martedì 31 marzo 2015

PA: riforma dei dirigenti statali: stipendi e premi



Alla dirigenza pubblica si accederà solo in due modi: per corso-concorso o per concorso pubblico.

Gli statali saranno licenziabili e avranno un tetto allo stipendio. Se ne era parlato tanto, ma la riforma del lavoro pubblico sta per prendere forma.

Alla dirigenza pubblica si accederà solo in due modi: per corso-concorso o per concorso pubblico. Nel primo caso si entrerà nell'amministrazione come funzionari, poi dopo quattro anni e dopo un esame, si potrà diventare dirigenti.

Chi invece entrerà per concorso sarà assunto a tempo determinato. Dopo tre anni potrà sostenere un esame per essere stabilizzato. Con questo metodo scompariranno prima e seconda fascia. Ci sarà un unico ruolo dove finiranno tutti i dirigenti, quelli dei ministeri, Fisco, Inps, Istat, enti di ricerca. Di fatto dunque verranno eliminate le assunzioni dirette e i dirigenti dovranno comunque sostenere un test e un concorso per accedere alla Pa nei ruoli dirigenziali.

I principi cardine riforma della Pubblica amministrazione sono stabiliti. Alla dirigenza pubblica si accederà solo in due modi: per corso-concorso o per concorso pubblico. Nel primo caso si entrerà nell'amministrazione come funzionari, poi dopo quattro anni e dopo un esame, si potrà diventare dirigenti. Chi invece entrerà per concorso sarà assunto a tempo determinato.

Dopo tre anni potrà sostenere un esame per essere stabilizzato. Scompariranno le fasce, la prima e la seconda. Ci sarà un unico ruolo dove finiranno tutti i dirigenti, quelli dei ministeri, del Fisco, dell'Inps, anche dell'Istat e degli enti di ricerca.

Il principio più volte espresso dal ministro Marianna Madia è che i dirigenti saranno della Repubblica e non proprietà privata delle singole amministrazioni. Si potrà, anzi probabilmente si dovrà, passare da un'amministrazione all'altra. Molto potere finirà nelle mani della «Commissione per la dirigenza statale», un organismo indipendente che vigilerà sulla correttezza del conferimento degli incarichi ma che detterà anche dei criteri generali alle singole amministrazioni da seguire quando vengono selezionati i dirigenti. Questi ultimi, poi, saranno licenziabili. Ogni tre anni i dirigenti dovranno ruotare nei loro incarichi. La loro carriera sarà legata alla loro valutazione. Chi non riuscirà ad ottenere un incarico continuerà a percepire solo la parte fissa del suo stipendio. Dopo un certo numero di anni senza incarico (quanti non è ancora stabilito, ma potrebbero essere tra 3 e 5) il rapporto di lavoro potrà essere sciolto. Ma veniamo al nodo centrale: la retribuzione. La riforma prevede la «definizione di limiti assoluti del trattamento economico complessivo». Un tetto, come detto, già esiste: è quello dei 240mila euro. Un tassello che si sposa anche con la necessità del governo di reperire risorse da destinare alla revisione della spesa

Secondo alcune stime, dal taglio degli emolumenti ai dirigenti,dovrebbero arrivare risparmi fino a 500 milioni di euro. Molto cambierà anche per la struttura della retribuzione. L'indennità di posizione confluirà nella retribuzione fissa. Quella di risultato, i cosiddetti premi, dovrà essere legata non solo ad obiettivi individuali per singolo dirigente, ma anche ad obiettivi assegnati all'intera amministrazione. Non ci saranno più nemmeno premi a pioggia. La delega prevede che questi potranno essere assegnati al massimo ad un decimo dei dirigenti. Domani si saprà se il piano del governo resisterà al prevedibile assalto del parlamento.

 Ogni tre anni i dirigenti dovranno ruotare nei loro incarichi. La loro carriera sarà legata alla loro valutazione. Chi non riuscirà ad ottenere un incarico continuerà a percepire solo la parte fissa del suo stipendio. Dopo un certo numero di anni senza incarico (potrebbero essere tra 3 e 5) il rapporto di lavoro potrà essere sciolto. Per quanto riguarda poi la retribuzione: la riforma prevede la "definizione di limiti assoluti del trattamento economico complessivo". I dirigenti non potranno guadagnare più di una determinata cifra. Attualmente vige il tetto dei 240mila euro annua ma è possibile che i nuovi tetti saranno più bassi. Lo scopo è quello di recuperare dai tagli dei mega-stipendi circa 500milioni di euro.

Cambiano le regole sui concorsi: le selezioni verranno accentrate, saranno messi tetti per il numero di idonei e sarà ridotta la durata delle graduatorie. Non solo: non passeranno più decenni tra un concorso e l'altro, ma ci saranno scadenze certe e probabilmente si ricorrerà anche a selezioni preliminari. Sono queste le novità inserite nella Riforma Pa. Nelle procedure concorsuali pubbliche saranno previsti, poi, meccanismi di "valutazione finalizzati a valorizzare l'esperienza professionale acquisita da coloro che hanno avuto rapporti di lavoro flessibile con le amministrazioni pubbliche, con esclusione, in ogni caso, dei servizi prestati presso uffici di diretta collaborazione degli organi politici e ferma restando, comunque, la garanzia di un adeguato accesso dall'esterno".



Modulo Tfr in busta paga istruzioni per l'uso



E' stato pubblicato sulla G.U. del 19/03/2015, il D.P.C.M. n. 29 in vigore dal 3/4/2015 recante le disposizioni attuative per la liquidazione mensile della quota di TFR maturanda e predisposto il modulo che i lavoratori dovranno utilizzare per la richiesta del pagamento mensile della quota maturanda del TFR come quota integrativa della retribuzione c.d. Qu.I.R. a partire il regolamento recante norme attuative delle disposizioni in materia di liquidazione del TFR come parte integrante della retribuzione per il periodo di paga decorrente da marzo 2015 a giugno 2018.

La Legge di stabilità 2015 ha introdotto la possibilità per i lavoratori dipendenti del settore privato di richiedere per i periodi di paga decorrenti dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018 l'erogazione del TFR ad integrazione della busta paga c.d. Qu.I., Quota Integrativa della retribuzione.

Sottolineiamo che l'erogazione mensile della quota maturanda di TFR risulta essere una facoltà per il lavoratore, mentre è un obbligo per il datore di lavoro nel caso in cui il lavoratore eserciti la predetta facoltà.

Per dare piena attuazione alla liquidazione della Qu.I.R. mancano ancora le istruzioni INPS pertanto, al momento, i datori di lavoro potranno limitarsi a raccogliere le istanze dei lavoratori.

Quindi effettivamente l’anticipo del TFR in busta paga può essere richiesto con decorrenza dalla mensilità di marzo 2015, ma tecnicamente può essere inserito nel cedolino paga, dietro richiesta del lavoratore solo a decorrere dal 1° aprile 2015.

Possono presentare istanza per la liquidazione mensile della Qu.I.R. i lavoratori dipendenti del settore privato, con rapporto di lavoro subordinato in essere da almeno sei mesi.

Restano esclusi da questa possibilità:
i lavoratori domestici;
i lavoratori del settore agricolo;
I lavoratori per i quali la legge ovvero il contratto collettivo nazionale di lavoro prevede la corresponsione periodica del TFR ovvero l'accantonamento del TFR medesimo presso soggetti terzi;
i lavoratori dipendenti da datori di lavoro sottoposti a procedure concorsuali;
i lavoratori dipendenti da datori di lavoro che abbiano iscritto nel Registro delle imprese un accordo di ristrutturazione dei debiti o un piano di risanamento;
i lavoratori dipendenti da datori di lavoro per i quali siano stati autorizzati interventi di integrazione salariale straordinaria e in deroga , se in prosecuzione dell'integrazione straordinaria;
i lavoratori dipendenti che, a fronte di un contratto di finanziamento che comporta la cessione del quinto dello stipendio , abbiamo dato il TFR a garanzia del predetto finanziamento.

La Qu.I.R. da liquidare, su espressa richiesta del lavoratore, è pari alla quota maturanda del TFR , al netto del contributo I.V.S. dell'0,50%.

La richiesta di liquidazione della Qu.I.R. può essere esercitata anche in caso di conferimento del TFR maturando a forme pensionistiche complementari . In tale ipotesi l'adesione del lavoratore alla forma pensionistica complementare prosegue senza soluzione di continuità con l'obbligo di versamento dell'eventuale contribuzione a suo carico e/o a carico del datore di lavoro.

MODALITA' DI RICHIESTA
I lavoratori per richiedere la liquidazione mensile della Qu.I.R. devono presentare al datore di lavoro istanza debitamente compilata e sottoscritta utilizzando il modello unito al DPCM.
Non esiste alcun obbligo a carico del datore di lavoro di consegnare ai propri dipendenti il suddetto modello. Inoltre non è previsto alcun termine da parte del lavoratore per esercitare l'opzione, pertanto può essere presentata in qualsiasi mese, fermo restando il temine ultimo al 30 giugno 2018, ovvero alla data di cessazione del rapporto di lavoro se precedente. L'opzione, una volta esercitata, è irrevocabile fino al 30 giugno 2018.

Liquidazione della quota integrativa delle retribuzioni (Qu.I.R.) e trattamento fiscale e previdenziale

Il datore di lavoro, a partire dal periodo di paga decorrente dal mese successivo a quello di presentazione dell'istanza da parte del lavoratore, provvede alla liquidazione mensile della Qu.I.R. con le stesse modalità in uso per l'erogazione della retribuzione.
Per i lavoratori per i quali si procede alla liquidazione mensile della Qu.I.R., non operano gli obblighi di versamento del TFR alle forme pensionistiche complementari e al Fondo di tesoreria INPS.

La Qu.I.R. è assoggettata a tassazione ordinaria anziché alla tassazione più agevolata prevista per il TFR, e concorre alla formazione de l reddito complessivo per il calcolo:
delle addizionali, comunali e regionali che aumentano;
delle detrazioni d'imposta che diminuiscono e quindi aumenta la ritenuta fiscale;
dell'assegno nucleo familiare che diminuisce in relazione all'aumento del reddito;
dell'ISEE.

Da stime effettuate da esperti, il lavoratore che sceglie il pagamento mensile della quota del TFR maturanda perde il 30% - 35% dell'importo stesso, rispetto al lavoratore che continua ad accumulare il TFR e lo percepisce al termine del rapporto di lavoro.

La Qu.I.R. non concorre, invece, alla determinazione del reddito complessivo ai fini dell'attribuzione del bonus 80 euro e non costituisce imponibile ai fini previdenziali.

Ai datori di lavoro che abbiano alle proprie dipendenze fino a 49 addetti , non tenuti quindi al versamento del TFR al Fondo Tesoreria INPS, e che non dispongano delle risorse necessarie per far fronte alla liquidazione mensile della Qu.I.R . ai lavoratori che ne facciano richiesta, è riconosciuta la facoltà di accedere al nuovo Fondo di Garanzia istituito presso l'INPS. Tale facoltà è preclusa per i datori di lavoro che occupano più di 49 addetti i quali sono già tenuti al versamento del TFR al Fondo Tesoreria INPS.

Per accedere al finanziamento i datori di lavoro devono presentare alla banca o all'intermediario finanziario una specifica certificazione dei requisiti aziendali rilasciata dall'INPS 0 entro 30 giorni dalla richiesta.

I datori di lavoro che accedono al finanziamento assistito dall'apposito Fondo di Garanzia, istituito presso l'INPS, effettuano le operazioni di liquidazione mensile della Qu.I.R. a partire dal terzo mese successivo a quello di efficacia dell'istanza presentata dal lavoratore.

