggiormente rappresentativa. In particolare, qualora dispongano dei requisiti sopra indicati, sono legittimate anche le associazioni sindacali intercategoriali, in riferimento alle quali però i limiti minimi di presenza sul territorio nazionale ai fini della rappresentatività devono ritenersi, in termini assoluti, più elevati di quelli richiesti da un’associazione di categoria. L’individuazione degli organismi locali delle associazioni sindacali legittimati ad agire deve desumersi dagli statuti interni delle associazioni stesse, dovendosi fare riferimento alle strutture che tali istituti ritengono maggiormente idonee alla tutela degli interessi locali.

In tema di repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro la legittimazione ad agire deve essere riconosciuta anche a quelle associazioni sindacali di categoria che, seppur singolarmente siano prive del requisito di rappresentatività. si siano associate in modo da garantire la sussistenza dei requisiti di diffusione sul territorio nazionale e del concreto esercizio dell'attività sindacale a livello nazionale.

Anche un sindacato che non ha proclamato lo sciopero per la partecipazione al quale sono stati sanzionati disciplinarmente dei lavoratori ha interesse ad agire per l'accertamento della natura antisindacale delle sanzioni, in quanto l'accertamento dell'illiceità della condotta del datore di lavoro soddisfa un interesse concreto di tutti i sindacati operanti nel contesto in cui la condotta stessa è posta in essere, a prescindere dal coinvolgimento dei propri aderenti o iscritti.


Condotta antisindacale legittimazione passiva




Sussiste la legittimazione passiva dell'istituzione scolastica statale, mentre va esclusa quella del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, in ordine a una controversia avente a oggetto la legittimità del diniego opposto da un dirigente scolastico alla richiesta di indizione di assemblea formata dai membri della RSU, posto che a seguito della riforma di cui alla l. n. 59/1997 e al d.p.r. n. 275/1999 le istituzioni scolastiche sono diventate soggetti giuridici autonomi.

La pacifica attribuzione alle "istituzioni scolastiche" di personalità giuridica comporta necessariamente, alla luce del dispositivo ex art. 24 Cost. (precetto che rende del tutto superflua una specifica previsione normativa volta ad attribuire il diritto di azione a colui che è titolare del diritto sostanziale), la loro legittimazione a stare in termini a tutela dei propri diritti.

E' inammissibile il giudizio ex art. 28 Statuto dei lavoratori proposto contro una società cooperativa per fatti attinenti al rapporto tra questa e un socio lavoratore, se il sindacato ricorrente non deduca e provi la natura simulatoria del rapporto associativo.

A seguito dell’introduzione del lavoro notturno in azienda in assenza di una previa consultazione con la rappresentanza sindacale unitaria, quest’ultima lamenta la violazione della procedura prevista dall’art. 12 del Dlgs. 8 aprile 2003, n.66 e presenta ricorso al giudice ex art. 28 della L. 300/1970 per far dichiarare antisindacale tale condotta.

L’art. 28 attribuisce la legittimazione ad agire per la repressione della condotta antisindacale esclusivamente agli “organismi locali delle organizzazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse”; tuttavia la norma non specifica come individuare in concreto gli organismi locali di un sindacato di dimensione nazionale ma rinvia implicitamente all’interno della sua struttura organizzativa.

Il significato dell’espressione “organismo locale” è da riferire alle articolazioni più periferiche dei sindacati nazionali, più vicine alle situazioni che si devono difendere con la speciale azione ex art. 28.

La transizione dalle r.s.a. alle r.s.u. operata dall’Accordo Interconfederale del 1993 ha riaperto una questione che in precedenza era stata chiusa con un’elaborazione giurisprudenziale che negava la legittimazione ad agire nel procedimento di repressione della condotta antisindacale alle r.s.a. previste all’art. 19, in quanto strutture autonome non organicamente inserite nell’ambito delle associazioni sindacali in cui si costituiscono.

L’art. 28 è stato riesaminato dalla giurisprudenza di merito che si è divisa sulla configurabilità o meno della r.s.u. come organismo locale del sindacato: infatti mentre la Pretura di Brescia nel 1997 afferma che le attuali r.s.u. hanno una composizione ibrida (2/3 dei seggi sono ripartiti tra tutte le organizzazioni; 1/3 tra le associazioni sindacali firmatarie del C.C.N.L.) e una genesi che consente di considerare le stesse quale espressione locale delle organizzazioni sindacali nazionali; il Tribunale di Civitavecchia nel 2000 sostiene invece che perché un siffatto organismo possa essere considerato organo periferico del sindacato, è pur sempre necessario che esso presenti un legame con le strutture centrali del sindacato nazionale e quindi le stesse modalità di costituzione delle r.s.u., inducono a dubitare fondatamente delle possibilità di riconoscere alle stesse la natura di organismi locali dei sindacati, apparendo, piuttosto, come organismi di natura mista ed ibrida, organi sindacali aziendali rappresentativi della generalità dei lavoratori a carattere prevalentemente elettivo, come sono stati definiti in dottrina.

La Corte di Cassazione n. 1307/2006 ha sviluppato la questione precisando che il carattere “nazionale” dell’associazione sindacale è un dato attinente non solo alla mera dimensione territoriale, ma anche all’attività in concreto svolta dalla stessa.

Come è noto l’art. 28 non riconosce la legittimazione ad agire a tutte le associazioni sindacali, ma la limita ad organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse; la ragione giustificatrice sottesa alla limitazione della legittimazione dell’art. 28 è anche sostanziale (legata all’attività del sindacato e agli interessi collettivi tutelati) e non già solo formale (in base al criterio territoriale).

Ciò significa che lo Statuto dei lavoratori pensava ad un sindacato “nazionale” che, avendo una visione ampia degli interessi dei lavoratori associati, ne perseguisse la tutela non già in un’area limitata, ma in tutto il paese e quindi con un’attività sindacale svolta anche su tutto il territorio nazionale e non già solo localmente.



Il comportamento antisindacale del datore di lavoro



La condotta antisindacale è quella tenuta dal datore di lavoro o dai soggetti che in suo nome hanno agito per l’esercizio dell’impresa; il comportamento è illegittimo in quanto idoneo a ledere beni protetti ed è molto offensivo in quanto gli interessi lesi possono essere anche individuali e non solo del sindacato. Il soggetto giuridico che può presentare ricorso deve essere l’articolazione più periferica di un’organizzazione sindacale nazionale e non rappresentare un’unica categoria di lavoratori; i singoli prestatori di lavoro sono quindi esclusi. Possono presentare ricorso le organizzazioni sindacali che vi abbiano interesse; l’interesse tutelato è quello sindacale indipendentemente dal fatto che il sindacato sia in azienda o che il lavoratore sia iscritto.

Il comportamento antisindacale del datore di lavoro, in relazione a uno sciopero indetto dai lavoratori, è configurabile allorché il contingente affidamento delle mansioni svolte dai lavoratori in sciopero al personale rimasto in servizio, nell’intento di limitarne le conseguenze dannose, avvenga in violazione di una norma di legge o del contratto collettivo, in particolare dovendosi accertare che, da parte del giudice di merito, ove la sostituzione avvenga con lavoratori di qualifica superiore, se l’impiego dei primi a mansioni inferiori avvenga eccezionalmente, marginalmente e per specifiche e obiettive esigenze aziendali.

E' antisindacale il comportamento aziendale consistito nel licenziamento di tre attivisti e militanti sindacali per fatti successi durante uno sciopero, risultati diversi in giudizio rispetto a quelli contestati nei procedimenti disciplinari, in quanto i comportamenti addebitati sono risultati oggettivamente insussistenti e comunque, anche dal punto di vista soggettivo, è risultato assente il deliberato intento di arrestare la produzione aziendale, contestato invece da parte aziendale; per l'antisindacalità, invece, è stato ordinato al datore di lavoro il reintegro immediato dei lavoratori licenziati e la pubblicazione del dispositivo del decreto sui giornali.

La condotta antisindacale è attuale e persiste sino a che la prestazione dovuta in favore delle organizzazioni sindacali non sia eseguita.

Costituisce comportamento antisindacale il rifiuto datoriale di effettuare le trattenute dei contributi sindacali richieste dai lavoratori sulla propria retribuzione a titolo di cessione del credito. E' antisindacale la condotta tenuta in violazione degli obblighi di informazione, di concertazione e del divieto di assunzione di iniziative unilaterali su materie oggetto di confronto in pendenza dello stesso, previsti dai CCNL di riferimento succedutisi nel tempo, in quanto le norme di cui al d.lgs. n. 150/2009 si applicano a far data dalla tornata successiva a quella in corso e dunque i contratti collettivi nazionali restano in vigore sino alla prevista scadenza.

Integra gli estremi della condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro consistente nel licenziamento, per asserita soppressione del datore di lavoro, di due lavoratori durante il periodo di sospensione in Cig ordinaria, in violazione di precedente accordo sindacale con cui l'azienda si era impegnata a domandare l'intervento della Cig (nella fattispecie, il giudice ha conseguentemente ordinato la reintegrazione dei lavoratori e il pagamento delle retribuzioni perdute dal licenziamento alla effettiva reintegrazione).

L'esaurirsi della condotta antisindacale non è di ostacolo alla pronuncia di antisincalità, nel caso in cui quel comportamento produca effetti durevoli o abbia una portata intimidatoria o ancora crei una situazione di incertezza.

All'accertamento del carattere antigiuridico di un comportamento antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori, segue la possibilità, da parte delle organizzazioni sindacali e dei singoli dipendenti, di esperire azione risarcitoria fondata su tale antigiuridicità.

E' antisindacale il comportamento del datore di lavoro che abbia disposto modifiche dell'articolazione dell'orario di lavoro senza rispettare le procedure di concertazione previste dal Ccnl.

La definizione della condotta antisindacale di cui all'art. 28 dello Statuto dei lavoratori (Legge n. 300 del 1970) non è analitica ma teleologica poiché individua il comportamento illegittimo non in base a caratteristiche strutturali, bensì alla sua idoneità a ledere i "beni" protetti. Pertanto per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all'art. 28 (legge n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatori le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro, potendo sorgere l'esigenza di una tutela della libertà sindacale anche in relazione a un'errata valutazione del datore di lavoro circa la portata della sua condotta, così come l'intento lesivo del datore di lavoro non può di per sé far considerare antisindacale una condotta che non abbia rilievo obbiettivamente tale da limitare la libertà sindacale.

