sabato 26 settembre 2015

Lavoro: calcolo periodo di comporto


Il termine periodo di comporto sta ad indicare la somma di tutte le assenze per malattia avvenute in un determinato arco temporale. La normativa prevede che durante tale periodo di comporto (malattia) viene conservato il posto di lavoro. Allorquando si supera il periodo di comporto, si può procedere al licenziamento del dipendente.

Quasi tutti i contratti di lavoro, in caso di superamento del periodo di comporto, consentono al lavoratore la possibilità di richiedere un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita (con conservazione del posto ). I contratti di lavoro contengono la specifica previsione che, qualora le assenze siano imputabili a patologie gravi che richiedono terapia salvavita, come ad esempio l'emodialisi, la chemioterapia, ecc., dal computo sono esclusi i giorni di ricovero ospedaliero o in day hospital, nonché i giorni di assenza per l'effettuazione delle relative terapie.

Quando il contratto di lavoro fa riferimento all'anno di calendario si intende il periodo compreso tra il 1° gennaio e il 31 dicembre di ogni anno; se il riferimento è all'anno solare, si deve intendere un periodo di 365 giorni computati dal primo giorno di malattia. Si considerano anche i giorni festivi, comprese le domeniche o comunque non lavorativi che cadono durante la malattia.

Al contrario, per la determinazione del periodo di comporto, non si tiene conto dei giorni festivi o non lavorativi che seguono o precedono immediatamente quelli indicati sul certificato medico.

Al fine di calcolare il periodo di comporto si risale a ritroso dall'ultimo giorno di assenza per malattia ai tre anni o quattro anni, dipende dal CCNL, precedenti per verificare il rispetto del limite massimo consentito per le assenze retribuite. Superati i mesi retribuiti, su domanda del dipendente, possono essere concessi ulteriori mesi non retribuiti, durante i quali è prevista unicamente la conservazione del posto.

Prima di concedere l'ulteriore periodo di assenza non retribuita, l'Amministrazione deve procedere all'accertamento delle reali condizioni di salute del dipendente tramite la ASL, con lo scopo di verificare la sussistenza di eventuali cause di assoluta e permanente inidoneità a svolgere qualsiasi proficuo lavoro.

Pertanto, in base al meccanismo dello scorrimento, in occasione di ogni ulteriore episodio morboso è necessario procedere al seguente calcolo:

• determinare il triennio o quadriennio precedente l'ultimo episodio morboso: dal giorno precedente l'inizio della malattia in atto procedere a ritroso di tre o quattro anni;

• sommare le assenze per malattia intervenute nel triennio come sopra determinato;

• sommare alle assenze per malattia effettuate nel triennio precedente (risultato del punto precedente) quelle del nuovo episodio morboso.

Di volta in volta, sulla scorta delle risultanze derivanti dalla sommatoria di cui all’ultimo punto di cui sopra, sarà necessario:

• verificare il rispetto del periodo massimo di conservazione del posto;

• determinare il trattamento economico da corrispondere: infatti, sulla base dell'entità delle assenze risultanti dal computo effettuato in occasione dell'ultima malattia, il dipendente si colloca in una delle diverse articolazioni temporali contemplate all'interno del periodo massimo, percependo un trattamento economico nella misura prevista per ciascuna di esse.

Durante il periodo di malattia il lavoratore avrà diritto alle normali scadenze dei periodi di paga:
ad una indennità pari al cinquanta per cento della retribuzione giornaliera per i giorni di malattia dal quarto al ventesimo e pari a due terzi della retribuzione stessa per i giorni di malattia dal ventunesimo in poi, posta a carico dell’INPS, secondo le modalità stabilite, e anticipata dal datore di lavoro.

L’importo anticipato dal datore di lavoro è posto a conguaglio con i contributi dovuti all’INPS;
ad una integrazione dell’indennità a carico dell’INPS da corrispondersi dal datore di lavoro, a suo carico, in modo da raggiungere complessivamente le seguenti misure:

100% (cento per cento) per primi tre giorni (periodo di carenza)

75% (settantacinque per cento) per i giorni dal 4° al 20°

100% (cento per cento) per i giorni dal 21° in poi della retribuzione giornaliera netta cui il lavoratore
avrebbe avuto diritto in caso di normale svolgimento del rapporto.