L' importo complessivo del finanziamento è comunicato dal datore di lavoro alla banca, in funzione dell' entità della Qu.I.R. da liquidare mensilmente . La banca mette a disposizione del datore di lavoro il finanziamento, mediante singole erogazioni mensili, a partire dal mese successivo a quello di perfezionamento del contratto di finanziamento e comunque non prima del 1° giugno 2015 e non oltre il 30 ottobre 2018.

Il rimborso del finanziamento, comprensivo dei relativi interessi maturati, è rimborsato dal datore di lavoro in un' unica soluzione alla data del 30 ottobre 2018 . Nei casi di risoluzione del rapporto di lavoro intervenuti durante la vigenza del finanziamento assistito da garanzia, il datore di lavoro è tenuto al rimborso del finanziamento già fruito, entro la fine del mese successivo a quello di risoluzione del rapporto.

Nel caso sia accertato che il finanziamento sia stato utilizzato per finalità diverse dalla liquidazione mensile della Qu.I.R, , l'erogazione del finanziamento è interrotta e il datore di lavoro è tenuto al rimborso immediato del finanziamento già fruito e degli interessi.
L'erogazione del finanziamento assistito da garanzia è interrotta al verificarsi dei seguenti eventi:
datori di lavoro che abbiano iscritto nel Registro delle imprese un accordo di ristrutturazione dei debiti o un piano di risanamento attestato;
datori di lavoro per i quali siano stati autorizzati interventi di integrazione salariale straordinaria e in deroga , se in prosecuzione dell'integrazione straordinaria stessa;
datori di lavoro che abbiano sottoscritto un accordo di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti;
fallimento del datore di lavoro, a far data dall'iscrizione della sentenza dichiarativa nel Registro delle imprese;
concordato preventivo, a far data dall'iscrizione del decreto di ammissione alla procedura nel Registro delle imprese;
liquidazione coatta amministrativa, a far data dalla pubblicazione del provvedimento dell'Autorità competente nella Gazzetta Ufficiale;
amministrazione straordinaria , a far data dall'iscrizione nel Registro delle imprese della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza.



lunedì 30 marzo 2015

Costo del lavoro in Europa in Italia 28,30 euro



Italia a metà classifica in un’Europa più divisa che mai dal costo del lavoro. È la fotografia scattata da Eurostat, l’Istituto di statistica dell’Unione europea, che ha diffuso i dati del 2014 dei 28 Stati membri Ue. Agli estremi opposti stanno Bulgaria, con meno di 4 euro all'ora, e Danimarca (40,3 euro).

In Italia un’ora di lavoro costa mediamente a un’impresa 28,30 euro, meno della media dell’Eurozona (29 euro) ma più della media Ue (24,6 euro), che comprende Paesi molto meno cari per le imprese e dove quindi si tende a delocalizzare, come Bulgaria (3,8 euro per ora) o Romania (4,6 euro per ora). L’Italia però segna un incremento del costo del lavoro che è inferiore alla media sia dell’Eurozona che della Ue. Tra il 2013 e il 2014, il costo del lavoro in Italia è cresciuto dello 0,7%, a fronte di un incremento dell’1,1% nell’Eurozona e dell’1,4% nell'Ue.

In Italia il 28,2% del costo del lavoro è determinato da fattori non legati allo stipendio dei dipendenti, come i contributi pagati ai lavoratori. In questo l’Italia sconta una differenza competitiva nei confronti della Germania, dove i costi non salariali pesano solo per il 22,3% ma non della Francia (33,1%), che vanta un non invidiabile record europeo. Il nostro Paese è comunque il terzo più “caro” nella Ue per costi non salariali dei salari dietro appunto alla Francia, e alla Svezia (31,6%). Nei 19 Paesi membri dell’Eurozona i costi non salariali sono in media del 26,1%, e nei 28 Paesi dell'UE del 24,4%: i più bassi sono a Malta (6,9%) e in Danimarca (13,1%).

Sono quattro i Paesi in cui lo scorso anno il costo del lavoro è diminuito: Cipro, Portogallo, Croazia e Irlanda. Tre di questi sono Stati salvati dalla Ue e non è un caso, perché hanno subito un processo di “svalutazione interna” legato alle dure politiche di austerità cui sono stati soggetti. La svalutazione interna è un modo di rendere più competitivo il proprio export attraverso un abbassamento dei salari e un aumento della produttività; è quindi un’alternativa alla classica svalutazione della moneta, che non è possibile all’interno di un’Unione monetaria come l’Eurozona. Il caso più emblematico è la Grecia, dove il costo del lavoro orario era nel 2014 di 14,6 euro e sei anni prima di 16,8 euro.

Nella stessa Spagna, altro Paese duramente colpito dalla crisi ma che ora sta rialzando la testa con risultati oltre le aspettative, negli ultimi tre anni il costo del lavoro è rimasto praticamente invariato intorno ai 21 euro all’ora. I maggiori aumenti sono invece stati registrati in Estonia (+6,6%), Lettonia (+6%) e Slovacchia (+5,2%). L’Est Europa resta però molto lontano dalla vecchia Europa.

Europa divisa sul costo del lavoro orario che, nel 2014, oscillava tra i 3,8 euro della Bulgaria e i 40,3 euro della Danimarca. È la fotografia tracciata dall’Eurostat sul costo del lavoro, composto dalla componente salario e dai contributi. L’Italia si colloca intorno a metà classifica con 28,3 euro all'ora contro i 29 della media dell’Eurozona e i 24,6 della media Ue. La crescita annua del costo del lavoro italiano è stata dello 0,7%, inferiore al +1,4% medio Ue e all’1,1% della zona euro; il nostro Paese è però terzo per il peso della componente non legata al salario, come i contributi, che sono pari al 28,2%. Peggio, nel blocco dei 28 paesi, solo la Francia (33,1%) e la Svezia (31,6%). In fondo alla classifica Malta con il 6,9% e la Danimarca (13,1%). In Germania il costo del lavoro per ora è pari a 31,4 euro con un peso dei contributi al 22,3%.

Nel settore industriale l’Italia figura al di sotto della media dell’Eurozona (28 euro contro 31,8 euro) e sopra quella Ue (25,5 euro), nelle costruzioni si attesta sui 24,7 euro (25,6 la media dell’Eurozona e 22 quella Ue) e nei servizi a 27,2 euro (28 l’Eurozona e 24,3 l’Ue). Dove invece il costo del lavoro ha superato sia la media dell’Eurozona (28,9) che quella Ue (24,7) è il settore che raggruppa educazione, sanità, attività ricreative e altro: qui il dato segnalato da Eurostat per l’Italia è stato pari a 32,3 euro all’ora.



martedì 24 marzo 2015

Modello 730 precompilato: controlli e sanzioni



In quali casi verranno effettuati controlli e quando scatteranno le sanzioni? L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato le linee guida relative al modello 730 precompilato, chiarendo al contribuente quali sono le modalità d’accesso, le scadenze, le modifiche incidenti e non incidenti.

All'interno della circolare l’ente guidato da Rossella Orlandi ha chiarito anche quali saranno i casi in cui il Fisco effettuare i controlli documentali e quali sono le limitazioni ai poteri di controllo dell’Agenzia delle entrate in caso di presentazione della dichiarazione direttamente o tramite sostituto d’imposta. A questo si aggiunge poi il quadro sanzionatorio che scatterà in caso di dichiarazione infedele. Ma vediamo di saperne di più.

Modello 730 precompilato: quando scattano i controlli dell’Agenzia delle Entrate
Se il contribuente presenta il modello 730 precompilato direttamente o tramite sostituto d’imposta, senza effettuare modifiche o apportando solo variazioni non incidenti sulla determinazione del reddito o dell’imposta (abbiamo spiegato qui quali sono le modifiche che vengono considerate non incidenti), l’Agenzia delle Entrate non effettuerà il controllo documentale sui dati relativi agli oneri indicati nella dichiarazione precompilata forniti dai soggetti terzi (interessi passivi, premi assicurativi e contributi previdenziali).

Il controllo preventivo non verrà effettuato nemmeno sulla spettanza delle detrazioni per carichi di famiglia in caso di rimborso superiore a 4.000 euro, anche determinato da eccedenze d’imposta.

Se invece il contribuente o il sostituto di imposta apporterà delle modifiche o delle integrazioni che incideranno sulla determinazione del reddito o dell’imposta l’Agenzia delle Entrate provvederà a controllare anche i dati relativi agli oneri indicati nella dichiarazione precompilata forniti dai soggetti terzi (interessi passivi, premi assicurativi e contributi previdenziali), nonché spettanza delle detrazioni per carichi di famiglia in caso di rimborso superiore a 4.000 euro, anche determinato da eccedenze d’imposta.

Nella circolare pubblicata ieri, l’Agenzia specifica inoltre che, nel caso di presentazione, con o senza modifiche, del 730 precompilato tramite Caf o professionisti abilitati, i controlli di cui sopra verranno effettuati nei confronti del Caf o del professionista che ha apposto il visto di conformità sulla dichiarazione, ed è esteso anche ai dati relativi agli oneri indicati nella dichiarazione precompilata forniti dai soggetti terzi, mentre non verranno incluse le verifiche sulla spettanza delle detrazioni per carichi di famiglia in caso di rimborso superiore a 4.000 euro, anche determinato da eccedenze d’imposta.

L’Agenzia delle Entrate chiarisce anche che l’esclusione dei controlli documentali non riguarda i requisiti soggettivi che danno diritto alle detrazioni deduzioni e agevolazioni. In questo caso infatti, la verifica scatta a prescindere dall'accettazione o modifica della dichiarazione precompilata e dalla modalità di presentazione della stessa.

Per requisiti soggettivi si intendono, ad esempio:
- la destinazione dell’immobile acquistato ad abitazione principale nei termini previsti dalla norma, ai fini della detrazione degli interessi passivi derivanti da contratto di mutuo;

- la sussistenza delle condizioni previste dall’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, per il riconoscimento della condizione di portatore di handicap per il contribuente e per i familiari a carico risultanti dalla documentazione sanitaria rilasciata dagli organi abilitati all'accertamento dell’invalidità;

- la tipologia di intervento di ristrutturazione edilizia e la data di inizio lavori, nelle ipotesi in cui la normativa edilizia vigente non preveda alcun titolo abilitativo per la realizzazione di interventi comunque agevolati dalla normativa fiscale.

Per quanto riguarda i dati inseriti precedentemente nella Certificazione Unica, l’ente guidato da Rossella Orlandi chiarisce che l’esclusione dal controllo formale nel caso di accettazione della dichiarazione senza modifiche opera esclusivamente sugli oneri indicati nella dichiarazione precompilata forniti dai soggetti terzi. Pertanto, in caso di modello 730 precompilato accettato, il controllo formale potrà riguardare, invece, i dati comunicati dai sostituti d’imposta mediante la Certificazione Unica.

Modello 730 precompilato: sanzioni
Nel caso in cui dai controlli effettuati emergesse l’apposizione di un visto di conformità infedele ad esempio se si verificasse un riscontro non corretto della documentazione giustificativa di spese che danno diritto a detrazioni o deduzioni che si rivelino in tutto o in parte non spettanti, i Caf e i professionisti abilitati, a causa delle nuove normative sulla responsabilità, sono direttamente tenuti al pagamento di un importo corrispondente alla somma dell’imposta, degli interessi e della sanzione che sarebbe stata richiesta al contribuente.

Non si avrà responsabilità degli intermediari nel caso in cui l’apposizione di un visto infedele sia causata da una condotta dolosa o gravemente colposa del contribuente, ad esempio nel caso in cui questi abbia presentato un documento contraffatto per poter beneficiare di una detrazione d’imposta.