E' legittimata a esperire l'azione di repressione della condotta antisindacale l'associazione sindacale che abbia carattere nazionale, per l'accertamento del quale assume rilievo, più che la diffusione dell'articolazione territoriale delle strutture dell'associazione, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e che non possono che essere, a loro volta, espressione di una forte capacità negoziale comprovante un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico dell'intero paese, di cui la concreta ed effettiva organizzazione territoriale può configurarsi come elemento di riscontro del suo carattere nazionale e non certo come elemento condizionante il detto requisito della nazionalità.



Condotta antisindacale del datore di lavoro



Se il datore di lavoro adotta comportamenti che impediscono o limitano l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale o del diritto di sciopero, gli organismi locali delle organizzazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, possono presentare ricorso davanti al tribunale monocratico.

Nei due giorni successivi, il giudice del lavoro, convocate le parti e acquisite le informazioni necessarie, se dovesse accertare tale violazione, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato e immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.

Contro il decreto, il datore di lavoro può, entro 15 giorni dalla comunicazione, proporre opposizione davanti al tribunale monocratico che decide con sentenza immediatamente esecutiva.

Il datore di lavoro che non osserva il decreto o la sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione, è punito dall’art. 650 c.p. (“Inosservanza di un provvedimento emesso da una pubblica autorità”) secondo il quale “chiunque non osserva un provvedimento emesso da una pubblica autorità è punito con l’arresto fino a tre mesi o con un’ammenda fino ad euro 206.

Ai fini della legittimazione attiva a promuovere l’azione prevista dall’art. 28 della l. n. 300/1970, per “associazioni sindacali nazionali” devono intendersi associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale, ma non è necessario che tale azione comporti anche la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali.

Anche nell'ambito del pubblico impiego la legittimazione ad agire per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro, deve essere determinata secondo i criteri delineati dall'art. 28; non è infatti consentito il rinvio ai differenti criteri, delineati ai fini della contrattazione collettiva, previsti dall'art. 43 del Testo Unico pubblico impiego.

In tema di rappresentatività sindacale il criterio legale dell'effettività dell'azione sindacale equivale al riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi. Ne consegue che, ai fini del riconoscimento del carattere "nazionale" dell'associazione sindacale assume rilievo, più che la diffusione delle articolazioni territoriali, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e attestano un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socio-economico del paese, di cui la concreta ed effettiva organizzazione territoriale si configura quale elemento di riscontro del suo carattere nazionale piuttosto che come elemento condizionante.

Il sindacato nazionale il cui organismo locale è legittimato a proporre ricorso ex art. 28 è quello che non solo ha effettiva diffusione su tutto il territorio nazionale ma che svolge un'effettiva attività sindacale a livello nazionale.

Sussiste la legittimazione attiva del sindacato che abbia una diffusione apprezzabile in aree territoriali diverse, così da escludere il carattere meramente regionale o locale di quel sindacato.

Poiché l'esercizio del diritto di riunione previsto dall'art. 20 può essere esercitato in piena libertà di luogo sia all'interno che all'esterno del luogo di lavoro, con i soli limiti prescritti dalla legge e dalla contrattazione collettiva, costituisce condotta antisindacale il comportamento tenuto dal datore di lavoro consistito nell'aver avviato procedimenti disciplinari a carico dei lavoratori che avevano preso parte a un'assemblea itinerante (nella fattispecie, era stata indetta un'assemblea che si sarebbe dovuta svolgere presso la zona pubblica antistante la cancellata di ingresso).

Il sindacato è legittimato ad agire ex art. 28 per la tutela dei diritti propri delle Rsu, in quanto tale norma tutela non solo i diritti sindacali dei membri dell'organizzazione, bensì la libertà e i diritti di tutti i lavoratori e di tutti i sindacati.

Il sindacato nazionale il cui organismo locale è legittimato a proporre ricorso per la repressione della condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 della legge n. 300 del 1970 è quello che non solo ha effettiva diffusione su tutto il territorio nazionale ma che svolge, altresì, in concreto un’attività sindacale (anche con riferimento al momento contrattuale) a livello nazionale; le rappresentanze sindacali unitarie, costituite in virtù dell’art. 19 della stessa legge n. 300 del 1970, non sono invece legittimate, esclusivamente in quanto tali, a proporre il ricorso disciplinato dal citato art. 28.

Il requisito della nazionalità che, ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav., attribuisce a un’associazione sindacale la legittimazione ad agire in giudizio per la denuncia dell’antisindacalità della condotta del datore di lavoro deve essere stabilito attraverso un criterio di effettività, non essendo sufficiente che sia soddisfatto il requisito formale dell’affermazione statutaria dello scopo nazionale dell’associazione.

Sussiste la legittimazione ad agire ai sensi dell'art. 28 SL in capo ad un'organizzazione sindacale che operi tramite diverse articolazioni territoriali in ambito diverso da quello locale.

Il ricorso per la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro non può essere proposto dagli organismi locali delle confederazioni sindacali o, come nel caso di specie, del "dipartimento" ricorrente, trattandosi di soggetti che rappresentano organizzazioni sindacali complesse formate da una pluralità di sindacati di categoria.

Il requisito della "nazionalità" del sindacato previsto per la legittimazione ad agire ex art. 28, l. n. 300/70, non è soddisfatto, di per sé, dalla autodefinizione di nazionale operata dallo stesso sindacato, essendo necessaria per conferire detta legittimazione l'effettività di una presenza forte dell'associazione sindacale sul territorio nazionale, tale da farne appunto un soggetto rappresentativo di larghi strati di lavoratori, così da essere razionalmente funzionale e non controproducente rispetto all'obiettivo di un reale rafforzamento della loro posizione nel conflitto industriale. Se per essere "nazionale" un'associazione sindacale non deve necessariamente essere presente in tutte le regioni italiane, occorre però, quanto meno, che sia diffusa in un numero significativo di regioni e non molto distante dal totale.

La legittimazione ad intraprendere l'azione giudiziale per la repressione della condotta antisindacale compete anche alle associazioni sindacali che non abbiano stipulato contratti collettivi nazionali; ai fini della sussistenza del requisito della dimensione nazionale è sufficiente accertare che dalle disposizioni statutarie emerga lo scopo dell'organizzazione sindacale di proporsi stabilmente quale punto di aggregazione di strutture e di attività sindacali su tutto il territorio nazionale e si comporti coerentemente con tale previsione. Al fine di riconoscere la sussistenza del requisito della nazionalità, è necessario che il sindacato abbia una significativa e omogenea presenza nelle varie parti del territorio nazionale.


lunedì 27 ottobre 2014

Assunzioni agevolate solo nel 2015 e sgravi per i datori di lavoro



La Legge di Stabilità da una parte introduce nuove assunzioni agevolate, con uno sgravio triennale per le assunzioni effettuate nel 2015, dall’altra prevederà una rimodulazione degli sgravi contributivi già previsti in materia di assunzioni a tempo indeterminato. L’articolo 1 comma 4 del disegno di legge delega sul Jobs Act affida infatti al Governo anche la razionalizzazione degli incentivi all’assunzione esistenti.

Il testo ufficiale della Legge di Stabilità 2015 conferma, all’articolo 12 “Sgravi contributivi per assunzioni a tempo indeterminato” la soppressione dal prossimo anno delle assunzioni agevolate previste dalla Legge 407/1990 e la definizione di nuove agevolazioni volte a promuovere forme di occupazione stabile.

Più in particolare ai datori di lavoro privati, con esclusione del settore agricolo, che avvieranno nuove assunzioni con contratto di lavoro a tempo indeterminato, con esclusione dei contratti di apprendistato e dei contratti di lavoro domestico, a partire dal 1° gennaio 2015 verrà riconosciuto l’esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali per un massimo di 36 mesi. Confermata l’esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL e il limite massimo di un importo di esonero pari a 8.060 euro su base annua. La novità è che tale beneficio spetta solo con riferimento a contratti stipulati non oltre il 31 dicembre 2015.

L’esonero spetta ai datori di lavoro a patto che si tratti di nuove assunzioni di lavoratori:

che nei sei mesi precedenti non siano stati occupati a tempo indeterminato presso qualsiasi datore di lavoro;

per i quali tale beneficio non sia già stato usufruito in relazione a una precedente assunzione a tempo indeterminato.

L’esonero non può inoltre essere cumulato con altri esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente. Nessun vincolo invece per quanto riguarda eventuali riduzioni di organici, anche le imprese che lo abbiano fatto negli ultimi anni o mesi potranno accedere all’incentivo.

Ogni mese l’INPS consegnerà al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nonché al Ministero dell’Economia e delle Finanze, un report contenente il monitoraggio del numero dei contratti incentivati attivati e il calcolo delle conseguenti minori entrate contributive.

Per il finanziamento delle nuove assunzioni agevolate la Legge di Stabilità 2015 stanzia 1 miliardo di euro per ciascuno degli anni 2015, 2016 e 2017 e 500 milioni per il 2018, a valer e sulla corrispondente riprogrammazione delle risorse del Fondo di rotazione di cui alla legge 16 aprile 1987, n. 183, già destinate agli interventi del Piano di Azione Coesione, ai sensi dell’articolo 23, comma 4, della legge 12 novembre 2011, n. 183, che , dal sistema di monitoraggio del Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, risultano non ancora impegnate alla data del 30 settembre 2014.

Invero l’articolo 12, comma 1, della Legge di Stabilità 2015 prevede uno sgravio triennale (36 mesi) dei contributi per i datori di lavoro del settore privato, con esclusione di quello agricolo e del lavoro domestico, relativamente alle sole assunzioni effettuate nel 2015 a beneficio di soggetti che risultino inoccupati a tempo indeterminato presso qualsiasi altro datore di lavoro.

L’inoccupabilità dovrà essere verificata anche considerando società controllate o collegate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto.

Le assunzioni dovranno avvenire esclusivamente con contratto a tempo indeterminato, quindi niente incentivi per i contratti di apprendistato, e gli sgravi riguardano esclusivamente i contributi previdenziali, con esclusione dei premi e contributi dovuti all’INAIL. Il limite annuo è fissato inoltre a 6.200 euro. L’incentivo potrà essere fruito una sola volta per ciascun lavoratore, ovvero se un soggetto è già stato assunto con lo sgravio, nel caso in cui un datore di lavoro lo voglia riassumere non potrà usufruire dell’agevolazione neanche nel caso in cui il lavoratore sia sta licenziato per non aver superato il periodo di prova. Lo sgravio contributivo non potrà inoltre essere cumulato con altre agevolazioni, esoneri o riduzioni delle aliquote di finanziamento previsti dalla normativa vigente.