Per retribuzione giornaliera si intende la quota giornaliera della retribuzione di fatto.
In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il recesso del datore di lavoro ove l'infermità dipenda dalla nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro che lo stesso datore di lavoro abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza o di specifiche norme. Peraltro, incombe sul lavoratore l'onere di provare il collegamento causale tra la malattia che ha determinato l'assenza e le mansioni espletate, in mancanza del quale deve ritenersi legittimo il licenziamento.

INPS: invalidità civile ottobre 2015


In una nota l’INPS comunica che a “partire dal mese di ottobre 2015, l’Ente procederà alla sospensione delle prestazioni economiche di invalidità i cui titolari sono stati convocati a visita di revisione dal mese di marzo 2015 e sono risultati assenti ingiustificati”

A partire dal mese di ottobre 2015, l’Istituto procederà alla sospensione delle prestazioni economiche di invalidità i cui titolari sono stati convocati a visita di revisione dal mese di marzo 2015 e sono risultati assenti ingiustificati.

Le sospensioni riguarderanno unicamente le convocazioni regolarmente effettuate. In tutti gli altri casi nei quali la spedizione abbia fatto registrare anomalie nella consegna (indirizzi insufficienti, sconosciuti o errati), prima di procedere alla sospensione sarà effettuata presso le sedi territoriali una puntuale verifica della correttezza degli indirizzi comunicati dagli assistiti e registrati nelle banche dati dell'Istituto.

Nel caso in cui l'assenza a visita sia stata determinata da cause di particolare gravità che ne abbiano reso impossibile la tempestiva comunicazione alla competente Commissione medico-legale, i soggetti destinatari del provvedimento di sospensione potranno prendere contatti con la Commissione stessa per verificare la possibilità di concordare una nuova visita.“

Recentemente, la legge n.114 del 2014 ha introdotto importanti modifiche in materia di visite sanitarie di revisione nell’intento di semplificare le procedure.

Prima di tale normativa si decadeva dallo status di invalido civile o portatore di handicap (L. 104/92) alla scadenza dei relativi verbali di accertamento anche se l’interessato era in attesa di visita di revisione. Per cui accadeva che a causa dei ritardi “tecnici” di verifica della permanenza dei requisiti sanitari, all’indomani della scadenza indicata nel verbale venivano sospese le provvidenze economiche (pensioni, assegni, indennità) e si perdeva di conseguenza il diritto alle agevolazioni lavorative (permessi e congedi); inoltre, non si poteva accedere ad altre agevolazioni quali, ad esempio, quelle fiscali finché non fosse stato definito un nuovo verbale di accertamento.
ora, la legge succitata ha stabilito che nel caso in cui sia prevista nel verbale una data di rivedibilità, si conservano tutti i diritti acquisiti in materia di benefici, prestazioni e agevolazioni di qualsiasi natura, anche dopo la data di scadenza del verbale. Inoltre viene definita la competenza esclusiva dell’Inps nella convocazione a visita nei casi di verbali per i quali sia prevista la rivedibilità. Spetta ora dunque all’INPS convocare il cittadino a nuova visita e spetta sempre all’INPS effettuare la visita, le cui commissioni saranno chiamate ad pronunciarsi non solo sulla permanenza o meno del grado d’invalidità precedentemente accertato, ma anche sul suo eventuale sopravvenuto aggravamento.

L’INPS, inoltre, ha reso noto che nel Fascicolo Previdenziale del Cittadino, munito di Pin di accesso al sito dell’Inps, è stata aggiunta una nuova area dedicata all’Invalidità civile.
In tale area il cittadino potrà informarsi circa le sue domande di invalidità civile ed i certificati medici introduttivi trasmessi all’Inps.