Se il Caf o il professionista si rende conto della presenza di errori nella dichiarazione, dovrà avvisare il contribuente e procedere alla trasmissione di una dichiarazione rettificativa all’Agenzia delle Entrate entro il 10 novembre 2015.

Nel caso in cui il contribuente non voglia presentare la nuova dichiarazione, i soggetti che agiscono da intermediari avranno la possibilità di comunicare all’Agenzia i dati rettificati.

In entrambi i casi, la responsabilità del Caf o del professionista è limitata al pagamento dell’importo corrispondente alla sola sanzione che sarebbe stata richiesta al contribuente, sanzione che può essere ridotta nella misura prevista dall’articolo 13, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 se il versamento è effettuato entro la medesima data del 10 novembre.

Le modifiche non sostanziali consentono di mantenere i benefici previsti per il 730 precompilato “accettato”. I controlli dell’Agenzia delle Entrate saranno effettuati anche sugli oneri trasmessi nelle certificazioni uniche relative al 2014. Sono due chiarimenti della circolare 11/E/2015 pubblicata il 23 marzo dall’Agenzia, che ha diffuso anche un video-tutorial sul canale Youtube e messo online un sito di assistenza.

Vengono considerate irrilevanti a tal fine le modifiche dei dati anagrafici del contribuente (ad eccezione però del comune del domicilio fiscale, che potrebbe incidere sulle addizionali), la modifica dei dati identificativi del soggetto che effettua il conguaglio; la scelta dell’utilizzo in compensazione del credito che risulta dal modello (quadro I); la scelta di non versare o di versare in misura inferiore gli acconti dovuti e di rateizzare le somme dovute (quadro F). La precompilata si considera al contrario modificata quando vi siano variazioni o integrazioni dei dati indicati nella dichiarazione che incidono sulla determinazione del reddito o dell’imposta, anche laddove tali variazioni non modifichino il risultato finale.

La circolare si occupa anche della gestione della precompilata per i coniugi che hanno presentato il 730/2014 in forma congiunta. Saranno predisposte, infatti, due distinte precompilate (una per ciascun coniuge). Così i coniugi che intendono presentare la dichiarazione in forma congiunta devono necessariamente rivolgersi al sostituto che presta l’assistenza fiscale, al Caf o al professionista abilitato. In questo caso, però, il 730 si considera «modificato», in quanto la liquidazione della dichiarazione congiunta varia rispetto a quella delle singole precompilate.

Le Entrate chiariscono che l’esclusione dal controllo formale nel caso di accettazione della dichiarazione senza modifiche, opera esclusivamente sugli oneri indicati forniti dai soggetti previsti dall’articolo 3 del Dlgs 175/2014 e quindi per gli interessi passivi sui mutui, i premi assicurativi e i contributi previdenziali ma non anche per gli oneri comunicati dal sostituto d’imposta con la certificazione unica.


lunedì 23 marzo 2015

Pensione anticipata ed uscita dal lavoro per gli anni 2015 2016



In tutti i casi si parla di flessibilità in uscita per andare in pensione prima e per permettere, in particolar modo, l'accesso a coloro che si ritrovano disoccupati tra i 55 e i 65 anni. A innescare le ultime dichiarazioni sulle pensioni 2015 - 2016 sono state le nuove dichiarazioni di Tito Boeri, presidente dell'Inps.

La Pensione anticipata è il trattamento pensionistico erogato che può essere raggiunto al perfezionamento del solo requisito contributivo indipendentemente dall'età anagrafica del beneficiario. Sostituisce, dal 2012, la pensione di anzianità.

L'istituto ha eliminato il requisito dell'età minima introdotto dalla legge 243/2004 ed ha previsto un sistema di disincentivazione che si realizza attraverso una riduzione del rateo in relazione al tempo mancante per il raggiungimento di un limite minimo di età fissato in 62 anni dalla legge 201/2011.

Più flessibilità per i paletti che regolano l'uscita dal mondo del lavoro come risposta all'allungamento di 4 mesi dell'età pensionabile (dal 2016) “imposta” dalla maggiore aspettativa di vita dei lavoratori. Messa giù in maniera molto semplice, è questo il quadro che da qualche mese caratterizza il dibattito sulla previdenza italiana.

Al momento, quello che è a conoscenza che la priorità di intervento sarà dare una soluzione ai casi di emergenza previdenziale degli esodati che hanno esaurito gli ammortizzatori sociali (in linea con gli interventi di salvaguardia messi in campo negli ultimi anni: la VI salvaguardia per esodati e lavoratori precoci darà modo di accedere alla pensione anticipata privata anche con ampio anticipo), e di “veicolare” la riforma con la prossima legge di Stabilità. Insomma, per prima cosa, si tratterà di dare una mano a chi perde il lavoro e non è in grado, per varie ragioni, di maturare la pensione.

In questo scenario, un altro attore di primo piano come l'Inps è impegnato, con il nuovo presidente Tito Boeri, a portare acqua al mulino dei pensionamenti flessibili. Una proposta organica in questa direzione verrà presentata a giugno, ma Boeri, che ci sta lavorando con il ministero del Welfare, ne ha già anticipato la chiave di volta: una sorta di «reddito minimo» per gli over 55 che hanno perso il lavoro ma non hanno i requisiti per andare in pensione e non hanno nient'altro. Secondo il presidente Inps, per la sostenibilità della proposta potrebbero bastare 1,5 miliardi di euro da cercare risparmiando all'interno della protezione sociale, ad esempio guardando alle gestioni speciali.

C'è poi da tener d'occhio il fronte parlamentare, che vede la minoranza Pd in prima linea nel sollecitare il superamento della legge Fornero e la soluzione al problema esodati. In particolare, il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, intende animare il dibattito sulle pensioni flessibili portando avanti senza tentennamenti l'iter della varie proposte sul tavolo della commissione. Il ddl C 857 sulla flessibilità in uscita (di cui è primo firmatario, già incardinato), punta a permettere l'accesso alla pensione dei lavoratori al compimento dei 62 anni a condizione di aver maturato 35 anni di contributi, con una penalizzazione massima dell'assegno pensionistico dell'8 per cento. La penalizzazione si riduce gradualmente negli anni successivi, dando modo di percepire il 100% dell'assegno al traguardo dei 66 anni di età. Previsto anche una sorta di “premio” del 2% per chi ritarda l'accesso alla pensione dal 66° al 70° anno di età.


Come anticipato le ultime novità sulle pensioni anticipate di donne e uomini nel 2015 e 2016 partono dalle dichiarazioni di Boeri, che ha nuovamente richiesto al Governo Renzi l'introduzione di criteri di flessibilità per il pensionamento anticipato, aggiungendo che giungerà una proposta di riforma da parte dell'INPS sui prepensionamenti, e che tale proposta sarà presentata entro il prossimo mese di giugno. Prioritaria in questa possibile riforma (qui abbiamo un forte punto di convergenza con le idee espresse più volte dal ministro Poletti) risulterebbe la risoluzione del problema dei soggetti in età avanzata, tra i 55 e i 65 anni, che hanno perso il lavoro e tuttavia non possono accedere alla pensione,

Sulla pensione anticipata con flessibilità in uscita Damiano ha già elaborato due soluzioni: prepensionamento dai 62 anni di età con 35 di contributi e penalizzazioni progressive e Quota 100. Va da sé che Damiano ha dimostrato apprezzamento per le idee simili espresse dal presidente dell'INPS, ricordando inoltre che in Commissione Lavoro si è già tornati a discutere sulle proposte di legge per le pensioni anticipate di donne e uomini, e che sono in calendario incontri con Poletti, lo stesso Boeri e le parti sociali. Dal canto suo Poletti ha ribadito la propria disponibilità a riflettere su una riforma pensioni orientata alla flessibilità e ha spinto ancora sulla necessità di considerare prioritario il caso dei disoccupati senza pensione in età avanzata: "Su questo tema" ha dichiarato il ministro, "siamo d'accordo con Boeri. Lui sta facendo le simulazioni, poi vedremo il da farsi".

A decorrere dal 1° gennaio 2012 i lavoratori dipendenti, autonomi, in possesso di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 (cioè lavoratori che erano nel sistema retributivo o misto al 31 Dicembre 2011) possono conseguire - ai sensi dell'articolo 24 comma 10 del DL 201/2011 - la pensione anticipata qualora, gli assicurati, abbiano maturato una anzianità contributiva pari a 42 anni ed un mese per gli uomini e a 41 anni ed un mese per le donne. Tale requisito contributivo va aumentato di un mese nel 2013 e di un ulteriore mese nel 2014.

Il requisito contributivo è inoltre soggetto agli adeguamenti alla speranza di vita di cui all'articolo 12, comma 12 bis del DL 78/2010 convertito con legge 122/2010. In forza di tale previsione, dal 1° gennaio 2013, il presupposto contributivo sopraindicato dovrà essere quindi aggiornato, con cadenza triennale, in relazione all'aumento della speranza di vita individuata secondo i criteri stabiliti dal decreto direttoriale del Ministero dell'economia e delle finanze. Decreto da emanare almeno 12 mesi prima della data di decorrenza di ogni aggiornamento.

Tale provvedimento, dal 1º gennaio 2013, ha già aumentato di 3 mesi l'anzianità contributiva per il trattamento in parola e dal 1° gennaio 2016 il requisito contributivo aumenterà di altri 4 mesi. Attualmente i requisiti contributivi per la pensione anticipata, comprensivi degli ulteriori adeguamenti alla speranza di vita Istat individuati nella relazione alla Riforma Fornero del 2011, possono essere rappresentati dalla seguente tabella.

Ai fini del raggiungimento di tale requisito contributivo è valutabile la contribuzione a qualsiasi titolo versata o accreditata in favore dell’assicurato, fermo restando il contestuale perfezionamento del requisito di 35 anni di contribuzione utile per il diritto alla pensione di anzianità disciplinata dalla previgente normativa.

In altri termini è necessario perfezionare almeno 35 anni di contributi senza considerare i periodi di figurativi derivanti dalla disoccupazione indennizzata (tra cui anche l'Aspi e Mini-Aspi; cfr Circolare Inps 180/2014) e malattia.

Chi percepisce prima dei 62 anni di età il pensionamento anticipato subisce una penalizzazione sulle anzianità retributive maturate fino al 2011. Il taglio è pari al 2% per ogni anno di anticipo rispetto ai 60 anni di età e dell'1% per ogni anno prima dei 62. Pertanto un lavoratore che andasse in pensione anticipata a 59 anni subirebbe un taglio del 4% sulle anzianità retributive maturate entro il 2011.

La riduzione si applica sulla quota di trattamento pensionistico calcolata secondo il sistema retributivo. Pertanto, per coloro che hanno un’anzianità contributiva pari a 18 anni al 31 dicembre 1995, la riduzione si applica sulla quota di pensione relativa alle anzianità contributive maturate al 31 dicembre 2011; mentre, per coloro che hanno un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni al 31 dicembre 1995, la cui pensione è liquidata nel sistema misto, la riduzione si applica sulla quota di pensione relativa alle anzianità contributive maturate al 31 dicembre 1995.

La norma ha, inoltre, specificato che, nel caso in cui l'età raggiunta dal lavoratore al momento del pensionamento non sia interamente espressa in anni, la riduzione deve essere proporzionata al numero di mesi di età, oltre gli anni già raggiunti, che risulteranno raggiunti.

La Penalizzazione dal 1° Gennaio 2015 - Questo sistema di disincentivi è stato più volte oggetto di intervento da parte del legislatore, (l'ultimo con l'articolo 1, comma 113 della legge 190/2014) con cui si è disposto, in sostanza, la cancellazione della penalità sino al 31 Dicembre 2017. Per effetto di tale modifica, dunque, chi matura un diritto a pensione anticipata tra il 1° Gennaio 2015 e il 31 Dicembre 2017 non subirà più la decurtazione dell'assegno anche se non avrà raggiunto i 62 anni. Mentre la riduzione troverà applicazione a partire dal 1° Gennaio 2018.