I commi 2 e 3 dello stesso articolo 12 della Legge di Stabilità vanno invece ad eliminare due incentivi operativi da ormai oltre 20 anni: gli incentivi per le assunzioni di lavoratori disoccupati di lunga durata e quelli per la stabilizzazione degli apprendisti.

I benefici contributivi per le assunzioni di lavoratori disoccupati da almeno ventiquattro mesi o sospesi dal lavoro e beneficiari di trattamento straordinario di integrazione salariale da un analogo periodo sono attualmente regolati dall’articolo 8, comma 9 della legge 29 dicembre 1990, n. 407. Dal 2015 è prevista l’abrogazione dell’agevolazione che prevede uno sconto per i datori di lavoro pari al 50% (100% per le imprese residenti nelle aree svantaggiate e per le imprese artigiane ovunque ubicate) dei contributi previdenziali, assistenziali e dei premi assicurativi dovuti all’INAIL, per un periodo di 36 mesi.

L’incentivo per la stabilizzazione degli apprendisti è regolato dall’articolo 7, comma 9, ultimo periodo, del decreto legislativo 4 settembre 2011, n. 167. Anche in questo caso l’abrogazione del beneficio opererà a partire dal 2015, quando i datori di lavoro non potranno più mantenere i benefici in materia di previdenza ed assistenza sociale per un anno dopo la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato.

Per la decontribuzione delle assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2015 il Governo stima di spendere un miliardo nel triennio 2015-2017 (e 500 milioni nel 2018). Lo prevede il comma 3, articolo 12 della Legge di Stabilità 2015. Ma dal momento che l’agevolazione sul contratto a tempo indeterminato fa decadere altre due misure di incentivi (stabilizzazione apprendisti e assunzione di disoccupati di lunga durata), di fatto se ne accaparra altri 900 milioni.



domenica 26 ottobre 2014

Politica del lavoro tra la Camusso e la Leopolda 2014




Da una parte i poteri forti e dall’altra chi ha difficoltà nel mondo del lavoro. Roma chiama, Firenze risponde. Tra le due “folle”, quella della Cgil e della Leopolda, è un montare di accuse, di attacchi, di polemiche. Come quella tra l’imprenditore Davide Serra e il leader della Cgil Susanna Camusso. Oggetto del contendere, neanche a dirlo, è il diritto allo sciopero dei lavori pubblici. Che il finanziere vicino al premier vorrebbe limitare, con il segretario del sindacato che rilancia lo sciopero generale. Il duello a distanza, però, è solo un esempio della forte contrapposizione delle due manifestazioni. Articolo 18, legge di Stabilità, rapporti con l’Europa: gli argomenti dei due palchi sono gli stessi, declinati però in maniera diametralmente opposta. E mentre a San Giovanni è Susanna Camusso a tener banco, nella stazione fiorentina è tutto un avvicendarsi di personalità del renzismo, sia politico che imprenditoriale.

«Siamo pronti ad andare avanti con la protesta per cambiare la politica del governo, anche con lo sciopero generale». Susanna Camusso avverte il premier Renzi: la battaglia sul Jobs Act e contro l'abolizione dell'articolo 18 va avanti. La Cgil riempie piazza San Giovanni a Roma: «Siamo oltre un milione» dicono dal sindacato. «Lavoro, dignità uguaglianza per cambiare l’Italia» lo slogan della manifestazione «con tanta gente che chiede lavoro e chiede di estendere i diritti».

Una cosa va detta subito, a onore di Matteo Renzi e della storia della sinistra democratica italiana: il superamento dell'articolo 18 per dar vita a un mercato del lavoro più flessibile a fronte dell'impegno dello Stato a farsi carico del lavoratore licenziato e del suo ricollocamento non è idea estemporanea del nostro giovane premier, né atto di obbedienza ai diktat dell' Unione europea, come sostengono i suoi oppositori esterni e interni. Il progetto della flexecurity, sul modello scandinavo era già, nero su bianco, nel programma di Renzi per le primarie per la premiership del 2012, quelle contro Pier Luigi Bersani. E il libro “Il lavoro e il mercato” del giuslavorista e già parlamentare del Pci (quindi non un esponente della destra radicale) Pietro Ichino - libro che per la prima volta portò in Italia il dibattito sulla flexsecurity e che fu molto apprezzato dall'allora leader del Pds Massimo D'Alema - è uscito non qualche settimana fa ma nel 1996, ormai quasi vent'anni fa.

La divisione delle due visioni delle politiche del lavoro che è andata in scena in questo fine settimana - con una parte sia pur minoritaria del Pd in piazza a Roma sotto le bandiere rosse della Cgil e della Fiom e l'altra parte alla Leopolda di Firenze. La divisione che è andata in scena nel fine settimana con accenti anche drammatici è fondamentalmente la stessa che attraversa il maggior partito della sinistra italiana da almeno vent’anni.

Un milione di persone, secondo gli organizzatori, sono scese in piazza con la Cgil a Roma per protestare contro il governo, il Jobs Act e la legge di Stabilità. Il segretario del sindacato, Susanna Camusso, dal palco: "Siamo pronti a tutto, anche allo sciopero generale. L'Articolo 18 non va abolito bensì esteso anche a chi non ce l'ha". Rosy Bindi attacca il premier, Matteo Renzi: "La Leopolda è una contro-manifestazione imbarazzante".

Camusso: "Articolo 18 non è un totem ideologico" - E' sull'Articolo 18 che la Camusso alza la voce, tra gli applausi della piazza: "L'Articolo 18 non va abolito bensì esteso anche a tutti coloro che non ce l'hanno. Nessuno in buona fede può pensare che licenziare senza una giusta causa sia un totem ideologico. E' invece una tutela concreta", dichiara il segretario. "La giornata di oggi non è solo una fermata. La Cgil è pronta a continuare la sua protesta per cambiare il Jobs act e la politica di questo governo. Anche con lo sciopero generale", avverte la Camusso.

Il numero uno della Cgil chiama poi direttamente in causa il premier e, non appena nomina Renzi, la piazza inizia a fischiare: "Vogliamo dire al premier Renzi: stai sereno, non abbiamo rimpianti sulla concertazione. Lunedì abbiamo l'incontro con il governo sulla legge di Stabilità, lui ha già richiuso la sala verde e ci dà appuntamento al ministero del Lavoro. Stia sereno, per fare la concertazione bisogna condividere gli obiettivi per il Paese e noi i suoi non li condividiamo".

Il giudizio del sindacato sulla Manovra è tutt'altro che positivo: "Crisi e rigore continueranno a tenere il Paese nella stagnazione e la legge di Stabilità non cambia verso - continua la Camusso - Forse qualcuno pensa che l'uguaglianza sia una parola antica, per noi non lo è". Poi la chiusura a effetto del comizio al grido di "Al lavoro, alla lotta", seguito da Bella Ciao.




sabato 25 ottobre 2014

Apprendisti e il contratto di lavoro: giurisprudenza



Con la Sentenza 2015 del 13 febbraio 2012, la sezione Lavoro della Cassazione ha compiuto una completa e puntuale ricognizione normativa della fattispecie dell’apprendistato e ed evidenzia gli elementi differenziali di tale rapporto rispetto a quelli propri del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato La sentenza in epigrafe si segnala per la completa e puntuale ricognizione normativa della fattispecie dell’apprendistato e per l’accuratezza della motivazione nella distinzione degli elementi di tale rapporto rispetto a quelli propri del rapporto di lavoro subordinato.

Il caso riguardava il recesso datoriale esercitato nei confronti di un’apprendista; quest’ultima aveva dedotto la dissimulazione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ed aveva impugnato l’atto quale licenziamento illegittimo, chiedendo la reintegra nel posto di lavoro. La Corte conferma la sentenza impugnata che ha respinto le pretese attoree, e, tra l’altro, precisa che la disciplina legale dell’apprendistato richiede che il rapporto debba avere un effettivo contenuto formativo professionale, ma non fissa al datore di lavoro l’obbligo di impartire l’insegnamento pratico secondo modalità’ particolari, restando possibile una sua modulazione secondo le esigenze aziendali.

Secondo la sentenza, l’attività formativa può assumer maggiore o minore rilievo a seconda che si tratti di lavoro di elevata professionalità o di semplici prestazioni di mera esecuzione, fermo restando la necessità dell’adeguatezza di tale attività formativa a raggiungere lo scopo del contratto.

La valutazione di tale adeguatezza, peraltro, precisa la Corte, è rimessa al giudice di merito e non è censurabile in sede di legittimità se congruamente motivata. In precedenza, nella giurisprudenza di legittimità, si richiama Cass., Sez. L, Sentenza n. 11482 del 01/08/2002, secondo la quale l'apprendistato è un rapporto di lavoro speciale in forza del quale l'imprenditore è obbligato ad impartire nella sua impresa all'apprendista l'insegnamento necessario perché questi possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato. Affinché tale obiettivo possa essere raggiunto è necessario lo svolgimento effettivo sia delle prestazioni lavorative da parte del dipendente sia della corrispondente attività di insegnamento da parte del datore di lavoro, essendo consentito a quest'ultimo di modulare la prestazione dell'apprendista e l'addestramento pratico in relazione alle concrete esigenze dell'organizzazione aziendale.

Sulle differenze tra l’apprendistato ed il contratto di formazione e lavoro, Cass., Sez. L, Sentenza n. 11365 del 08/05/2008, ha affermato – traendone alcune conseguenze in ordine alla conversione del rapporto medesimo in rapporto di lavoro a tempo indeterminato - il principio secondo il quale nel contratto di formazione e lavoro la funzione del contratto, diversamente dall'apprendistato, non tende a consentire il mero conseguimento delle nozioni base per l'esecuzione della prestazione professionale, ma a favorire, attraverso l'acquisizione di specifiche conoscenze, l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale in funzione dell'accesso nel mondo del lavoro.

Il contratto di apprendistato ha una causa tipicamente mista: accanto a quella propria del rapporto di lavoro, caratterizzato dallo scambio tra retribuzione e prestazione lavorativa, si pone quella del conseguimento della capacità tecnica necessaria per divenire lavoratore qualificato. A tal fine, il datore di lavoro è obbligato a impartire, o comunque garantire, la necessaria formazione all’apprendista. Tuttavia, se si instaura un ordinario rapporto di lavoro subordinato, ciò avviene in quanto il datore di lavoro ritiene che il prestatore sia sufficientemente perito per espletare quella mansione senza la necessità di un previo addestramento; il successivo contratto di apprendistato che venga eventualmente stipulato con assegnazione alle medesime mansioni, in mancanza di quella causa tipica, non può pertanto che essere considerato nullo quale contratto di apprendistato, e deve invece essere qualificato quale contratto ordinario di lavoro.