Quindi, una volta entrati nel sito dell’Inps utilizzando il proprio codice Pin, il cittadino potrà, se-lezionando la voce di menù denominata “Invalidità civile” avere accesso:

Alla voce menù denominata “Certificato medico Introduttivo”: qui potrà vedere per ogni certifi-cato presente una serie di informazioni come d esempio il numero del certificato, la data in cui è stato trasmesso all’Istituto, il medico che ha redatto il certificato;

Alla voce menù denominata “Domande presentate”: qui sarà possibile visualizzare una serie di informazioni riguardanti le singole domande presentate, come ad esempio il codice identificativo Domus, la data di trasmissione della domanda, il numero della domanda, il tipo di domanda presentate (di invalidità civile, handicap, cecità, sordità).

venerdì 25 settembre 2015

Lavoro straordinario previsione CCNL e retribuzione


Per lavoro straordinario si deve intendere la prestazione di lavoro che eccede l’orario normale settimanale. Generalmente è considerato straordinario l’orario eccedente le 40 ore settimanali. Dal punto di vista contrattuale è invece straordinaria la prestazione di lavoro che eccede l’orario settimanale prefissato dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Il lavoro straordinario viene compensato mediante una maggiorazione della retribuzione, fissata dalla contrattazione collettiva; sempre la contrattazione può prevedere che, in alternativa alla maggiorazione per il lavoro straordinario, al lavoratore vengano concessi periodi di riposo compensativo.  Se Il compenso per lavoro straordinario viene corrisposto in modo fisso e continuativo, il medesimo incide sul calcolo del T.F.R.

Nel caso in cui il CCNL fissi un orario di lavoro ordinario inferiore alle 8 ore giornaliere, l’eventuale straordinario può essere corrisposto con una maggiorazione anche inferiore al 10% della paga base.
I giudici della Corte di Cassazione, hanno affermato che nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva fissi un orario massimo di lavoro normale inferiore a quello predeterminato per legge, la stessa contrattazione può stabilire che il superamento dell'orario contrattuale, fino al limite di quello legale, non sia compensato secondo la disciplina del lavoro straordinario. Di conseguenza, in tali casi, la maggiorazione per lavoro straordinario può essere inferiore al 10% della paga ordinaria.
In definitiva, solo il lavoro straordinario superiore alle 8 ore giornaliere (48 ore settimanali) va retribuito in misura non inferiore al 10% della retribuzione ordinaria.

In particolare, con riferimento alla fattispecie,  secondo cui la maggiorazione per il lavoro straordinario non può essere inferiore al dieci per cento della retribuzione ordinaria, si riferisce esclusivamente alle ore di straordinario eccedenti la giornata normale di lavoro (in otto ore giornaliere e quarantotto ore settimanali).

Ne consegue che nell'ipotesi in cui la contrattazione collettiva fissi un orario massimo di lavoro normale inferiore alle otto ore giornaliere e alle quarantotto ore settimanali, il compenso deve essere sempre corrisposto  con una maggiorazione rispetto a quella ordinaria  che può anche essere inferiore alla misura del  dieci per cento prevista per legge.

Ancora, continua la Corte di Cassazione, poiché l'art. 36 Cost. nulla stabilisce circa la struttura della retribuzione e l'articolazione delle voci che la compongono, “è rimessa insindacabilmente alla contrattazione collettiva la determinazione degli elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento economico complessivo dei lavoratori, del quale il giudice potrà poi essere chiamato a verificare la corrispondenza ai minimi garantiti dalla norma costituzionale. Quanto alle modalità di determinazione di tale maggiorazione, esse non possono che essere individuate nella contrattazione collettiva, poiché, se il lavoro straordinario è individuato come tale esclusivamente dalla fonte pattizia, non può poi negarsi a quest'ultima il potere di regolamentare l'istituto anche sotto tale aspetto”. Per questi motivi, la Suprema Corte rigetta il ricorso.

Nell'ipotesi in cui la contrattazione collettiva fissi un limite di orario normale inferiore a quello predeterminato per legge, è consentito alla stessa contrattazione determinare l'assetto degli interessi nel senso che il superamento dell'orario contrattuale fino al limite di quello legale non debba essere compensato secondo la disciplina del lavoro straordinario.

giovedì 24 settembre 2015

Ricerca e sviluppo: per chi investe nel triennio 2015-2019 ha diritto ad un credito d'imposta


Al fine di sostenere gli investimenti in ricerca e la collaborazione tra università e imprese, sono previste alcune agevolazioni - prevalentemente sotto forma di credito d'imposta - in favore delle imprese che finanziano progetti di ricerca in Università o enti pubblici di ricerca o che assumono ricercatori o profili altamente qualificati.