I lavoratori il cui primo contributo versato è successivo al 31 dicembre 1995 (e che, quindi, hanno diritto alla liquidazione del trattamento pensionistico con il sistema contributivo) possono conseguire il trattamento anticipato al perfezionamento delle medesime anzianità contributive previste per i lavoratori nel sistema retributivo o misto e qui riportate.



NASPI e CIG i chiarimenti del Ministero del Lavoro



Naspi 2015, ecco i primi chiarimenti da parte del Ministero del lavoro sui requisiti necessari per ottenerla. La cassa integrazione a zero ore e altri periodi privi di retribuzione non conteranno: seguirà un’apposita circolare da parte dell’Inps.

Cosi il Ministero del lavoro :"Con riferimento al diritto alla nuova prestazione NASpI in presenza di periodi di Cassa Integrazione a zero ore o di altri periodi non utili ai fini del soddisfacimento del requisito contributivo (per esempio malattia senza integrazione della retribuzione da parte del datore di lavoro) che risultino immediatamente precedenti la cessazione del rapporto di lavoro, precisa quanto segue.

Il Decreto Legislativo 22/2015 rinvia, per questi casi, alla normativa vigente. Gli eventi sopra richiamati saranno quindi considerati, come avveniva in precedenza, periodi neutri e determineranno un ampliamento, pari alla loro durata, del quadriennio all'interno del quale ricercare il requisito necessario di almeno tredici settimane di contribuzione.

Allo stesso modo, quanto al nuovo requisito introdotto dalla recente disciplina, consistente nel poter far valere almeno trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione, il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo verrà ricercato nei dodici mesi immediatamente precedenti gli eventi sopra richiamati, anche qui considerati periodi neutri."

Il Ministero del lavoro ha diffuso un comunicato stampa fornendo alcune informazioni, in attesa dell’apposita circolare attuativa da parte dell’Inps. Al momento, quindi, si sa già che per raggiungere i requisiti necessari non potranno essere conteggiati i periodi di cassa integrazione a zero ore o altri analogamente privi di retribuzione (e quindi di contribuzione previdenziale).

Come funziona la Naspi
L’indennità, introdotta con il Jobs Act, entrerà in vigore dal prossimo primo maggio e riguarderà i lavoratori dipendenti ad esclusione di quelli pubblici assunti a tempo indeterminato. Nella Naspi non rientrano anche gli operai agricoli (a termine o a tempo indeterminato) per i quali resta in vigore l’apposita indennità di disoccupazione agricola.

I requisiti per ottenere la Naspi
Nello specifico, la Naspi spetta a chi abbia involontariamente perso il lavoro e abbia i seguenti requisiti:

1 – Almeno 13 settimane di contributi Inps nei quattro anni precedenti la disoccupazione;

2 – almeno 30 giornate di lavoro effettivamente svolto nei 12 mesi antecedenti lo stato di disoccupazione.

La somma spettante al lavoratore sarà commisurata sulla retribuzione imponibile degli ultimi quattro anni ma l’importo mensile non potrà comunque superare i 1300 euro. Dopo il quarto mese di erogazione dell’assegno, la cifra verrà decurtata del 3 per cento ogni 30 giorni. La durata è comunque limitata: spetterà per un numero di settimane pari alla metà di quelle di contribuzione risultanti all’Inps negli ultimi 4 anni; a partire dal primo gennaio 2017, invece, si potrà ottenere il sussidio per un massimo di 78 settimane, ovvero 18 mesi.

Quali periodi non concorrono alla formazione dei requisiti necessari?
In ogni caso, come anticipato dal Ministero del lavoro, per il raggiungimento dei requisiti necessari non verranno tenuti in considerazione eventuali periodi di cassa integrazione a zero ore o della malattia senza integrazione di retribuzione da parte del datore di lavoro: ovvero, di tutti quei segmenti della vita lavorativa che, non essendo retribuiti, non sono coperti dalla relativa contribuzione.

In particolare il Ministero del Lavoro stabilisce che, come avveniva per la vecchia normativa sulla NASpI, tutti i periodi di Cassa Integrazione a zero ore o di altri periodi non utili ai fini del soddisfacimento del requisito contributivo (per esempio malattia senza integrazione della retribuzione da parte del datore di lavoro) che risultino immediatamente precedenti la cessazione del rapporto di lavoro, saranno considerati neutri ai fini del conteggio dei 4 anni utili al calcolo della NASpI. Questo significa che tali periodi saranno saltati facendo slittare all’indietro l’inizio del quadriennio previsto dalla norma, ovvero determineranno un ampliamento, pari alla loro durata, del quadriennio all'interno del quale ricercare il requisito necessario di almeno tredici settimane di contribuzione.

Lo stesso avverrà per l’altro requisito introdotto dalla nuova normativa sulla NASpI, consistente nel poter far valere almeno trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, anche in questo caso in presenza di periodi cosiddetti neutri il requisito delle trenta giornate di lavoro effettivo verrà ricercato nei dodici mesi immediatamente precedenti gli eventi sopra richiamati, anche qui considerati periodi neutri.



domenica 22 marzo 2015

I criteri per scegliere i lavoratori da sospendere in CIG



Se la tua azienda sta affrontando un periodo di crisi, per calo o mancanza di lavoro, commesse, o situazioni aziendali dovute ad eventi transitori e non imputabili al datore di lavoro o ai lavoratori, può sospendere temporaneamente i dipendenti in forza e richiedere la cassa integrazione guadagni in deroga.

Poiché la riduzione dell’attività lavorativa, normalmente, non coinvolge tutti i dipendenti, è quasi sempre necessario che il datore di lavoro compia una scelta, decidendo chi sospendere e chi no. Naturalmente, non può trattarsi di una decisione arbitraria, ma deve sempre essere fondata su valutazioni oggettive e verificabili dal giudice.

E’ un intervento straordinario di sostegno al reddito, a beneficio di lavoratori che sono sospesi temporaneamente dall’attività lavorativa o che svolgono prestazioni di lavoro a orario ridotto per contrazione o sospensione dell’attività produttiva, riconducibili:
ad eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o ai lavoratori;
a condizioni temporanee di mercato;
a crisi aziendale;
a ristrutturazione e/o riorganizzazione aziendale.

L’impresa sospende il rapporto di lavoro per un periodo non superiore a 5 mesi nel corso dell’anno 2015. La sospensione può avvenire anche per periodi distinti, della durata di almeno un mese ciascuno. Per ogni lavoratore coinvolto possono essere richieste un massimo di 865 ore.

Durante il periodo di sospensione il lavoratore non svolge, o svolge solo parzialmente attività lavorativa ed il datore di lavoro non deve sostenere il costo delle ore non lavorate. Il lavoratore è remunerato con un trattamento erogato dall’INPS, che corrisponde all’80% della retribuzione complessiva spettante per le ore non prestate, nel limite di un importo massimo mensile, aggiornato ogni anno. A questo importo si aggiungono gli eventuali assegni familiari. Sono inoltre riconosciuti i contributi pensionistici figurativi.

Da questo punto di vista, la legge dice solamente che i criteri di scelta devono essere preventivamente comunicati alle organizzazioni sindacali e, su loro richiesta, devono costituire oggetto di esame congiunto.

Questo evidentemente basta a garantire che il datore di lavoro debba stabilire i criteri di scelta in via preventiva rispetto alle sospensioni; inoltre, la circostanza che i criteri siano oggetto di preventiva informazione comporta l’impossibilità del datore di lavoro di modificarli successivamente in via unilaterale (ciò potrebbe accadere solo nel corso dell’eventuale trattativa con il sindacato e solo previo accordo con questo); infine, il fatto che gli stessi siano oggetto, a richiesta, di esame con il sindacato dovrebbe garantire in ordine alla loro oggettività.

In ogni caso, come si vede, la legge nulla dice in ordine ai criteri che possono essere concretamente adottati. A questo fine interviene peraltro la giurisprudenza, che ha elaborato una serie di principi ormai consolidati.

In primo luogo, si esclude che i criteri di scelta del personale da sospendere in CIG siano necessariamente gli stessi previsti esplicitamente dalla legge per la mobilità: infatti, i due istituti hanno finalità del tutto diverse, con conseguente impossibilità di applicare analogicamente all’uno le norme dell’altro.

E’ altrettanto pacifico che i criteri di scelta debbano essere oggettivi, razionali e coerenti con il motivo che ha causato la sospensione dal lavoro. Da questo punto di vista, la giurisprudenza ha individuato due limiti al potere del datore di lavoro di scegliere il personale da sospendere. Più precisamente, il datore di lavoro deve innanzi tutto rispettare limiti interni: ciò significa che il datore di lavoro, dopo aver chiesto l’intervento della CIG per una determinata causa deve applicare criteri che siano coerenti. Per esempio, se la CIGS si fonda sulla riorganizzazione di un determinato reparto, sarebbe illegittimo il criterio di scelta che comportasse la sospensione di un lavoratore non appartenente a quel reparto. Ciò potrebbe anche avvenire mediante trasferimenti mirati e precedenti al provvedimento di sospensione.

In secondo luogo, il datore di lavoro deve rispettare limiti esterni, derivanti dall’applicazione in concreto dei generali principi di correttezza e buona fede, nonché dal divieto di non discriminazione. Sotto questo profilo, sarebbero per esempio illegittimi i criteri che implicassero scelte e valutazioni di tipo soggettivo o che discriminassero i lavoratori – per esempio – in considerazione del sesso o dell’appartenenza sindacale.

Possono beneficiarne i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato, inquadrati come operai, impiegati, quadri, compresi gli apprendisti, i lavoratori somministrati e i soci di cooperative con rapporto di lavoro subordinato, purché abbiano maturato, presso l’impresa richiedente, almeno 12 mesi di anzianità lavorativa alla data di inizio del periodo di intervento di cassa integrazione guadagni in deroga e per i quali siano stati preventivamente utilizzati gli strumenti ordinari di flessibilità (permessi, banca ore, etc.), compresa la fruizione delle ferie residue dell’anno precedente e quelle maturate fino alla data di inizio delle sospensioni.

Quali sono le cose da fare
In primo luogo, è necessario che il datore di lavoro inoltri richiesta di consultazione sindacale alle RSA o RSU (se esistenti), oppure alle organizzazioni sindacali di categoria maggiormente rappresentative sul piano provinciale (come previsto dall’art. 5 della legge 164/1975).
Le sospensioni dal lavoro o le riduzioni dell’orario di lavoro dei lavoratori non potranno precedere la sottoscrizione dell’accordo sindacale.

La valutazione dei casi di eccezionalità per il ricorso alla cig in deroga da parte delle imprese che hanno superato i limiti temporali di cassa integrazione ordinaria e/o straordinaria, o previsti dalla disciplina dei fondi di cui all’art. 3, commi da 4 a 41 della legge 28 giugno 2012, n. 92 è effettuata dal Servizio lavoro della Provincia Autonoma di Trento, presso la cui sede è stipulato l’accordo di sospensione dal lavoro.

Entro 20 giorni dalla data in cui ha avuto inizio la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro, l’azienda presenta, in via telematica all’INPS, mediante il Mod. IG15/Deroga - COD. SR100 e all’Agenzia del lavoro della Provincia Autonoma di Trento, la domanda di concessione o proroga del trattamento di integrazione salariale in deroga alla normativa vigente, corredata dell’accordo sindacale. Nella domanda sono specificati il periodo di sospensione, i lavoratori interessati ed il numero di ore di cig richiesti.