Non è incostituzionale l'art. 23, comma 1, del decreto-legge n. 112 del 2008, che ha modificato l'art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 276 del 2003, eliminando la previsione della durata minima del contratto di apprendistato professionalizzante. La legge non riduce automaticamente i tempi della formazione professionale e non lede la competenza delle Regioni in materia di formazione professionale.

E' costituzionalmente illegittimo - per contrasto con gli artt. 117 e 120 Cost. e con il principio di leale collaborazione - l'art. 23, comma 2, del decreto-legge n. 112 del 2008, limitatamente alle parole "non opera quanto previsto dal comma 5. In questa ipotesi", "integralmente" e "definiscono la nozione di formazione aziendale e", in quanto, rimettendo esclusivamente ai contratti collettivi di lavoro o agli enti bilaterali profili normativi dell'apprendistato professionalizzante, oblitera le competenze regionali in materia.

L’apprendistato è una forma di apprendimento consistente in un’attività di lavoro associata all’acquisizione di cognizioni tecnico-pratiche finalizzate all’acquisizione della professionalità oggetto dell’apprendistato. La circostanza che il contratto di apprendistato non preveda alcun progetto formativo né il programma di ore di studio esterno non fa venir meno l’esistenza del rapporto di apprendistato, essendo sufficiente ai fini della qualificazione del rapporto che in concreto il datore di lavoro abbia impartito direttamente o tramite i colleghi dotati di esperienza professionale le istruzioni tecniche necessarie. (Trib. Bologna 19/5/2009, Giud. Pugliese, in Lav. Nella giur. 2009, 956)

L’apprendistato è uno speciale contratto di lavoro caratterizzato non solo dall’insegnamento professionale svolto nell’interesse dell’apprendista ma anche dal diritto di quest’ultimo a ricevere tale insegnamento correlativamente all’obbligo del datore di lavoro di impartirlo o di farlo impartire. Ne consegue che lo svolgimento delle prestazioni di lavoro secondo modalità che implicano l’inosservanza delle disposizioni di cui agli artt. 10 e 11, l. n. 25/1995 comporta, ai sensi dell’art. 1418 c.c., la nullità del contratto di apprendistato stipulato solo per occultare un ordinario contratto di lavoro subordinato. (Trib. Milano 20/7/2004, Est. Bianchini, in Lav. nella giur. 2005, 289)

L’assunzione di un lavoratore con la qualifica di apprendista non comporta di per sé l’instaurazione di un rapporto di apprendistato e pertanto, in caso di contestazione, la sussistenza di tale rapporto va provata dalla parte che l’allega, mediante la dimostrazione dei relativi requisiti essenziali e soprattutto dell’insegnamento professionale; non assume al detto fine significato decisivo il fatto che il lavoratore assunto sia privo di una precedente esperienza lavorativa, trattandosi di circostanza non incompatibile con la costituzione di un normale rapporto di lavoro. (Corte d’appello Milano 18/5/2004, Est. Ruiz, in Lav. nella giur. 2005, 87)

È illegittimo il contratto di apprendistato stipulato nei confronti di un lavoratore che già lavorava di fatto alle dipendenze del medesimo datore di lavoro, svolgendo le stesse mansioni (nella fattispecie è stata dichiarata l'illegittimità della risoluzione del rapporto, con conseguente diritto del lavoratore alla riassunzione con inquadramento corrispondente alla qualifica che sarebbe stata conseguita al termine dell'apprendistato). È illegittimo il contratto di apprendistato nel caso in cui il datore di lavoro non provi di aver impartito all'apprendista l'insegnamento necessario al conseguimento delle capacità per diventare lavoratore qualificato.

E' responsabile per violazione delle regole di comune prudenza (colpa generica, art. 43 c.p.) il datore di lavoro che assegni ad attività oggettivamente pericolosa un giovanissimo apprendista, omettendo, in tal modo, di attenersi alla rigorosa necessità di seguire con assoluta cura i giovani che prestano attività pericolose ed essere, rispetto ad essi, attenti in senso assoluto.

Il contratto di apprendistato non è un contratto a termine, essendo a termine solo l'inquadramento come apprendista. Ne discende che l'inizio di attività di lavoro qualche giorno prima della formale assunzione del dipendente come apprendista non comporta la nullità del contratto di apprendistato in mancanza di allegazioni relative alla instaurazione, prima di quello, di un normale rapporto di lavoro subordinato.

L'apprendistato è un rapporto di lavoro speciale in forza del quale l'imprenditore è obbligato ad impartire nella sua impresa all'apprendista l'insegnamento necessario perché questi possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato. Affinché tale obiettivo possa essere raggiunto è necessario lo svolgimento effettivo sia delle prestazioni lavorative da parte del dipendente sia della corrispondente attività di insegnamento da parte del datore di lavoro, essendo consentito a quest'ultimo di modulare la prestazione dell'apprendista e l'addestramento pratico in relazione alle concrete esigenze dell'organizzazione aziendale.

L'apprendistato, secondo la stessa definizione data dall'art.2, l. n. 25/55, è un rapporto di lavoro speciale in forza del quale l'imprenditore è obbligato ad impartire nella sua impresa all'apprendista l'insegnamento necessario perché questi possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato. Affinché tale obiettivo possa essere raggiunto è necessario lo svolgimento effettivo e non meramente figurativo sia delle prestazioni lavorative da parte del dipendente sia della corrispondente attività di insegnamento da parte del datore di lavoro per un periodo di tempo non inferiore a quello ritenuto congruo dalla contrattazione collettiva per l'apprendimento dell'allievo. Ne consegue che dal computo del periodo di apprendistato vanno esclusi tutti i periodi di interruzione del rapporto sia che siano imputabili al lavoratore (come i giorni di assenza per malattia) sia che dipendano da comprovate esigenze produttive dell'impresa (Cass. 12/5/00, n. 6134, pres. Sciarelli, in Orient. Giur. Lav. 2000, pag. 983; in Lavoro giur. 2002, pag. 159, con nota di Simonato, Gli effetti della sospensione dell'attività produttiva nel rapporto di apprendistato).

E’ affetto da nullità il contratto di apprendistato sottoscritto successivamente all’effettivo inizio del rapporto, in quanto sovrapposto a un normale rapporto di lavoro subordinato instauratosi per fatti concludenti.

Nell’ipotesi di licenziamento disciplinare di un apprendista gli addebiti devono essere oggetto di apposita contestazione ex art. 7 SL la cui normativa trova applicazione anche nel rapporto di apprendistato.

L’assunzione di un lavoratore con qualifica di apprendista senza il tramite dell’Ufficio di collocamento (così come previsto dall’art. 3, L. 19/1/55 n. 25) qualifica il rapporto come ordinario rapporto di lavoro subordinato.

Ai fini della qualificazione dello speciale rapporto di apprendistato grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver impartito al lavoratore l’insegnamento professionale.

La mancata effettuazione del tirocinio e lo svolgimento regolare di lavoro straordinario rende inquadrabile il contratto di lavoro come ordinario rapporto subordinato nonostante il formale di apprendistato, e di conseguenza illegittimo perché privo di giustificazione va ritenuto il licenziamento intervenuto al termine del fissato periodi di apprendistato.



Apprendisti e il contratto di lavoro



L’apprendistato secondo la riforma del mercato del lavoro è visto come principale strumento per lo sviluppo professionale del lavoratore, individuando tale istituto come la «modalità prevalente di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro».

Formazione più agile, costi leggeri, minori vincoli sulle stabilizzazioni. E ancora: ridurre la differenza territoriale dei percorsi formativi e rafforzare l'alto apprendistato nell’università.

La comunicazione datoriale di scadenza del contratto di apprendistato per mancato raggiungimento della qualifica non può qualificarsi come licenziamento, trovando applicazione i principi in materia di disdetta da un contratto a termine; ne consegue l’inapplicabilità del rito speciale di cui all’art. 1, commi 47 ss. l. n. 92 del 2012 e, in mancanza di una specifica disposizione, l’applicazione del principio generale, desumibile dall’art. 702-ter c.p.c., che impone, in caso di errore nella scelta del rito, di dichiarare la inammissibilità della domanda.

Il contratto di apprendistato si configura come contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dall’origine caratterizzato, essenzialmente, dalla causa mista e dalla facoltà del datore di lavoro di recedere dal rapporto ex art. 2118 c.c. alla scadenza del termine dell’attività formativa. Qualora il lavoratore abbia già in precedenza effettuato, preso la medesima azienda, le mansioni tipiche della qualifica che il contratto successivo punta a far ottenere allo stesso lavoratore, residua nel contratto la sola funzione economico sociale propria dell’ordinario contratto di lavoro subordinato, ossia lo scambio fra l’erogazione di energie psico-fisiche e la retribuzione. In tal caso, il rapporto di lavoro deve essere qualificato da origine come un rapporto di lavoro a subordinato ordinario a tempo indeterminato.

Nel caso di contratto di apprendistato illegittimo, con conseguente qualificazione da origine dello stesso come contratto di lavoro subordinato ordinario a tempo indeterminato, l’eventuale disdetta data dall’azienda ex art. 2118 c.c. deve qualificarsi come licenziamento illegittimo perché privo di giusta causa o giustificato motivo oggettivo.