Possono accedere tutte le imprese, indipendentemente dalla forma giuridica, che effettuano investimenti in R&S dal 1 gennaio 2015 al 31 dicembre 2019.

Sono ammesse le spese sostenute nel quinquennio 2015-2019 per:

costi del personale, anche collaboratori, altamente qualificato impiegato in attività di R&S;

quote di ammortamento per spese di acquisizione o utilizzazione di strumenti e attrezzature di laboratorio;

spese sostenute per stipulare contratti di ricerca con università, enti di ricerca o organismi equiparati, altre imprese;

spese per acquisire competenze tecniche.

Dette spese devono essere dedicate ai seguenti ambiti:

lavori sperimentali o teorici svolti ai fini dell’acquisizione di nuove conoscenze;

ricerca pianificata o indagini critiche miranti ad acquisire conoscenze per mettere a punto nuovi
prodotti, processi o servizi o permettere un miglioramento di quelli esistenti;

acquisizione delle conoscenze e capacità esistenti di natura scientifica, tecnologica e commerciale;

produzione e collaudo di prodotti, processi e servizi, a condizione che non siano impiegati o trasformati in vista di applicazioni industriali o per finalità commerciali.

Incentivare le imprese che investono in ricerca e sviluppo, e fornire allo stesso tempo un'opportunità ai ricercatori. Sono questi gli obiettivi principali del credito d'imposta in ricerca e sviluppo. Le novità più importanti inserite sono: estensione del credito a tutte le aziende, non più solo PMI; innalzamento del tetto massimo agevolabile (5 milioni anziché 2,5 milioni) e abbattimento della spesa minima per gli investimenti (30.000 Euro anziché 50.000 Euro); prolungamento dell'agevolazione fino al 2019.

Per i soggetti con periodo d'imposta coincidente con l'anno solare il credito d'imposta riguarda gli investimenti effettuati nel quinquennio 2015-2019.

Il credito d’imposta è riconosciuto a condizione che la spesa complessiva per investimenti in attività di ricerca e sviluppo, effettuata in ciascun periodo d'imposta:

ammonti ad Euro 30.000;

ecceda la media degli investimenti realizzati nei tre periodi d'imposta precedenti a quello in corso al 31.12.2015. Se l'attività è iniziata da meno di tre anni, ai fini del calcolo della media si considerano i periodo d'imposta precedenti esistenti alla data della costituzione.

Il credito viene concesso fino all’importo massimo annuo di 5 milioni di Euro per ciascun beneficiario, nelle seguenti misure:

50% della spesa incrementale (ossia la spesa eccedente la media annuale dei 3 periodi d'imposta precedenti a quello in corso al 31.12.2015), costi relativi al personale altamente qualificato, spese relative alla ricerca extra muros);

25% della spesa incrementale, per i costi di cui alle lettere b) e d) del comma 1 dell'art. 4 del decreto (quote di ammortamento delle spese di acquisizione o utilizzazione di strumenti e attrezzature di laboratorio, competenze tecniche e privative industriali).

Ai fini del calcolo del credito spettante occorre determinare la spesa incrementale agevolabile, separatamente per ciascuna tipologia di spesa. Nel caso in cui:

entrambe le tipologie di spesa dovessero registrare un incremento, il credito sarà calcolato applicando a ciascun incremento l'aliquota prevista per il relativo gruppo di spese (o 5o o 25%);

l'incremento dovesse riguardare solamente una tipologia di spesa, il credito sarà calcolato applicando l'aliquota prevista per quel gruppo di spesa all'ammontare della spesa incrementale complessiva.