Se sussistono le condizioni per l’erogazione della cig in deroga, l’Agenzia del lavoro trasmette all’INPS il provvedimento di autorizzazione all’erogazione della cig in deroga e informerà l’azienda, che è tenuta all’invio mensile all’INPS, entro e non oltre il 25esimo giorno del mese successivo a quello di fruizione, del modello SR 41 con l’indicazione delle ore effettive di sospensione dal lavoro.

Il pagamento avverrà direttamente sul conto corrente indicato dal lavoratore.



mercoledì 18 marzo 2015

Assunzioni a tempo indeterminato: sgravi contributivi per tre anni



Un taglio dei contributi previdenziali per tre anni con un tetto massimo annuo di 8.060 euro e un risparmio complessivo per il datore di lavoro nel periodo di 24.180 euro: il bonus contributivo previsto dalla legge di stabilità per le nuove assunzioni a tempo indeterminato chiesto già da 76.000 aziende, secondo quanto annunciato dall’Inps, può essere chiesto da tutti i datori di lavoro privati (compresi quindi i partiti politici e i sindacati e non solo gli imprenditori) e per tutte le qualifiche (compresi i dirigenti) a esclusione degli apprendisti e del lavoro domestico. Il presidente dell’Inps ha parlato di dati ”incoraggianti” senza entrare nel dettaglio sul numero delle assunzioni ma la Fondazione dei consulenti del Lavoro (professionisti che assistono le aziende nelle richieste di sgravi) ha calcolato che nei primi due mesi del 2015 le assunzioni con l’esonero contributivo sarebbero state già 275.000.

La decontribuzione prevista della legge di Stabilità potrebbe dare una sferzata all'occupazione .E' quanto emerge dal dato fornito dal presidente dell'Inps, Tito Boeri,che oggi ha annunciato che nei primi giorni di febbraio 76 mila imprese hanno fatto richiesta di usufruire della decontribuzione prevista dalla legge di stabilità per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. "I primi dati", ha detto Boeri, "sono incoraggianti, 76 mila imprese nei primi 20 giorni ha fatto richiesta, quindi le assunzioni potrebbero essere molte di più".

Boeri ha aggiunto che l'Inps fornirà "sistematicamente" i dati alla fine di ogni mese: "forniremo i numeri con la comparazione sulle imprese e le assunzioni fatte negli anni precedenti", ha aggiunto. Le parole del presidente dell'Inps si riferiscono alla norma introdotta dalla legge di Stabilità che concede alle imprese che assumono a tempo indeterminato la possibilità di non versare i contributi previdenziali per tre anni fino a ad un tetto massimo di 8.060 euro.

Le parole di Boeri sono arrivate dopo la firma della convenzione tra l'Inps, Confindustria e Cgil, Cisl e Uil per l'attività' di raccolta', elaborazione e comunicazione dei dati relativi alla rappresentanza delle organizzazioni sindacali per la contrattazione collettiva nazionale di categoria. "La convenzione - ha detto Boeri - serve ad attuare la prima parte del testo unico sulla rappresentanza sottoscritta dalle parti sociali nel gennaio del 2014, una normativa che permette di arrivare ad una misurazione obiettiva della rappresentatività dei sindacati soprattutto ai fini della contrattazione collettiva".

Solo richieste di sgravi contributivi o nuovi posti di lavoro? Le 76 mila aziende che nei primi 20 giorni di febbraio, da quando cioè è in vigore la legge di stabilità, hanno presentato all'Inps la domanda di accedere alla decontribuzione per chi attiva un contratto a tempo indeterminato, costituiscono senza dubbio un boom. Per la stragrande maggioranza si tratta però della trasformazione di preesistenti contratti a termine, grazie al bonus di 8.600 euro l'anno, per tre anni, concesso dal governo. Bonus che si somma al taglio dall'Irap della componente costo del lavoro, questo strutturale. Alla domanda iniziale una prima risposta la dà la fondazione consulenti del lavoro, secondo i quali al 10 marzo i contratti stabili sono stati 275mila, il 20% dei quali rappresentati da nuove assunzioni. Dunque, 55 mila veri posti di lavoro in più. Tutto questo ancora prima dell'entrata in vigore del Jobs Act, la nuova forma contrattuale che sempre per i contratti a tempo indeterminato elimina quasi totalmente l'articolo 18, la sostanziale non licenziabilità del dipendente. Un dato significativo ma certamente ancora poco rispetto ai 3,2 milioni di disoccupati censiti dall'Istat nel 2014, pari a un tasso totale del 12,7% (42,7 quella giovanile).

Il primo segnale di inversione si era visto a gennaio con 11 mila occupati in più su base mensile e 131 mila annua, ed un tasso in discesa al 12,6%. Due mesi fa non erano ancora disponibili né gli incentivi per il posto fisso né tantomeno il Jobs Act. Secondo le prime stime questi 55 mila contratti aggiuntivi farebbero calare la disoccupazione verso il 12,1%, ancora ben sopra la media europea, ma comunque un segnale incoraggiante. Per capirne di più bisognerà attendere i dati di fine trimestre che l'Inps e l'Istat renderanno noti tra pochi giorni. I quali diranno tra l'altro in quali settori avvengono le nuove assunzioni. Al momento c'è sicuramente un'inversione di tendenza che riguarda i nuovi contratti a tempo indeterminato, che erano in diminuzione dal 2012: da 2,194 milioni a 2,042 fino a 2,006. I nuovi 275 mila registrati al 10 marzo ci riportano alla situazione pre-crisi. Altro dato è che gli incentivi e il taglio dell'Irap sembrano contare più del Jobs Act: fatto che però non deve sorprendere visto che il 95% delle imprese italiane è al di sotto dei 16 dipendenti, e quindi fuori dalle vecchie tutele dell'articolo 18 (ma le maggiori rappresentano il grosso dell'occupazione).

Quando il governo ha deciso il bonus di 8.600 euro i più critici - compreso il segretario della Uil Carmelo Barbagallo - hanno contestato il fatto che così si incentivasse un meccanismo di assunzioni-licenziamenti: la somma a disposizione delle imprese poteva essere superiore all'indennità da pagare con il Jobs Act in luogo della reintegra. Su questo fronte, solo alla fine dei tre anni avremo un bilancio certo. Ma non è banale dire che una risposta verrà molto prima: dalla domanda, dai consumi, insomma dalla crescita e quindi dal trend dei posti di lavoro nei prossimi mesi. Appena nel 2010, con una crescita di qualche decimale ma pur sempre positiva, la disoccupazione era in fondo all'8,4%: in quattro anni è aumentata del 55%. Questo dà la misura della rapidità del crollo, ma, a vedere il bicchiere mezzo pieno, anche delle chance di ripresa, se la politica, il governo, ma anche le imprese (e le banche) non sprecano questa opportunità.

COME FUNZIONA IL TAGLIO DEI CONTRIBUTI PREVIDENZIALI

Ecco in sintesi a chi spetta l’esonero contributivo secondo quanto specificato in una circolare Inps citata dall’agenzia di stampa ANSA:

TRE ANNI DI SGRAVI PER UN TETTO DI 8.060 EURO ANNUI: i datori di lavoro privati che assumono con un contratto a tempo indeterminato avranno un esonero pari all’ammontare dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro con esclusione dei premi Inail nel limite massimo di 8.060 euro annui. L’esonero vale per tre anni, solo per le assunzioni fatte nel corso del 2015. Il beneficio non determina una riduzione del trattamento previdenziale del lavoratore. Per ottenere l’esonero contributivo il lavoratore assunto non deve essere stato occupato nei sei mesi precedenti presso qualsiasi datore con contratto a tempo indeterminato.

INCENTIVO A OCCUPAZIONE: l’Inps precisa che la misura riguarda tutto il territorio nazionale e non esclude ne’ settori economici (riguarda anche l’agricoltura) ne’ datori di lavoro e quindi ”non risulta idonea a determinare un vantaggio a favore di talune imprese o settori produttivi o aree geografiche”. Non e’ inquadrabile quindi tra gli aiuti di Stato vietati dall’Ue.

INCENTIVI ANCHE A DIRIGENTI, ESCLUSI APPRENDISTI E COLF: l’esonero contributivo riguarda tutti i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, anche part time instaurati nel 2015 a esclusione dell’apprendistato e del lavoro domestico. Sono inclusi i contratti ai dirigenti mentre sono esclusi quelli di lavoro a chiamata anche se a tempo indeterminato. Vale anche per i contratti di somministrazione e per quelli instaurati in attuazione del vincolo associativo stretto con una cooperativa di lavoro.

SGRAVI A DATORI LAVORO PRIVATI, ANCHE SINDACATI E PARTITI: potranno usufruire dell’esonero contributivo anche le associazioni e gli studi professionali. Non sono applicabili ai contratti fatti dalle pubbliche amministrazioni.

NIENTE SGRAVI SE AZIENDA HA CIG: non sono applicabili gli sgravi contributivi se l’azienda e’ interessata da provvedimenti di cassa integrazione a meno che l’assunzione non serva ad avere professionalità diverse. La fruizione dell’esonero contributivo e’ subordinata al rispetto degli obblighi di contribuzione e dei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali.

CUMULABILE CON INCENTIVO A ASSUNZIONE DISABILI: l’esonero contributivo è cumulabile con l’incentivo per l’assunzione dei lavoratori disabili e dei giovani genitori. E’ compatibile con l’incentivo a chi assume persone che fruiscono dell’Aspi e in parte anche con il cosiddetto ”bonus Giovannini” (per l’assunzione di giovani under 29).

SOPPRESSI BENEFICI CONTRIBUTIVI LEGGE 407/90: sono soppressi gli incentivi all’occupazione a favore dei datori di lavoro che assumono, con contratto a tempo indeterminato, lavoratori disoccupati da almeno ventiquattro mesi o sospesi dal lavoro e beneficiari di cig da uguale periodo (riduzione del 50% dei contributi previdenziali e assistenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di 36 mesi a partire dalla data di assunzione, taglio del 100% al Sud e per le imprese artigiane).



martedì 17 marzo 2015

NASPI e ASDI, requisiti e caratteristiche per il 2015



Per i nuovi sussidi di disoccupazione della Naspi e dell'Asdi 2015 occorre considerare quali sono i casi in cui il sussidio si perde e cosa avviene con una concomitante attività lavorativa e al momento del raggiungimento dell'età pensionabile.

Vediamo le novità previste dal decreto attuativo n. 22/2015 del JOBS ACT sui nuovi ammortizzatori sociali.

Da maggio 2015 partono la NASPI e l'ASDI.
Il D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 22 disciplina la normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183 cd, si tratta della NASPI, ASDI  e  DIS- COLL. Vediamo in questo speciale  le caratteristiche dei nuovI ammortizzatori sociali per i lavoratori dipendenti  che perdono il lavoro:

la  Naspi, che sostituirà progressivamente ASPI e MiniASPI)  e

l' Asdi (Assegno di disoccupazione sperimentale)  che viene concesso solo a fronte di particolari impegni assunti dal lavoratore (formazione o lavori socialmente utili) sulla base di un progetto personalizzato formulato dai Centri per l'impiego.

NASPI  sta per Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego e si prevede la sostituzione delle prestazioni ASpI e mini-ASpI con la Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI), con riferimento agli eventi di disoccupazione (involontaria) verificatisi a partire dal 1° maggio 2015.

La nuova indennità rientra, come le precedenti, nella Gestione INPS prestazioni temporanee ai lavoratori dipendenti.