La sussistenza del rapporto di apprendistato non può, in particolare, essere esclusa solo per l’esercizio da parte del dipendente delle mansioni proprie della qualifica cui lo stesso aspira potendo tale esercizio essere manifestazione dell’addestramento pratico caratteristico del rapporto di apprendistato in cui lo svolgimento delle prestazioni lavorative è collegato all’insegnamento impartito dal datore di lavoro – elemento essenziale e sufficiente del rapporto – sicché tali prestazioni risultano di minore livello sia quantitativo che qualitativo e di minore utilità per l’attività produttiva dell’azienda. (Trib. Milano 4/4/2012, Giud. Scarzella, in Lav. nella giur. 2012, 827)

Il contratto di apprendistato è qualificabile come un contratto a causa mista caratterizzato, oltre che dallo svolgimento della prestazione lavorativa, dall’obbligo del datore di lavoro di garantire un’effettiva formazione, finalizzata al conseguimento da parte dell’apprendista di una qualificazione professionale. Conseguentemente, l’omessa formazione professionale determina la sussistenza di un ordinario contratto di lavoro subordinato. (Trib. Prato 9/3/2012, Est. Consani, in D&L 2012, con nota di Andrea Ranfagni, “Apprendistato: natura, conseguenze sanzionatorie, onere della prova e ricostruzione del rapporto”, 470)

Il contratto di apprendistato si configura come contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dall’origine caratterizzato, essenzialmente, dalla causa mista e dalla facoltà del datore di lavoro di recedere dal rapporto ex art. 2118 c.c. alla scadenza del termine dell’attività formativa. Qualora il lavoratore abbia già in precedenza effettuato, preso la medesima azienda, le mansioni tipiche della qualifica che il contratto successivo punta a far ottenere allo stesso lavoratore, residua nel contratto la sola funzione economico sociale propria dell’ordinario contratto di lavoro subordinato, ossia lo scambio fra l’erogazione di energie psico-fisiche e la retribuzione. In tal caso, il rapporto di lavoro deve essere qualificato ab origine come un rapporto di lavoro a subordinato ordinario a tempo indeterminato. (Trib. Prato 11/4/2012, Est. Consani, in D&L 2012, con nota di Andrea Ranfagni, “Apprendistato: natura, conseguenze sanzionatorie, onere della prova e ricostruzione del rapporto”, 470)

Il piano formativo individuale, da redigersi in forma scritta, rappresenta l’elemento indefettibile nel contratto di apprendistato professionalizzante al fine di accertare il corretto svolgimento del rapporto che, in quanto tale, deve necessariamente svilupparsi attraverso un percorso formativo delineato e funzionale all’acquisizione delle competenze professinali proprie della qualifica finale; ne consegue che la mancanza del piano formativo individuale, stante il suo carattere essenziale, determina la nullità del contratto di apprendistato che, quindi, sin dal suo inizio va considerato un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con conseguente diritto del lavoratore alle differenze retributive e venir meno del diritto del datore di lavoro agli incentivi economici e normativi applicati all’apprendistato.

Il contratto di apprendistato consente ai giovani di fare il primo passo nella mercato del lavoro sotto la guida e la supervisione di occhi esperti. Si tratta di una formula rivolta ai giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni, che delega all’azienda responsabile dell’assunzione il compito di monitorare e migliorare la formazione dell’apprendista attraverso un insegnamento di tipo pratico, tecnico-professionale.


venerdì 24 ottobre 2014

Invio istanze Garanzia Giovani, INPS GAGI



Dal 10 ottobre i datori di lavoro privati, interessati ad assumere a tempo determinato o indeterminato nell’ambito del Programma Garanzia giovani, possono inoltrare la domanda preliminare di ammissione ai benefici previsti utilizzando il modulo “GAGI”.

Al modulo telematico si accede dal menu Servizi online>Per tipologie di utente>Aziende, consulenti e professionisti>Servizi per aziende e consulenti>(PIN)>DiResCo>modulo GAGI. Nel messaggio n. 7598 del 9 ottobre  l’Istituto fornisce alcune indicazioni in merito all’invio online delle istanze.

Come già indicato nella circolare 118/2014 (par.7), le istanze relative alle assunzioni effettuate tra il 3 e il 9 ottobre 2014 dovranno essere inviate entro sabato 25 ottobre 2014. La verifica delle disponibilità dei fondi sarà effettuata per tali istanze secondo l’ordine cronologico di decorrenza dell’assunzione mentre, per le istanze relative alle assunzioni effettuate dal  10 ottobre 2014, sarà effettuata per ordine cronologico di presentazione dell’istanza.

Per chiarimenti o segnalazioni i datori di lavoro potranno rivolgersi alla Sede Inps di riferimento, avvalendosi della funzionalità  “Contatti”  del Cassetto previdenziale aziende, accessibile dal Menu Servizi online, ovvero utilizzando l’indirizzo di posta elettronica info.diresco@inps.it per problematiche di carattere giuridico o amministrativo e l’indirizzo supporto.diresco@inps.it  per problematiche di carattere informatico.

Al modulo telematico si accede dal menu Servizi online>Per tipologie di utente>Aziende, consulenti e professionisti>Servizi per aziende e consulenti>(PIN)>DiResCo>modulo GAGI.

L'istituto di previdenza  ricorda che come già indicato nella circolare n. 118/2014 , le istanze relative alle assunzioni effettuate tra il 3 e il 9 ottobre 2014 dovranno essere inviate entro sabato 25 ottobre 2014 e che la verifica delle disponibilità dei fondi sarà effettuata per tali istanze secondo l’ordine cronologico di decorrenza dell’assunzione mentre, per le istanze relative alle assunzioni effettuate dal 10 ottobre 2014, sarà effettuata per ordine cronologico di presentazione dell’istanza.

Per tali istanze la verifica delle disponibilità dei fondi sarà effettuata secondo l’ordine cronologico di decorrenza dell’assunzione. Dopo il 25 ottobre 2014 sarà comunque possibile inviare istanze per assunzioni effettuate tra il 3 e il 9 ottobre 2014; per tali istanze la verifica delle disponibilità dei fondi sarà effettuata secondo il criterio generale, costituito dall’ordine cronologico di presentazione dell’istanza stessa.

Per le istanze relative alle assunzioni effettuate a decorrere dal 10 ottobre 2014 la verifica delle disponibilità dei fondi sarà effettuata secondo il criterio generale, costituito dall’ordine cronologico di presentazione dell’istanza stessa.



giovedì 23 ottobre 2014

Bonus bebé, sarà mensile ma deve essere fatta domanda all'Inps



Secondo l'ultima versione circolata, si tratta di un contributo esentasse riconosciuto a partire dal 2015 per ciascun figlio (anche adottato) alle famiglie con reddito annuo sotto i 36mila euro ai fini Isee (90mila in termini di reddito complessivo). Il contributo, triennale, sarebbe assicurata a ciascun nucleo familiare con cinque o più figli, senza alcun limite di reddito. In termini pratici, il bonus dovrebbe essere corrisposto con un assegno in un'unica soluzione di 960 euro l’anno. L'effetto del bonus voluto dal premier a sostegno della natalità sarebbe 'sterilizzato' ai fini Irpef. Non aumenta cioè il reddito.

Intanto, sono circolate notizie tratte da nuove bozze della legge sul caso del bonus-bebè che sembrava dovesse essere conferito in un’unica soluzione annua, per un importo non inferiore ai 900 euro, solo alle famiglie con reddito basso, inferiore ai 30 mila euro annui, definiti con il metodo di calcolo dell’Isee. Ma il Tesoro è intervenuto per puntualizzare che il bonus verrà erogato mensilmente, anche per i figli adottati, e spetterà quando il reddito dei coniugi complessivamente al lordo non superi i 90 mila euro. La misura varrà per i bambini nati tra il 1° gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017. Dunque le coperture riguarderanno un arco di tempo che va dal 2015 al 2020. Intanto si chiarisce la vicenda del pagamento delle pensioni il 10 di ciascun mese che aveva messo in allarme i sindacati.

Il bonus bebè, per esempio: non arriverà in modo automatico, ma per ottenerlo bisognerà fare domanda all'Inps. E’ quanto prevede la bozza finale della legge di Stabilità. Il bonus (960 euro l'anno) sarà erogato ogni mese per i bimbi nati o adottati tra il primo gennaio 2015 e il 31 dicembre 2017 (fino al terzo anno), a famiglie con reddito complessivo entro 90 mila euro.

Chi potrà usufruirne. Il bonus bebè sarà di 80 euro mensili e verrà concesso unicamente ai quei nuclei familiari il cui reddito ISEE non andrà oltre i 30.000 euro, a coloro che hanno un introito non soggetto a imposta, ai figli degli extracomunitari provvisti di un regolare permesso di soggiorno come minimo da 5 anni e che rientrino nei requisiti di reddito richiesti, ne potranno beneficiare anche le mamme di bambini adottati dal momento in cui il piccolo o grande che sia, entra a far parte della famiglia legalmente riconosciuto.

Il bonus bebè sarà a favore dei bambini nati dal 1 gennaio dell'anno 2015 al 31 dicembre 2017 e ne potranno beneficiare fino al terzo anno di età. Un provvedimeto del Ministro dell'Economia stabilito con i Ministri della Salute e del Lavoro fa sì che l'INPS in caso di cambiamenti possa disporre del potere di ricalcolare la somma annuale e il limite delle prospettive reddituali. La spesa che lo Stato dovrà affrontare per il bonus bebè sarà all'incirca di 500 milioni di euro solamente per l'anno 2015, mentre andrà ad aumentare nell'anno 2016, per il semplice motivo che i bambini nati nel 2015 seguiteranno a riscuotere l'incentivo assieme a quelli dell'anno 2016.


martedì 21 ottobre 2014

Buoni lavoro: le nuove applicazioni con il Jobs Act



La Riforma del mercato del lavoro – L. 92/2012 – ha modificato la regolamentazione delle prestazioni di lavoro di tipo accessorio, confermando all'INPS il ruolo di concessionario del servizio, ed estendendo l’ambito di utilizzo di questa modalità di lavoro.

Per i voucher resta il tetto dei 5mila euro. Il ricorso ai voucher viene esteso ma torna il tetto dei 5mila euro l'anno, elevato nel testo di partenza della delega sul lavoro. E anche il telelavoro, con una revisione della disciplina dei controlli a distanza che apre alle nuove tecnologie per la sorveglianza dei dipendenti, a patto che sia tutelata la dignità e la riservatezza.

Lo Jobs Act, ovvero la Riforma del Lavoro 2014, ha ottenuto all’inizio di ottobre la fiducia al Senato e ora ha iniziato il proprio iter alla Commissione Lavoro della Camera. Tra le novità di maggiore rilievo ci sono le norme sul lavoro occasionale e accessorio, ovvero le regole sull’utilizzo dei voucher lavoro.

Si tratta di modifiche estensive in termini di tetti e modalità di utilizzo dei buoni lavoro per le prestazioni di lavoro accessorio per consentire il ricorso ai voucher anche per le prestazioni di lavoro accessorio relative ad attività lavorative discontinue e occasionali.

In generale i voucher permettono di pagare il singolo lavoratore per ora lavorata, senza bisogno di stipulare alcun contratto. Il loro valore nominale è pari a 10 euro, che comprendono la contribuzione in favore della gestione separata dell’INPS (13%), l’assicurazione all’INAIL (7%) e un compenso all’INPS per la gestione del servizio. Il netto per il lavoratore è quindi di 7,50 euro all’ora.

A cambiare le regole per il lavoro occasionale accessorio è stata nel 2012 la Riforma del Lavoro Fornero prevedendo il pagamento della prestazione attraverso i cosiddetti buoni lavoro (voucher) ed eliminando le causali, oggettive e soggettive che circoscrivevano il ricorso all’istituto introducendo al contempo nuovi limiti di natura economica.