Per la NASpI si applica il medesimo ambito di applicazione soggettivo valido per l'ASpI e la mini-ASpI; riguarda, quindi,

i lavoratori dipendenti privati - con esclusione degli operai agricoli

i dipendenti pubblici a tempo determinato;

I nuovi requisiti per usufruirne sono i seguenti:

tredici settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione oppure

trenta giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi (precedenti il periodo di disoccupazione).

Rispetto all'Aspi vi è un ampliamento del periodo di riferimento della retribuzione imponibile agli ultimi quattro anni e dell'elevamento del limite a 1.300 euro mensili (nel 2014 era pari a euro 1.165,58 mensili);

L'indennità NASPI viene ridotta progressivamente nella misura del 3 per cento ogni mese, a decorrere dal quarto mese di fruizione.

L'indennità NASpI non è soggetta ad alcuna forma di contribuzione previdenziale.

La durata dell'indennità mensile NASpI  è pari alla metà delle settimane di contribuzione degli ultimi quattro anni (con esclusione dei periodi contributivi che abbiano già dato luogo a corresponsione di trattamenti di disoccupazione).

Per gli eventi di disoccupazione verificatisi a partire dal 1° gennaio 2017, si pone un limite massimo di durata pari a 78 settimane. Il suddetto limite di 78 settimane è superiore a quello generale, previsto, a regime, per l'ASpI, e coincide con quest'ultimo solo per i lavoratori di età pari o superiore ai 55 anni.

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La data di entrata in vigore della Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego NASpI, è fissata al 1° Maggio 2015.

ASDI - Assegno di Disoccupazione per le famiglie in stato di bisogno

L'Assegno di disoccupazione (ASDI) è istituito dall'art. 16 in via sperimentale,  con riferimento ad alcune categorie di soggetti titolari nel 2015 della summenzionata NASpI e per i quali l'intera durata di quest'ultimo trattamento sia stata fruita entro il 31 dicembre 2015. Il nuovo trattamento sarà concesso in caso di particolare stato di bisogno del nucleo familiare  ma sarà subordinato all'accettazione di alune clausole come partecipazione a iniziative di formazione e accettazione di proposte di lavoro.

L' assegno sarà   concesso (in base all'ordine cronologico di presentazione delle domande) nel rispetto della dotazione del Fondo pari a 200 milioni di euro per ciascuno degli anni 2015 e 2016; inoltre, il comma 8 prospetta un'eventuale estensione - in relazione al reperimento delle risorse finanziarie - per i casi di percezione del trattamento base (cioè, della NASpI) negli anni 2016 e seguenti.

L'ASDI è riservato ai soggetti privi di occupazione ed in una condizione economica di bisogno (comma 1), con priorità per i lavoratori appartenenti a nuclei familiari con minorenni e, in secondo grado di priorità, per i lavoratori in età prossima al pensionamento (comma 2).

Riguardo alla condizione economica di bisogno ed ai criteri di priorità, ulteriori disposizioni saranno definite con decreto ministeriale  da emanare entro 90 giorni. Il diritto all'ASDI  sarà  subordinato all’adesione ad un progetto personalizzato, redatto dai competenti uffici dei Servizi per l’impiego e contenente specifici impegni in termini di ricerca attiva di lavoro, disponibilità per iniziative di orientamento e formazione, accettazione di adeguate proposte di lavoro; la partecipazione alle iniziative di attivazione proposte è obbligatoria, pena la perdita del beneficio;

Nello specifico sia la Naspi che l’Asdi vengono previste per lavoratori che hanno perso involontariamente la loro occupazione e entrambi i sussidi sono assegnati in misura proporzionale all’età di servizio del lavoratore in azienda.

Differenti sono però le cause di esclusione e di perdita del sussidio e gli adempimenti del lavoratore disoccupato per continuare a fruire del sussidio di disoccupazione per tutto il tempo della sua durata. Cambiano poi le modalità di fruizione dei due sussidi in concomitanza con un’attività lavorativa e al raggiungimento dell’età pensionabile.

L’erogazione della Naspi per l’intera durata del periodo in cui viene assegnato il sussidio è vincolata alla partecipazione regolare del lavoratore disoccupato a iniziative di attivazione lavorativa. Si intendono con questo termine dei corsi e degli incontri finalizzati alla riqualificazione professionale del lavoratore che vengono organizzati dai Centri per l’impiego e dalle altre strutture competenti. La mancata partecipazione a queste occasioni di riqualificazione professionale costituisce un vero e proprio caso di decadenza dalla fruizione della Naspi.

L’Asdi, il sussidio che il lavoratore può richiedere in seguito alla fruizione della Naspi, qualora non sia riuscito a trovare una nuova occupazione, prevede, invece, un percorso di riqualificazione più incisivo e dettagliato dal momento che per fruire di questa seconda prestazione a sostegno del reddito, il lavoratore è tenuto ad aderire e a compiere effettivamente le azioni previste da un progetto personalizzato che viene stilato dai funzionari dei Centri per l’Impiego. Il progetto personalizzato prevede:
un percorso personalizzato di reinserimento lavorativo tarato sul profilo professionale del lavoratore;

impegni specifici che fanno sì che il lavoratore ricerchi attivamente un lavoro;
partecipazione a percorsi di orientamento e di formazione all’interno o al di fuori dei Centri per l’Impiego;
accettazione delle proposte di lavoro ricevute, se congrue;


In entrambi i casi (Naspi e Asdi) la mancata partecipazione alle iniziative di politiche attive previste o al progetto personalizzato può implicare la decadenza dalla fruizione del sussidio.
Sussidi e lavoro Per quanto riguarda la Naspi è prevista, in linea di principio, la fruizione del sussidio anche in caso di contemporaneo lavoro part-time. In concomitanza con il lavoro è prevista la sospensione e la riduzione del sussidio a specifiche condizioni; si decade, invece dal sussidio nel caso in cui la nuova attività lavorativa duri più di 6 mesi o produca un reddito superiore a quello minimo escluso da imposizione fiscale (8.100 euro annui).

E’ opportuno ricordare anche che la Naspi può essere fruita in un’unica soluzione a titolo di sussidio per lo sviluppo dell’autoimprenditorialità. Per l’Asdi non sono state definite dal Decreto specifiche cause di decadenza per il concomitante svolgimento di un’attività lavorativa: si attende, in proposito un chiarimento del legislatore (probabilmente un decreto ministeriale).

Pensione
Altro caso in cui si decade dal beneficio della Naspi è il raggiungimento dell’età utile alla pensione di vecchiaia o alla pensione anticipata. Se il lavoratore disoccupato ottiene, invece, la pensione di invalidità può decidere di fruire contemporaneamente anche della Naspi.


sabato 14 marzo 2015

Contratto di lavoro a tutele crescenti: mutui a rischio



Il contratto a tutele crescenti è legge dello stato: dal 1° marzo regolerà le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Porterà davvero a un miglioramento del mercato del lavoro? Dipende dalla sua capacità di ridurre la precarietà.

Pensiamo a cosa succederà quando il beneficio fiscale verrà meno. Non si tratta di un’ipotesi ca perché il rischio che il bonus fiscale non sia sostenibile per le finanze pubbliche è molto concreto. In Italia è ora possibile assumere a termine senza causa scritta e rinnovare per cinque volte il contratto nell’arco di tre anni. Nulla vieterà a un’impresa di offrire il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti soltanto dopo tre anni di contratto a termine. Tenendo conto che nei primi due anni l’indennizzo è decisamente modesto, in queste condizioni si rischia di rendere precario un nuovo assunto per almeno cinque anni. Ciò significa che una volta esaurito il beneficio fiscale, la precarietà potrebbe anche aumentare. Una situazione paradossale.

L'ABI rassicura, più mutui grazie al Jobs Act, ma da un'inchiesta su dieci banche solo una concede il prestito a fronte di contratto indeterminato a tutele crescenti: dati e riflessioni.

Il problema si è posto da subito: il nuovo contratto indeterminato a tutele crescenti previsto dal Jobs Act, che prevede meno garanzie contro il licenziamento rispetto al vecchio tempo indeterminato, avrà conseguenze sensibili sulla possibilità di ottenere mutui per acquistare la casa? Una risposta certa al momento non si può dare, visto che il nuovo indeterminato a tutele crescenti è in vigore dal 7 marzo  2015 e non ci sono dati su come si comporteranno le banche.

Ci sono, in compenso, due elementi contrastanti su cui riflettere: da una parte una dichiarazione del presidente dell’ABI, Giorgio Patuelli, del tutto confortante sul fatto che le banche vedranno di buon occhio il nuovo contratto indeterminato a tutele crescenti per la concessione dei mutui. Anzi, per Patuelli, i mutui sono destinati ad aumentare nel caso in cui lo strumento alimenti nuove assunzioni, spingendo quindi un maggior numero di lavoratori ad acquistare la casa e a chiedere mutui. Dall’altra, ci sono dubbi sollevati da più parti sul fatto che il nuovo contratto presenta meno garanzie rispetto al vecchio e anche una specifica inchiesta di Repubblica che mette in luce una serie di criticità.

Partiamo dalle dichiarazioni di Patuelli:

«Guardiamo con una disposizione favorevole al nuovo contratto, ci attendiamo un aumento di assunzioni a tempo indeterminato, destinato ad assorbire alcune forme contrattuali precarie. Sono convinto che i neoassunti con il contratto a tutele crescenti saranno bene visti dalle banche, che sono pronte ad accogliere positivamente la richiesta di prestiti e mutui avanzata da lavoratori stabilizzati».

«Per le banche la questione sostanziale è rappresentata dalla tipologia di contratto che è a tempo indeterminato – aggiunge Patuelli -. Il fatto che le tutele dal licenziamento si esplichino in modo differente rispetto al passato è ininfluente, perché al posto della reintegrazione è previsto per il lavoratore licenziato il pagamento di un indennizzo crescente fino a 24 mensilità che rappresenta una garanzia. Ovviamente il merito di credito sarà visto da ciascuna banca con una predisposizione positiva, ma guardando alla situazione specifica, ovvero all’importo richiesto, al reddito mensile, al valore dell’immobile, come si è sempre fatto per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato».

Come si vede, toni rassicuranti da parte del presidente dell’ABI, che però non sembrano confortati, almeno per il momento, dai fatti.

Due giornalisti di Repubblica, Matteo Pucciarelli e Silvia Valenti, hanno svolto una specifica inchiesta, presentandosi in una decina di banche fingendosi una coppia che chiedeva un mutuo per una casa a Milano da 200 milioni di euro, 70mila come anticipo. Il mutuo serviva a coprire il 65% dell’acquisto, dunque, (in genere, il massimo è l’80%). La somma richiesta: 130mila euro. Si presentavano come una giovane coppia di trentenni con due contratti di assunzione a tempo indeterminato, uno a tutele crescenti, per un importo di 1600 euro al mese, l’altro con il vecchio tempo indeterminato, con stipendio di 1200 euro al mese. Ebbene, una sola banca ha dichiarato disponibilità a concedere il mutuo, mentre tre hanno dato risposta negativa, quattro hanno preso tempo, due non hanno risposto.

Va fatta una precisazione importante: il problema fondamentale emerso dall’inchiesta non è l’indisponibilità a concedere un mutuo, ma la scarsa conoscenza da parte delle banche del nuovo contratto a tutele crescenti. Si tratta di un nuovo strumento sul quale ancora non c’è una preparazione adeguata da parte degli operatori e dei consulenti a cui ci si rivolge per ottenere i mutui.

Nella maggior parte dei casi le banche hanno chiesto tempo, per acquisire ad esempio documentazione storica sulle busta paga dell’assunto a tutele crescenti (che, nella coppia in questione, rappresentava lo stipendio più alto), nel senso che si rimandava la decisione di qualche mese, alcuni hanno chiesto almeno sei buste paga pregresse. Non sono mancati casi in cui di fatto l’orientamento iniziale è stato quello di considerare il contratto a tutele crescenti in modo simile a un contratto parasubordinato (caso in cui, spesso, si chiedono ulteriori garanzie).

L’unica banca che ha detto sì senza fare una piega è Deutsche Bank (fra le poche banche straniere interpellate nell’inchiesta, la maggioranza nel panel è stato rappresentato da istituti di credito italiani). L’impiegato a cui la giovane coppia si è rivolta ha risposto, semplicemente: «se non lo diamo a voi, il mutuo, a chi dobbiamo darlo?».

E’ difficile non pensare che se non si fanno mutui a giovani coppie con due contratti a tempo indeterminato, quale che sia la protezione prevista in materia di articolo 18 e reintegro, sembra difficile che il mercato dei mutui possa riprendersi come tutti auspicano.

Che effetti dovremmo quindi aspettarci dal nuovo contratto? Rendendo più facili le interruzioni di lavoro, implicherà ovviamente un aumento dei licenziamenti. Al tempo stesso, renderà anche più facile assumere nuovi lavoratori. Il saldo netto è però ambiguo, come da sempre evidenziato dagli studi empirici in materia.

Il vero obiettivo del contratto a tutele crescenti non va ricercato tanto nella riduzione della disoccupazione, quanto piuttosto nella riduzione della precarietà. Questo significa che la riforma avrà avuto successo se la quota di assunzioni a termine si ridurrà. Come dovrebbe ridursi anche la quota di assunzioni sotto altre forme instabili (in particolare contratti a progetto e false partite Iva).



giovedì 12 marzo 2015

Riforma della Scuola, i pilastri della buona scuola: assunzioni, precari e bonus



Approvate le misure del governo. «Ai prof 500 euro per spese culturali, addio alle classi pollaio, si punta su merito e trasparenza» , i docenti, che saranno selezionati dal preside.

Avvio della riforma della “Buona scuola”, con il varo di un ddl ad hoc sul sistema nazionale di istruzione e formazione.

La riforma si articola in dieci punti illustrati con l’ausilio di slide colorate.

Tra le novità, il preside sceglierà gli insegnanti dentro un albo, là dove c’è spazio che si libera. Il preside sceglie dentro l’albo dei docenti e individua la persona più adatta senza automatismi. I curricula saranno trasparenti". Il primo punto è l'autonomia. Ogni scuola vive la propria autonomia. È come se dicessimo che la scuola deve essere il cuore e il motore di un territorio, ma ogni scuola è diversa". "Grazie all’organico funzionale non ci saranno mai più classi pollaio, non ci saranno più i supplenti", ha annunciato Renzi.

Nella riforma della scuola, con la Carta del professore, "ogni anno il professore avrà un cifra, non stratosferica, 500 euro che potranno essere spesi per spese culturali. Se ci saranno le condizioni economiche proveremo ad aumentarli. Ho letto: "Hanno tenuto l'anzianità, cancellano il merito": non è così. La scelta di togliere gli scatti di anzianità è stata molto contestata e abbiamo scelto di inserire una cifra aggiuntiva sul merito. Abbiamo scelto di mantenere gli scatti di anzianità per i professori, ma con una cifra aggiuntiva sul merito. Le modalità su cui ciascuna scuola premierà saranno decise dal preside".

Inoltre, le scuole metteranno on line i curricula dei professori e i bilanci delle scuole.

Il disegno di legge di riforma della scuola prevede "l'assunzione di 100mila precari. C'è l'intenzione di sanare una ferita di 20 anni di promesse verso il corpo docente", ha detto il presidente del Consiglio. Che poi ha precisato: "Abbiamo fatto le nostre scelte, inseriamo in questa categoria chi è dentro le graduatorie ad esaurimento. Non chi, anche se dispiace dirlo, chi sta dentro le graduatorie di istituto. L'assunzione dei centomila precari è la fine del percorso, non l’inizio. Abbiamo necessitàdi sanare una clamorosa ferita di vent’anni di promesse non mantenute nei confronti del corpo docente, si è consentito di acquisire il titolo abilitativo, formando una generazione di insegnanti precari che incarnano la scarsa attenzione della politica nei confronti di chi deve andare ad educare. Dentro questa lista, ci sono le persone che sono nelle graduatorie ad esaurimento. Le graduatorie di istituto non fanno parte delle graduatorie ad esaurimento. Questi faranno il concorso, bandiremo un concorso molto più serio".

Per quanto riguarda gli insegnamenti, vengono rafforzati quelli di "musica, arte, lingue, educazione motoria". "Ci sarà particolare attenzione, dalla primaria, alla assoluta professionalità di chi insegna l'inglese, per dare insegnamenti non appiccicaticci - per cui si fa fare un corsetto alla maestra - ma si richiede un inglese assolutamente perfetto", ha spiegato il premier.

Sintetizziamo le principali novità:

Scatti di anzianità: restano intatti

Assunzioni. Saranno assunti 100mila precari tra coloro che fanno parte delle graduatorie ad esaurimento. Per gli altri sarà bandito un concorso. Esclusi gli insegnanti delle materne

Presidi-allenatori. Ogni scuola, entro una determinata data, farà un piano strategico della scuola che includa offerta formativa e fabbisogno. Dopo la presentazione del piano, che sarà «verificato dagli uffici competenti del ministero, ciascun preside avrà a disposizione un numero di insegnanti, non solo per le cattedre, ma anche per lavorare a singoli progetti, come un progetto europeo o per l’alternanza tra scuola e lavoro. La squadra dei prof che gestisce la scuola va oltre il numero delle cattedre e il preside come un allenatore, avrà la possibilità di individuare chi mettere in cattedra a inizio anno ma nel momento in cui qualcuno si ammala o un’insegnante resta incinta e aspetta un bambino, non si va alla graduatoria provinciale ma all’interno dell’organico funzionale: si supera questo meccanismo.

On line curricula dei prof e bilanci delle scuole. Saranno messi in rete per garantire trasparenza e permettere a chi valuterà le scelte dei presidi di avere uno strumento in più.

Supplenti. Spariranno per quasi tutte le classi di concorso già dal primo settembre 2015. Non per tutte perché le graduatorie a esaurimento non coprono tutte le classi di concorso. Si prevede un anno almeno di transizione durante il quale si attingerà anche alle graduatorie di istituto per le classi di insegnamento in cui non esistono alternative.

Formazione degli insegnanti. Sarà fatta nella singola scuola. Il preside e collegio dei docenti farà un piano di formazione permanente dei singoli docenti.

Merito. Ci saranno aumenti legati al merito con risorse diverse. Le modalità su cui ciascuna scuola premierà saranno decise dal preside. Sono stati messi in campo 200 milioni dal 2016.

Classi pollaio. Secondo Renzi possono essere superate attraverso il ricorso all’organico funzionale, un contingente di insegnanti privi di cattedre a disposizione di reti di scuoie

Non solo mattino. Scuole aperte anche il pomeriggio.

La Carta del prof. Arriva un nuovo strumento per rafforzare la dignità sociale del ruolo del docenti. Si prevedono per il primo anno 500 euro per tutti i professori, che potranno essere spesi solo per consumi culturali (libri, teatro, concerti, mostre, autovideo telematici).

Bonus scuola. Arriva un “bonus fiscale” per chi (tra cittadini, associazioni, fondazioni, imprese) intende investire nella scuola.

5 per mille. I finanziamenti alle scuole potranno arrivare anche destinando il 5 per mille nella dichiarazione dei redditi.



mercoledì 11 marzo 2015

Jobs act e la cancellazione per il rito Fornero



A seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei D.Lgs. n. 22/2015 e 23/2015, entrati in vigore il 7 marzo scorso, cambiano le regole per le aziende che intendono assumere personale con contratto a tempo indeterminato. Per i neo assunti, infatti, si applica il rinomato “contratto a tutele crescenti” che prevede importanti modifiche in caso di licenziamento illegittimo. In pratica, sono previste tutele crescenti per il lavoratore in funzione dell’anzianità di servizio. Le nuove regole, tuttavia, non si applicano soltanto ai neo assunti, ma anche ai lavoratori che vengono stabilizzati e a tutti i lavoratori, anche se assunti prima del 7 marzo 2015, nel caso in cu il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute dopo l’entrata in vigore del decreto, superi la soglia dei 15 dipendenti.

A continuazione del licenziamento, il datore di lavoro può offrire al dipendente un importo esentasse equivalente a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio (con un minimo di due mensilità e un massimo di 18). Se la soluzione conciliativa dà esito negativo, uno degli scenari che può prefigurarsi è quello del ricorso al giudice del lavoro.

A tale proposito, non potrà essere più utilizzato il rito Fornero, in quanto il decreto pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale prevede espressamente che le disposizioni dell'articolo 1, commi da 48 a 68, della legge 92/12 non si applichino ai licenziamenti intimati all'esito del contratto di lavoro a tutele crescenti.

La relazione illustrativa al decreto legislativo chiarisce che la ragione alla base della decisione di eliminare il rito Fornero per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti risiede nel fatto che il nuovo apparato sanzionatorio è totalmente svincolato dal precedente regime di tutela previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che costituisce, invece, la norma di riferimento sulla quale era stato ritagliato il rito abbreviato per le controversie in materia di impugnazione dei licenziamenti.

La legge 92/12 aveva introdotto il rito abbreviato con il preciso scopo di agevolare e rendere più rapida la conclusione delle controversie sui licenziamenti regolati dall'articolo 18 in una funzione, tra l'altro, di tutela delle imprese rispetto al danno economico e ai disagi organizzativi che potevano prodursi a causa della durata eccessivamente lunga del processo del lavoro ordinario.

Il rito Fornero ha determinato, peraltro, sin dalla sua prima applicazione enormi disagi sia per gli avvocati, sia per i magistrati chiamati ad utilizzare il nuovo strumento processuale, in quanto si erano palesate letture di segno opposto rispetto ad una serie composita di questioni procedurali. Non si contano le decisioni rese dai Tribunali su aspetti decisivi del nuovo procedimento, quali la natura obbligatoria o facoltativa del rito e la necessità che il giudice dell'opposizione fosse, o meno, diverso da quello che aveva trattato la fase sommaria.

Tutte queste questioni hanno finito per appesantire, invece che semplificare, il ruolo dei magistrati impegnati sul fronte delle cause di lavoro, tanto che in svariati Tribunali si è ritenuto di dover emettere dei veri e propri “prontuari” con le linee guida sull'applicazione del nuovo processo.

Con l'articolo di chiusura del decreto legislativo, il Governo ha deciso di cancellare il rito abbreviato per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti, ai quali tornerà, dunque, ad applicarsi l'ordinario processo del lavoro anche per le controversie relative all'impugnazione dei licenziamenti.

Il meccanismo previsto dall’ex ministro del Lavoro verrà sostituito da un’offerta di conciliazione (art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015). In pratica, il datore di lavoro ha la possibilità di offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un importo esente da imposizione fiscale e contributiva pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’esito della conciliazione dovrà essere comunicato dal datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto. Qualora il datore di lavoro omette tale comunicazione, dovrà scontare una sanzione che va dai 100 ai 500 euro per lavoratore (50 - 250 euro per le agenzie del lavoro).

I licenziamenti disciplinari tra Jobs act e riforma Fornero. Basta un poco di fatto materiale.
La categoria del “fatto materiale” è tornata, del tutto inaspettatamente, in auge a proposito dell’individuazione della tutela ex art. 18 l. 300/1970 a fronte di un licenziamento disciplinare illegittimo.