Per quanto riguarda il limite economico, questo è stato portato a 5.050 euro netti (6.740 euro lordi) ma considerato come totale percepito tra tutti i committenti del lavoratore e non più riferito al singolo committente. In caso di prestazioni rese nei confronti di imprenditori commerciali o professionisti, il limite per ciascun committente è fissato a 2.020 euro netti (2.690 euro lordi). Per prestatori percettori di misure di sostegno al reddito il limite economico è di 3.000 euro netti (4.000 euro lordi). Da precisare che le prestazioni di lavoro accessorio integrano attività lavorative di natura “meramente occasionale” rese esclusivamente a favore dell’utilizzatore della prestazione, mentre è vietato il loro impiego nell’ambito di contratti di appalto o in somministrazione.

Con lo Jobs Act il sistema dei buoni lavoro INPS si estende ad altri settori produttivi. L’Istituto sarà poi chiamato a definire, con delle norme attuative, gli ulteriori settori produttivi in cui usare i buoni lavoro accessorio.

Il pagamento delle prestazioni di lavoro accessorio avviene attraverso il meccanismo dei 'buoni', il cui valore nominale è pari a 10 euro.

È, inoltre, disponibile un buono 'multiplo’, del valore di 50 euro equivalente a cinque buoni non separabili ed un buono da 20 euro equivalente a due buoni non separabili.

Il periodo di validità dei Buoni Cartacei acquistati presso le sedi Inps dal 1° gennaio 2012 è fissato in 24 mesi.


Il valore nominale è comprensivo della contribuzione (pari al 13%) a favore della gestione separata INPS, che viene accreditata sulla posizione individuale contributiva del prestatore; di quella in favore dell'INAIL per l'assicurazione anti-infortuni (7%) e di un compenso al concessionario (Inps), per la gestione del servizio, pari al 5%.

Il valore netto del voucher da 10 euro nominali, cioè il corrispettivo netto della prestazione, in favore del prestatore, è quindi pari a 7,50 euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione, salvo che per il settore agricolo, dove, in ragione della sua specificità, si considera il contratto di riferimento.

Il valore netto del buono 'multiplo’ da 50 euro, cioè il corrispettivo netto della prestazione, in favore del lavoratore, è quindi pari a 37,50 euro; quello del buono da 20 euro è pari a 15 euro.

L’acquisto dei buoni-lavoro può avvenire mediante le seguenti procedure:
la distribuzione di voucher cartacei presso le Sedi INPS
la modalità di acquisto telematico
l’acquisto presso i rivenditori di generi di monopolio autorizzati
l'acquisto presso gli sportelli bancari abilitati
l’acquisto presso tutti gli Uffici Postali del territorio nazionale




Guida alla domanda online per il congedo del padre lavoratore



Si precisa che il congedo del padre si configura come un diritto autonomo e pertanto la legge istituisce un congedo obbligatorio (un giorno) e un congedo facoltativo, alternativo al congedo di maternità della madre (due giorni), fruibili dal padre, lavoratore dipendente, anche adottivo e affidatario, entro e non oltre il quinto mese di vita del figlio.

Possono accedere al beneficio:
i padri lavoratori dipendenti anche adottivi e affidatari;
che si trovino in una delle seguenti condizioni:
entro e non oltre il quinto mese di vita del figlio, per eventi parto, adozione e affidamenti avvenuti a partire dal 1°gennaio 2013.

Guida alla compilazione della domanda INPS online per l'indennità di congedo parentale facoltativo spettante al padre lavoratore, con procedura parallela a quella di congedo obbligatorio di paternità.

Vediamo come si compila la domanda di congedo parentale facoltativo per il padre lavoratore, in caso di pagamento INPS dell’indennità, dopo che la Riforma del Lavoro Monti-Fornero (legge 92/2012) ha istituito il congedo obbligatorio di un giorno per i padri nonché uno facoltativo ma alternativo a quello della madre, fruibile dal dipendente entro e non oltre il quinto mese di vita del figlio, per eventi di parto, adozione e affidamento avvenuti da gennaio 2013.

L’Indennità: giornaliera a carico dell’INPS, pari al 100% della retribuzione.
Il congedo è fruibile anche in contemporanea all’astensione della madre a fronte di una sua rinuncia di un equivalente periodo o se non si avvale del diritto al congedo di maternità. L’indennità è anticipata dal datore di lavoro – e successivamente conguagliata, fatti salvi i casi in cui sia previsto il pagamento diretto da parte dell’INPS, come previsto per l’indennità di maternità in generale.

Nei casi di pagamento a conguaglio, ai sensi dell’art.3 del decreto ministeriale del 22 dicembre 2012, per poter usufruire dei giorni di congedo il padre lavoratore dipendente deve comunicare in forma scritta al datore di lavoro le date in cui intende fruirne, con un anticipo di almeno quindici giorni, e ove richiesti in relazione all'evento nascita, sulla base della data presunta del parto.

b) Nei casi di pagamento diretto da parte dell’INPS, la domanda deve essere inoltrata esclusivamente per via telematica, attraverso i seguenti canali di trasmissione:
 WEB – servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN dispositivo attraverso il portale dell’INPS (www.inps.it Servizi on line);
Contact Center integrato – n. 803164;
Patronati, attraverso i servizi telematici offerti dagli stessi.

Così come la domanda di paternità, anche quella di congedo parentale facoltativo deve essere presentata online dai padri lavoratori dipendenti, almeno nei casi in cui sia previsto il pagamento diretto da parte dell’INPS.

Guardiamo i documenti che devono essere allegati:

Copia della dichiarazione della madre di non fruizione di un numero di giorni pari a quelli richiesti dal padre.
Per adozioni o affidamenti nazionali, copia digitalizzata del provvedimento di del Tribunale dei minori e di quello dell’autorità competente (Tribunale o servizi sociali) da cui risulti la data di ingresso del minore in famiglia.

Per adozioni o affidamenti internazionali, autorizzazione all’ingresso del minore in Italia rilasciata dalla Commissione per le Adozioni Internazionali (CAI); copia digitalizzata del certificato dell’Ente autorizzato a curare la procedura di adozione da cui risulti la data di ingresso in famiglia; copia del decreto di trascrizione nei registri dello Stato Civile del provvedimento di adozione emesso dallo Stato estero in caso di adozione pronunciata in tale Stato.

In caso di lavoratore sospeso o licenziato, documentazione rilasciata dal datore di lavoro attestante la data della sospensione o cessazione del rapporto.

Per presentare la domanda online dal sito INPS si effettua il percorso: Servizi Online > Servizi per il cittadino > autenticazione con PIN dispositivo > Invio domande di prestazione di sostegno al reddito > Maternità. Cliccando sulla voce di menu “Acquisizione domanda – Congedo facoltativo”, viene specificato che la funzione permette di effettuare l’acquisizione delle sole domande a pagamento diretto.

Cliccando su Avanti, si apre il modello da compilare con i dati anagrafici e di residenza del richiedente. Cliccando ancora su Avanti si accede alla pagine dei dati della madre, comprensivi della sua situazione lavorativa (dipendente o in gestione separata). Nella pagina successiva vengono acquisiti i dati del minore oggetto della domanda di congedo facoltativo. E’ necessario specificare se si tratta di figlio biologico o di adozione/affidamento nazionale o internazionale. I dati relativi all’adozione o affidamento sono necessari solo se il richiedente è genitore adottivo. La sezione successiva riepiloga i dati inseriti.

Il sistema a questo punto mostra in automatico l’inquadramento lavorativo del richiedente (estremi del datore di lavoro, tipo di contratto e qualifica), che dovrà dichiarare obbligatoriamente se è parente o meno del datore di lavoro e l’eventuale grado di parentela. A questo punto è possibile scaricare il modello di dichiarazione della madre di non fruizione del congedo di maternità a lei spettante per un numero di giorni pari a quelli richiesti dal padre; la documentazione potrà essere allegata per definire la domanda. Il sistema mostra ora i dati riepilogativi della domanda, che cliccando su “Avanti” viene protocollata, accompagnata da ricevuta e riepilogo dati in pdf.



lunedì 20 ottobre 2014

Bonus 80 per le mamme e per quelle che non lavorano?




Ma chi potrebbe mai lamentarsi di un Premier che vuole dare soldi alle neo-mamme? Qualcuno potrebbe riflettere e portare qualche obiezione. La prima è sul tetto massimo di reddito (90.000 euro) per poter accedere al bonus: perché lo Stato (cioè tutti noi) dovrebbe regalare 80 euro al mese a una famiglia che ha già entrate annuali di 70.000 od 89.000 euro annui?. Non sono pochi.

Il nuovo Bonus bebè 2015 voluto da Renzi sarà destinato a tutte le neomamme di famiglie il cui reddito annuo complessivo non supera i 90 mila euro lordi: un tetto abbastanza alto. Lo stanziamento da parte del Tesoro per questa nuova misura ammonterebbe secondo indiscrezioni a 500 milioni di euro per il 2015, che dovrebbe raddoppiare per il 2016 e triplicare per il 2017.

Sarebbe più sensato fissare un tetto di gran lunga inferiore e aumentare la cifra del Bonus-bebé, in modo tale da offrire un sostegno più concreto e meglio mirato alle famiglie che ne hanno davvero bisogno.

Il principio del governo è quello di dare un premio di consolazione a pioggia, cioè al numero maggiore di italiani possibile, scegliendoli però nelle fasce sociali giuste per consolidare il proprio bacino elettorale. Cioè non a disoccupati o sfortunati di varia specie, quelli probabilmente non  vanno a votare. Bisogna lusingare gli italiani che, nonostante la crisi e alla faccia dei suddetti sfortunati, ancora se la cavano e non hanno interesse a stravolgere lo status quo.

Lo spot pubblicitario annunciato trionfalmente nel salotto di Canale 5 in verità impallidisce nel confronto con i paesi dell'Unione.

Infatti, se si fanno confronti con le politiche assistenziali del resto della comunità europea si evidenzia che non un vero peso sociale. In Francia Ogni famiglia riceve 130 euro al mese per figlio, andando a crescere per ogni ulteriore figlio a carico. Chi ha più di tre figli a carico ottiene ulteriori benefici a partire dall'undicesimo anno di età. In più per il 90 per cento delle mamme francesi è previsto un bonus da quasi mille euro a partire dal settimo mese di gravidanza, per sostenere le prime spese per il nascituro. In totale una famiglia dal reddito medio riceve dallo Stato d'oltralpe circa 7mila euro di sussidi per ogni figlio.