La categoria del fatto materiale era stata elaborata all’indomani della riforma c.d. Fornero (legge n. 92/2012) che nell’art.18 conserva la tutela reintegratoria (sia pure nella specie c.d. attenuata) subordinandola all’“insussistenza del fatto contestato” dal datore come giusta causa o giustificato motivo soggettivo.

Era stato allora proposto da più autori di restringere la formula legale alla sola ipotesi di mancanza del fatto materiale contestato; intendendosi, sotto evidente influenza penalistica, la sola mancanza degli elementi materiali dell’illecito disciplinare. E confinando conseguentemente nella categoria residuale delle “altre ipotesi” tutela delle indennità (così genericamente individuate nel 5° comma dell’art.18) tutti gli altri casi in cui fosse invece insussistente  l’antigiuridicità, l’imputabilità, la volontarietà della condotta, l’elemento soggettivo ed infine il difetto di proporzionalità. Anche se la mancanza di quest’ultimo requisito può ancora riportare alla reintegra per altra via, quante volte si venga a configurare la seconda ipotesi in presenza della quale l’art.18, 4° comma, riformato dalla legge 92, prevede l’operatività della tutela forte per essere il fatto riconducibile ad una condotta disciplinare “punita con una sanzione conservativa”nei contratti collettivi e codici disciplinari.




Jobs act e il possibile rientro in azienda



Il Jobs Act da pochi giorni è ufficialmente in vigore. La nuova legge, nelle intenzioni, dovrebbe incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, perché prevede per l’imprenditore l’esonero contributivo e il taglio dell’Irap per i primi tre anni. A ben vedere però pare che sia stata istituita la figura del lavoratore «precario per sempre» vista la facilità con cui potrà essere licenziato per ragioni disciplinari o economiche e la cancellazione della possibilità di «reintegra», il cui campo di applicazione si riduce moltissimo anche nel primo caso quando resta possibile solo se in giudizio viene dimostrata l’insussistenza del contestato (per esempio l’azienda accusa di arrivare sempre in ritardo ma il cartellino dimostra che non è così).

A fronte di un licenziamento, un lavoratore a cui si applica il contratto a tutele crescenti potrà rientrare in azienda, per decisione del giudice, solo in tre casi: il recesso è nullo, è discriminatorio, oppure è stato intimato per una contestazione disciplinare basata su un fatto materiale inesistente.

Il reintegro nel posto di lavoro da parte del giudice resta possibile, come già avviene adesso, per i licenziamenti discriminatori, cioè quelli decisi dal datore di lavoro sulla base di convinzioni politiche o religiose oppure per l’orientamento sessuale. Mentre il suo campo di applicazione si riduce di parecchio per i cosiddetti licenziamenti disciplinari, cioè quelli adottati sulla base del comportamento del dipendente. Qui la strada del reintegro resta possibile solo in un caso: quando in giudizio viene direttamente dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. L’azienda accusa di arrivare sempre in ritardo, ad esempio, ma le strisciate del cartellino del lavoratore dimostrano che non è così. L’onere della prova è a carico del dipendente. In tutti gli altri casi, invece, c’è solo l’indennizzo economico. L’accertamento del giudice non può riguardare l’eventuale sproporzione della sanzione del licenziamento rispetto al fatto contestato. Anche se dovesse considerare la punizione «esagerata», il magistrato non potrebbe disporre il rientro in azienda del lavoratore. In caso di reintegro, il dipendente deve riprendere servizio entro 30 giorni. Se rinuncia ,può chiedere di «convertire» il reintegro in un’indennità pari a 15 mensilità.

Un licenziamento viene considerato discriminatorio se determinato da motivi di natura politica, razziale o di lingua oppure se basato sul sesso od orientamenti sessuali, convinzioni personali, handicap. È nullo, per esempio, se fatto a voce (anche per le procedure collettive) o in violazione delle norme a tutela della maternità.

Nell'ipotesi in cui si accerti il carattere nullo o discriminatorio del recesso, il giudice stabilisce la reintegrazione del dipendente, che ha anche diritto a un risarcimento commisurato alle retribuzioni perse tra il licenziamento e il rientro in azienda, con un minimo di cinque mensilità, nonché al versamento da parte del datore di lavoro dei relativi contributi previdenziali e assistenziali.

In alternativa, il dipendente può scegliere di non ritornare al suo posto di lavoro e di incassare un'indennità aggiuntiva pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione. Tale decisione deve essere presa entro 30 giorni dall'invito a ritornare al lavoro o dalla comunicazione del deposito della pronuncia del giudice. Queste regole valgono indipendentemente dalle dimensioni dell'azienda.

Non così accade, invece, a fronte di un licenziamento disciplinare di cui si accerti l'insussistenza materiale del fatto contestato, onere che ricade sul dipendente. Infatti, il comma 1 dell'articolo 9 del Dlgs 23/15 stabilisce che per le imprese più piccole (quelle fino a 15 addetti nello stesso comune o fino a 60 in più località) non c'è comunque la reintegrazione e il dipendente deve accontentarsi della compensazione economica. Invece se il giudice stabilisce l'insussistenza del fatto in riferimento a un licenziamento intimato da una realtà di maggiori dimensioni, scatta la reintegrazione e il pagamento, a carico del datore di lavoro, di un'indennità commisurata alla retribuzione di riferimento per il periodo in cui è rimasto senza impiego (ma comunque non superiore a 12 mensilità), tolto quanto eventualmente percepito a fronte di altre attività svolte nel frattempo o quanto avrebbe potuto guadagnare accettando un'offerta di lavoro congrua in base a quanto stabilito dal decreto legislativo 181/00 (le stesse condizioni che possono far perdere lo status di disoccupato). Anche in questo caso il lavoratore, in alternativa alla reintegra, può chiedere un'indennità ulteriore pari a 15 mensilità.

Anche per i vecchi contratti, la possibilità di demansionare i dipendenti e ridurre gli stipendi unilateralmente da parte del datore di lavoro per «modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore», formula che vuol dire tutto e niente e che è un presupposto tutto nelle mani dell’azienda. E grazie a un decreto del 2011 il lavoratore, in deroga alla legge, potrà perdere anche più di un livello di inquadramento. Il demansionamento potrebbe avvenire anche in senso orizzontale, magari inserendo il lavoratore in un settore in via di dismissione. E se il decreto facilita il declassamento del lavoratore, al tempo stesso ne rallenta il passaggio a un livello più alto, cosa che prima diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell'attività, adesso dopo sei.

Con il Jobs Act il lavoratore può essere convinto o indotto ad accettare livelli inferiori di tutela, sul piano delle mansioni ma anche della retribuzione, perché l’azienda può metterlo di fronte a un bivio, soprattutto nel caso dei neo assunti:o accetta le sue condizioni o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità. Si aprono così le porte a possibili casi di mobbing legalizzato.






Jobs act: e le indennità assicurate in base all'anzianità



Con la riforma in esame si punta a promuovere il contratto a tempo indeterminato attraverso misure che lo rendano più conveniente rispetto ad altre tipologie contrattuali.

Il contratto a tutele crescenti taglia del 30% il costo del lavoro. L’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato prevede due mensilità per ogni anno di servizio e andrà da un minimo di 4 mesi a un massimo di 24 mesi di stipendio. Le aziende con meno di 15 dipendenti restano escluse dall'articolo 18 (per loro continuerà a valere l’indennizzo attuale, variabile tra i 2,5 e i 6 mesi di retribuzione). Le nuove regole si applicano soltanto ai nuovi assunti e anche in caso di licenziamento collettivo. Chi ha già un contratto a tempo indeterminato mantiene lo Statuto del passato. Il reintegro scatterà solo in caso di licenziamenti nulli e discriminatori. Nei licenziamenti disciplinari ingiustificati il reintegro ci sarà solo nel caso in cui il giudice rilevi che il “fatto materiale non sussista”. NASPI: l'indennità di disoccupazione ha una durata massima di 24 mesi, tetto a 1.300 euro, platea allargata a cococo e cocopro, scatta dal primo maggio 2015. DIS-COLL: 6 mesi di indennità per i precari. ASDI: l’assegno ai disoccupati indigenti.

Per gli assunti con il contratto a tutela crescenti il Dlgs 23/15 prevede, in caso di recesso ingiustificato del datore di lavoro, una tutela di natura essenzialmente legata alle indennità, eliminando la reintegrazione nel posto di lavoro come sanzione unica in caso di accertamento dell'illecito, eccetto che per alcuni casi tipizzati di licenziamento discriminatorio e per quello di natura disciplinare nel caso in cui venga provata l'insussistenza del fatto materiale contestato.

Per tutti gli altri casi di recesso ingiustificato, a partire da quelli determinati da «ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (i cosiddetti licenziamenti economici) l'unico strumento che resta al giudice, nel caso in cui determini che non ricorrano gli estremi del giustificato motivo oggettivo, dopo aver dichiarato estinto il rapporto, è quello di un risarcimento compreso «certo e crescente con l'anzianità di servizio».

La misura dell'indennità è predeterminata dalla legge, così togliendo al magistrato qualsiasi margine di discrezione sul suo ammontare: si tratta di due mensilità dell'ultima retribuzione considerata per il Tfr per ogni anno di servizio, con un minimo di quattro e un massimo di 24 mensilità. Nel caso di frazioni di anno d'anzianità di servizio, l'indennità viene riproporzionata, mentre le frazioni di mese intero si computano integralmente quando siano uguali o superiori a 15 giorni.

Logicamente, se il giudice ritiene il licenziamento giustificato, il lavoratore avrà diritto solo all'indennità sostitutiva e al trattamento di fine rapporto.

Le stesse regole valgono anche in caso di recesso per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (cosiddetti licenziamenti disciplinari), eccezion fatta, come detto, nel caso in cui il fatto materiale non sussista.

Le nuove disposizioni in materia di licenziamento si applicano a tutti i datori di lavoro privati; il decreto opera, tuttavia, una differenziazione per quelli che occupano fino a 15 dipendenti. In caso di recesso illegittimo, in questo caso, le sanzioni sono infatti ridotte. L'indennizzo ammonterà a una mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di due e un massimo (non superabile) di sei.

Nel caso in cui le aziende con le nuove assunzioni superino la soglia dei 15 dipendenti, le nuove regole si applicheranno anche a quelli già in servizio.

Quando, infine, il licenziamento è affetto da vizi formali e procedurali il rapporto di lavoro viene estinto comunque, ma il datore di lavoro dovrà pagare un'indennità pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio, la quale non può essere inferiore a due o superiore a 12 mensilità. Anche in questo caso l'indennizzo a carico delle piccole imprese sarà ridotto (mezza mensilità per anno di servizio tra un minimo di una e un massimo di sei).

La disciplina dei licenziamenti nel rispetto del seguente criterio direttivo: "previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento".  Il contratto a tutele crescenti, ovvero tutele che cresceranno in relazione all'anzianità di servizio, prevede per i neo assunti una modifica del regime di tutela in caso di licenziamento, regolato dall'art.18 dello statuto dei lavoratori. Al lavoratore verrà pagato un indennizzo economico crescente in base all'anzianità di servizio, con un limite di 24 mensilità. Il reintegro nel posto di lavoro scatterà solo per i licenziamenti discriminatori, per quelli nulli e per una fattispecie limitata di licenziamenti disciplinari  1 (quando cioè il fatto materiale contestato è insussistente, senza alcuna valutazione sulla sproporzione del licenziamento).  La delega, in ordine ai destinatari della nuova regolamentazione, contiene un riferimento di tipo soggettivo (individuati nei neoassunti), ed uno di tipo oggettivo, attinente all'introduzione delle nuove tutele in caso di vizio dell'atto di risoluzione del rapporto.  Nei confronti dei nuovi assunti (dal 1 marzo 2015).



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