Oltre al sussidio in denaro il vero surplus in Francia è costituito dalle infrastrutture offerte alle famiglie. Si va dal servizio di infermiere a domicilio per le madri che devono affrontare il post parto alla capillare diffusione degli asili nido di cui il governo paga oltre il 66 per cento delle rette. In Italia si deve ancora risolvere il problema delle chilometriche liste di attesa per i rari asili pubblici.

La Francia è agli antipodi rispetto al nostro sistema assistenziale alle famiglie, ma anche nel confronto con paesi meno "organizzati" il nostro paese ne esce malconcio. L'Inghilterra e la Svezia per una famiglia con due figli staccano un assegno di 250 euro. La Germania per incentivare il tasso di natalità più basso d'Europa devolve a ogni famiglia 184 euro per figlio. In Belgio ogni figlio garantisce un bonus minimo di 90 euro mensile cui si aggiunge un "bonus per la nascita" di 1223 euro che diminuisce a 920 euro dal secondo figlio in poi. La Finlandia garantisce un sussidio alle famiglie fino ai 17 anni dei figli.

Con questo bonus bebe non aiuta a chi è già precario nel mondo del lavoro ancora di più quel poco di lavoro che c'è, che non fa nulla per i disoccupati senza reddito. Infatti, il nuovo "bonus" viene elargito a piene mani anche alle mamme che hanno redditi elevati e che conoscono a mala pena il costo dei pannolini e dei biberon perché è un esborso che non incide nel loro lauto budget familiare.

In Italia le donne che hanno un bambino possono ottenere il bonus bebé se lavorano, oppure hanno diritto all'assegno di maternità dei comuni se sono disoccupate. Il premier Renzi, però, promette che ci sarà anche un bonus di 80 euro per le neomamme. E per le altre mamme?

L’Assegno di maternità dei comuni. E’ l’Istituto di previdenza nazionale che informa dell’esistenza di un sussidio di maternità anche per le mamme disoccupate. Si tratta di un assegno che la madre non lavoratrice deve chiedere al proprio Comune di residenza. Vale sia per le mamme naturali, sia per quelle adottive o affidatarie di un minore che non abbia compiuto 6 anni.

La mamma lavoratrice può fare la richiesta anche per questo sussidio a patto che non abbia diritto all’assegno di maternità INPS, oppure ad una retribuzione per il periodo di maternità. Si può chiedere anche l’erogazione del contributo in misura ridotta quando l’importo dell’indennità è inferiore all’assegno.

Questo sussidio è sia per le mamme italiane, sia per le mamme comunitarie residenti in Italia al momento del parto o dell’ingresso in famiglia del minore adottato/affidato. L’assegno ha un importo complessivo di 1545,55 euro per le mamme disoccupate ma devono essere certificati i redditi e i patrimoni, quindi l’ISE alla data di nascita del figlio. Riguardo la tempistica è necessario sapere che va richiesto entro i 6 mesi dalla nascita del bambino o dal suo ingresso in famiglia.

L’assegno è pagato dall’INPS dopo che il Comune ha trasmetto tutti i dati della madre necessari per il pagamento.


domenica 19 ottobre 2014

Come calcolare il sussidio di disoccupazione ASPI




Innanzitutto è una prestazione economica istituita per gli eventi di disoccupazione che si verificano a partire dal 1° gennaio 2013 e che sostituisce l’indennità di disoccupazione ordinaria non agricola requisiti normali. E’ una prestazione a domanda erogata a favore dei lavoratori dipendenti che abbiano perduto involontariamente l’occupazione.

La misura della prestazione è pari:

al 75% della retribuzione media mensile imponibile ai fini previdenziali degli ultimi due anni, se questa è pari o inferiore ad un importo stabilito dalla legge e rivalutato annualmente sulla base della variazione dell’indice ISTAT (per l’anno 2014 pari ad € 1.192,98). L’importo della prestazione non può comunque superare un limite massimo individuato annualmente per legge.

al 75% dell’importo stabilito (per l’anno 2014 pari ad € 1.192,98) sommato al 25% della differenza tra la retribuzione media mensile imponibile ed € 1.192,98 (per l’anno 2014), se la retribuzione media mensile imponibile è superiore al suddetto importo stabilito.

Per stimare esattamente a quanto ammonta la somma dell'indennità, bisogna, prima di tutto determinare, tramite le buste paga, l'importo dello stipendio medio erogato nell'arco di tempo dei due anni precedenti la domanda (tale cifra deve comprendere le aggiunte varie mensili, le tredicesime e gli eventuali aumenti). Successivamente, si andrà a moltiplicare il numero delle settimane nelle quali è stata percepita la retribuzione per il coefficiente 4,33. Fatto questo, si divide la somma media degli stipendi, precedentemente calcolata, con questo risultato. In sostanza, questo importo, è la sommatoria delle diverse aree nelle quali il lavoratore ha maturato fondi per i diritti agli accrediti contributivi. Nel caso in cui lo stipendio non superi i 1.192,98 Euro mensili, l'importo di indennità sarà automaticamente pari al 75% dell'importo in questione.

Stato di disoccupazione involontario.
L’interessato deve rendere, presso il Centro per l’impiego nel cui ambito territoriale si trovi il proprio domicilio, una dichiarazione che attesti l’attività lavorativa precedentemente svolta e l’immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa.

L’indennità quindi non spetta nelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia cessato a seguito di dimissioni o risoluzione consensuale.

Il lavoratore ha diritto all’indennità nelle ipotesi di dimissioni durante il periodo tutelato di maternità ovvero di dimissioni per giusta causa.

Inoltre, la risoluzione consensuale non impedisce il riconoscimento della prestazione se intervenuta:

nell’ambito della procedura conciliativa presso la Direzione Territoriale del Lavoro, secondo le modalità previste all’art. 7 della legge n. 604 del 1966, come sostituito dall’art. 1, comma 40 della legge di riforma del mercato del lavoro (Legge 28 giugno 2012 n.92);

a seguito di trasferimento del dipendente ad altra sede distante più di 50 Km dalla residenza del lavoratore e/o mediamente raggiungibile in 80 minuti o più con i mezzi pubblici.

Devono essere trascorsi almeno due anni dal versamento del primo contributo contro la disoccupazione; il biennio di riferimento si calcola procedendo a ritroso a decorrere dal primo giorno in cui il lavoratore risulta disoccupato.

Almeno un anno di contribuzione contro la disoccupazione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione. Per contribuzione utile si intende anche quella dovuta ma non versata. Ai fini del diritto sono valide tutte le settimane retribuite purché risulti erogata o dovuta per ciascuna settimana una retribuzione non inferiore ai minimi settimanali. La disposizione relativa alla retribuzione di riferimento non si applica ai lavoratori addetti ai servizi domestici e familiari, agli operai agricoli e agli apprendisti per i quali continuano a permanere le regole vigenti.

Ai fini del perfezionamento del requisito contributivo, si considerano utili:

i contributi previdenziali comprensivi di quota DS e ASpI versati durante il rapporto di lavoro subordinato;

i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria se all’inizio dell’astensione risulta già versata contribuzione ed i periodi di congedo parentale purché regolarmente indennizzati e intervenuti in costanza di rapporto di lavoro;

i periodi di lavoro all’estero in paesi comunitari o convenzionati ove sia prevista la possibilità di totalizzazione (non sono utili i periodi di lavoro all’estero in Stati con i quali l’Italia non ha stipulato convenzioni bilaterali in materia di sicurezza sociale);
l’astensione dal lavoro per periodi di malattia dei figli fino agli 8 anni di età nel limite di cinque giorni lavorativi nell’anno solare.

Non sono invece considerati utili, pur se coperti da contribuzione figurativa, i periodi di:

malattia e infortunio sul lavoro solo nel caso non vi sia integrazione della retribuzione da parte del datore di lavoro, nel rispetto del minimale retributivo;

cassa integrazione straordinaria e ordinaria con sospensione dell’attività a zero ore;

assenze per permessi e congedi fruiti dal coniuge convivente, dal genitore, dal figlio convivente, dai fratelli o sorelle conviventi di soggetto con handicap in situazione di gravità.

Ai fini della determinazione del biennio per la verifica del requisito contributivo, i suddetti periodi - non considerati utili – devono essere neutralizzati con conseguente ampliamento del biennio di riferimento.

L’indennità di disoccupazione ASpI spetta:

dall’ottavo giorno successivo alla data di cessazione del rapporto di lavoro, se la domanda viene presentata entro l’ottavo giorno;

dal giorno successivo a quello di presentazione della domanda, nel caso in cui questa sia stata presentata dopo l’ottavo giorno;

dalla data di rilascio della dichiarazione di immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa nel caso in cui questa non sia stata presentata all’INPS ma al centro per l’impiego e sia successiva alla presentazione della domanda.

Un’indennità mensile la cui durata, collegata all’età anagrafica del lavoratore, aumenta gradualmente nel corso del triennio 2013-2015 (periodo transitorio), per essere definita a regime con decorrenza 1° gennaio 2016.

L’importo della prestazione non può comunque superare un limite massimo individuato annualmente per legge.

All’indennità mensile si applica una riduzione del 15% dopo i primi sei mesi di fruizione ed un’ulteriore riduzione del 15% dopo il dodicesimo mese di fruizione.

Il pagamento avviene mensilmente ed è comprensivo degli Assegni al Nucleo Famigliare se spettanti. L’indennità può essere riscossa:
mediante accredito su conto corrente bancario o postale o su libretto postale;
mediante bonifico domiciliato presso Poste Italiane allo sportello di un ufficio postale rientrante nel CAP di residenza o domicilio del richiedente. Secondo le vigenti disposizioni di legge, le Pubbliche Amministrazioni non possono effettuare pagamenti in contanti  per prestazioni il cui importo netto superi i 1.000 euro.



Rischio del Tfr in busta paga: tasse troppo alte


La possibilità di farsi accreditare in busta paga il Tfr (Trattamento di fine rapporto) rischia di rivelarsi un boomerang per i contribuenti.

Secondo la Fondazione studi dei consulenti del lavoro, l'anticipo sarà conveniente per i lavoratori con un reddito fino a quella soglia. Quando l'aliquota arriva al 38%, il conto inizia ad essere svantaggioso. Per 90mila euro di stipendio l'aggravio arriva a 569 euro l'anno. Fino a 15 mila euro lordi di reddito l’aliquota con il quale verrebbe tassato il Tfr in busta paga rispetto a quello che si ottiene alla fine del rapporto di lavoro sarebbe la stessa: 23%. Per i redditi superiori, la tassazione separata è vantaggiosa per il lavoratore rispetto a quella ordinaria. Se per i redditi dai 15 mila euro lordi ai 28.650 il divario di imposizione è ancora sostenibile (50 euro in più di imposta l’anno se si chiede l’anticipo in busta paga) oltre questa soglia la richiesta di anticipo non è più conveniente perché sarebbe tassata al 38% con oltre 300 euro di tasse in più l’anno. L’imposizione aumenta con la crescita del reddito e per chi guadagna 90 mila euro l’anno arriva a 568,50 euro in più di tasse. In pratica si ricevono in busta paga di Tfr netto 3.544 euro a fronte dei 4.112 accantonati a tassazione separata.

Il lavoratore che chiede l'anticipo di TFR in busta paga perde la tassazione sostitutiva e la quota di TFR ricevuta è soggetta a tassazione ordinaria

L'operazione Tfr in busta paga prevista dal testo della Legge di Stabilità 2015 varato dal Consiglio dei Ministri il 15 ottobre scorso ha suscitato alcune reazioni in merito al profilo fiscale. Infatti, sulla retribuzione integrativa di chi opta per avere la liquidazione del TFR nella busta paga mensile scatterà la tassazione Irpef ordinaria, e non la tassazione sostitutiva come avviene in genere per il TFR. Ciò, se confermato nel testo ufficiale che verrà trasmesso al Parlamento, farebbe crollare l'appeal della misura per i lavoratori con un reddito superiore ai 15mila euro. Per tali lavoratori, infatti, l'Irpef sul reddito che supera i 15mila euro parte dal 27%, mentre l'aliquota media attualmente applicata al Tfr è compresa tra il 23 e il 26%. Pertanto, più elevato è il reddito da lavoro meno è conveniente (fiscalmente) l'opzione del Tfr in busta paga. In senso opposto, invece, l'imposta sostitutiva sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto (ovvero sul maturato) passerà dall'11 al 17%.

Al salire del reddito aumenta il conto del Fisco: per 90 mila euro 568 euro di imposte La misura è volontaria e vale per i dipendenti privati assunti da almeno sei mesi

La platea cui questo l’anticipo del TFR conviene corrisponde a quella dei percettori del bonus, cioè titolari di redditi che non superino i 24-26 mila euro annui.

La richiesta di avere la quota maturanda del Tfr in busta paga è volontaria e può essere fatta dal dipendente privato che sia stato assunto da almeno sei mesi. Sono esclusi i collaboratori domestici, i lavoratori agricoli e i dipendenti di aziende in crisi.

La misura è sperimentale: vale dal marzo prossimo, con effetto retroattivo a gennaio, e termina nel giugno 2018. Effettuata la scelta, questa non può essere revocata per tre anni.

La quota del Tfr che può essere anticipata in busta paga è quella maturanda, anche se normalmente destinata alla previdenza complementare: nel fondo di appartenenza verranno versati solo i contributi del dipendente e del datore di lavoro. L’anticipazione sarà mensile e non in un’unica soluzione.

Il governo ha deciso di tassare la quota di Tfr in busta paga come se questa andasse a integrare lo stipendio e dunque applicando le aliquote Irpef ordinarie. Di conseguenza l’anticipo del Tfr in busta paga sarà conveniente per i lavoratori con un reddito fino a 15 mila euro mentre subiranno un aggravio fiscale quelli al di sopra di questa soglia.

Dunque è chiaro che la fascia cui la misura si rivolge sta sotto i 24 mila euro. In particolare per chi può contare su un reddito di 20 mila lordi l’anno, il Tfr netto annuale sarebbe di 1.008 euro (84 euro al mese) a fronte dei 1.058 di Tfr netto annuale accantonato.



venerdì 17 ottobre 2014

Regime dei Minimi: le novità della Legge di Stabilità 2015




Il regime fiscale agevolato per i contribuenti cosiddetti "minimi", introdotto a partire dal 1° gennaio 2008, in linea di massima, prevede l'applicazione di una imposta sostitutiva dell'imposta sui redditi e delle addizionali regionali e comunali pari al 20%.

I contribuenti che iniziano una attività di lavoro autonomo e presumono di rispettare i requisiti previsti per l'applicazione del regime in esame, devono comunicarlo nella dichiarazione di inizio attività (modello AA9/9), barrando l'apposita casella nel quadro B.

In caso di inizio dell’attività nel corso del periodo d’imposta, il limite dei ricavi e dei compensi deve essere ragguagliato all’anno.

Il regime cessa di avere applicazione nell’anno stesso in cui i ricavi o i compensi percepiti superino di oltre il 50% il limite dei 30.000 euro. In tal caso il contribuente diventerà debitore anche dell’Iva maturata per le operazioni effettuate antecedentemente al superamento del limite e comunque limitatamente all’esercizio in cui è avvenuto il superamento e potrà detrarre la relativa imposta sugli acquisti e sulle importazioni.

In tal caso il contribuente dovrà:

istituire i registri previsti dal titolo II del D.P.R. n. 633/1972 entro il termine per l’effettuazione della liquidazione periodica relativa al mese o al trimestre in cui è superato il limite;

adempiere agli obblighi ordinariamente previsti per le operazioni effettuate successivamente al superamento del limite;

presentare la comunicazione annuale dati Iva e la dichiarazione annuale Iva entro i termini ordinariamente previsti;

versare eventualmente l’imposta a saldo risultante dalla dichiarazione annuale relativa all’anno in cui è stato superato di oltre il 50% il limite di 30.000 euro entro i termini ordinariamente previsti;

annotare i corrispettivi delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi e l’ammontare degli acquisti effettuati anteriormente al superamento del limite entro il termine per la presentazione della dichiarazione annuale Iva.

Rientrano nel regime dei contribuenti minimi i lavoratori autonomi e le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato che nell'anno solare precedente hanno conseguito compensi in misura non superiore a 30.000 euro.

Sono esclusi i soggetti non residenti che svolgono l'attività nel territorio dello Stato e coloro che si avvalgono di regimi speciali di determinazione dell'IVA.

I compensi rilevanti sono quelli richiamati in precedenza quando si è analizzato il regime "ordinario".
Per avvalersi del regime in esame è, altresì, necessario che i contribuenti:

I soggetti che iniziano l'attività possono immediatamente applicare il regime agevolato se prevedono di rispettare le predette condizioni, tenendo conto che, in caso di inizio di attività in corso d'anno, il limite dei 30.000 euro di ricavi o compensi deve essere ragguagliato all'anno.

Riguardo agli acquisti di beni strumentali, il limite va riferito all'intero triennio precedente e non ragguagliato ad anno. All'importo di 15.000 euro occorre far riferimento, pertanto, anche nell'eventualità che l'attività sia iniziata da meno di tre anni.

Il valore dei beni strumentali cui far riferimento è costituito dall'ammontare dei corrispettivi relativi alle operazioni di acquisto effettuate anche presso soggetti non titolati di partita IVA.

I contribuenti che applicano il regime dei contribuenti minimi usufruiscono, sostanzialmente, di due differenti tipi di agevolazioni:

 applicazione di una imposta sostitutiva del 20% sul reddito determinato secondo apposite regole che sostituisce sia l'Irpef e le relative addizionali che l'Irap e l'Iva;

 esonero dalla maggior parte degli obblighi contabili e dichiarativi.

Durante la permanenza nel regime agevolato, non è possibile esercitare il diritto di rivalsa né è possibile detrarre l'Iva assolta sugli acquisti nazionali e comunitari e sulle importazioni.

La fattura emessa non deve, pertanto, recare l'addebito dell'imposta.

Relativamente alle modalità di determinazione del reddito di lavoro autonomo su cui applicare l'imposta sostitutiva del 20%, vale il "principio di cassa".

Il Regime dei Minimi si rinnova: la Legge di Stabilità lo riforma ancora una volta introducendo dal 2015 un regime fiscale agevolato per i lavoratori autonomi con reddito fino a 15mila euro. L’imposta sostitutiva aumenta dal 5 al 15% ma scompare il limite dei 5 anni per la permanenza nel regime a tassazione forfettaria dedicata a lavoratori autonomi, piccole imprese e professionisti entro determinate soglie di reddito, ampliando la platea degli aventi diritto.

La nuova Riforma del Regime dei Minimi è contenuta nell’articolo 9 della bozza circolante della Legge di Stabilità 2015, ma per averne conferma bisognerà attendere il testo definitivo approvato dal Governo nel CdM, nonché il termine della discussione parlamentare.

Tra le novità di maggiore rilievo l’innalzamento dell’imposta forfetaria al 15% (sostitutiva di IRPEF, IRAP e addizionali). I minimi verranno inoltre esonerati dall’IVA, con una serie di eccezioni relative a particolari tipologie di operazioni (operazioni con l’estero, importazioni ed esportazioni). Per le operazioni su cui l’IVA è dovuta, questa va liquidata entro il giorno 16 del mese successivo all’effettuazione delle operazioni. Restano poi gli obblighi di numerazione e conservazione di fatture e bollette doganali, di certificazione dei corrispettivi, e di conservazione dei relativi documenti.

Il nuovo Regime dei Minimi è applicabile a persone fisiche esercenti attività d’impresa, arti e professioni i cui ricavi non superano quelli previsti in specifiche tabelle, che cambiano a seconda delle tipologie di attività, allegate alla Legge di Stabilità. Non rilevano ricavi e compensi derivanti dall’adeguamento degli Studi di Settore. Nel caso di più attività esercitate (con diversi codici ATECO), rileva il limite più elevato dei ricavi e compensi relativi alle diverse attività.

Il calcolo sui beni strumentali deve seguire le seguenti regole:

per i beni in locazione finanziaria, rileva il costo sostenuto dal concedente;
per i beni in locazione, noleggio o comodato, rileva il valore normale;
i beni in utilizzo promiscuo concorrono nella misura del 50%;
non rilevano i beni il cui costo unitario è superiore a quanto 516,4 euro;
non rilevano i beni immobili utilizzati nell’attività d’impresa o nell’esercizio della professione.

Possono avvalersi del Regime dei Minimi le nuove imprese o le persone che intraprendono attività professionale che comunicano, con la dichiarazione di inizio attività, di presumere la sussistenza dei requisiti di reddito.

Sono invece esclusi:

le persone fisiche che si avvalgono di regimi speciali IVA o di altri regimi forfettari di determinazione del reddito;

i soggetti non residenti, ad eccezione dei cittadini comunitari o dei paesi dello Spazio Economico Europeo;

i soggetti la cui attività prevalente è costituita da cessione di immobili, fabbricati, terreni edificabili, mezzi di trasporto nuovi;

gli esercenti attività d’impresa o i professionisti che sono anche azionisti di altre società di persone, associazioni, Srl.


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