Il credito d’imposta:
va indicato nel mod. UNICO relativo al periodo d’imposta nel corso del quale lo stesso è maturato;
non concorre alla formazione del reddito né della base imponibile IRAP;

non rileva ai fini del rapporto di deducibilità degli interessi passivi e dei componenti negativi ex artt. 61 e 109, TUIR;

è utilizzabile esclusivamente in compensazione, a decorrere dal periodo d'imposta successivo a quello in cui i costi ammissibili sono stati sostenuti (quindi dal 2016);

è cumulabile con il credito d'imposta per l'assunzione di personale altamente qualificato.

Le imprese che beneficiano di questa agevolazione devono conservare tutta la documentazione utile a dimostrare la loro ammissibilità.

L'Agenzia delle Entrate effettuerà i controlli sulla base della documentazione contabile, che dovrà essere certificata dal soggetto incaricato alla revisione contabile o dal collegio sindacale o da un professionista iscritto nel registro dei revisori. Tale certificazione dovrà essere allegata al bilancio.

Anche le imprese non soggette a revisione legale dei conti, e prive di collegio sindacale, devono avvalersi della certificazione di un revisore o di una società di revisione. Sono escluse da questo obbligo le imprese con bilancio certificato.

Nel caso in cui, a seguito dei controlli, si accerti l'indebita fruizione del credito (anche parziale), l'Agenzia delle Entrate provvederà al recupero del relativo importo, maggiorato di interessi e sanzioni.

mercoledì 23 settembre 2015

Riforma delle pensioni: uscita anticipata, anni di contributi e penalizzazione dell’assegno


La pensione anticipata è proprio la definizione di questo prestazione pensionistica. Si tratta di una funzione economica a domanda fornita a lavoratori dipendenti e autonomi purché iscritti all’assicurazione generale obbligatoria (AGO) ed alle forme sostitutive, esonerative ed integrative. La pensione dei soggetti interessati è corrisposta seguendo il sistema di calcolo retributivo, misto o contributivo.

Riforma Pensioni non si fermano le ipotesi per individuare le nuove forme di flessibilità in uscita (pensione anticipata), tra cui spunta un nuovo meccanismo che prevede la possibilità di ritirarsi dal lavoro a 63 anni con 30 o 35 di contributi versati, accettando una penalizzazione dell’assegno da un minimo del 3-4% a un massimo 10-12% per il periodo mancante al raggiungimento della soglia di vecchiaia dei 66 anni da garantire a tre specifiche categorie di lavoratori: “esodandi” al di fuori delle “salvaguardie” già scattate, disoccupati over 62 sprovvisti di ammortizzatori sociali e donne, magari dando la priorità a quelle con figli.

Sono queste le linee di riferimento su cui si starebbero muovendo i tecnici del Governo per impacchettare un’ipotesi mirata di flessibilità in uscita per le pensioni. Che avrebbe la finalità di consentire al datore di lavoro di versare contributi al lavoratore anche una volta cessato il rapporto. Il tutto anche con l’obiettivo di favorire le staffette generazionali.

A insistere sull’immediato decollo delle flessibilità in uscita per tutti i lavoratori con penalizzazioni massime del 2% l’anno (per un totale dell’8% per quattro anni di anticipo), «perché non produce costi e nel medio-lungo periodo genera risparmi», è invece il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano.

Età minima 62 anni con 35 anni di contributi: si percepirebbe inizialmente un assegno decurtato dell’8% che andrebbe a scalare fino a raggiungere lo zero (quindi fine della penalizzazione) a 66 anni. Con 41 anni di contributi si conseguirebbe la pensione di vecchiaia indipendentemente dall’età, come accadeva quando era in vigore la pensione di anzianità Le ultime notizie provenienti dalla politica vedono crescere le possibilità che questa soluzione possa essere approvata, sebbene non si è ancora capita precisamente la natura e la quantità del taglio che si andrebbe a stabilire per favorire l'uscita dal lavoro. Dopo la sentenza della Consulta sulla Legge Fornero.

La riduzione interessa i lavoratori con 42 anni e 6 mesi di contributi (41 anni e 6 mesi per le donne) che non hanno perfezionato 62 anni. La legge Fornero, infatti, consente l'accesso alla pensione anticipata a qualsiasi età ma, per scoraggiare l'accesso troppo anticipato, ha introdotto un particolare meccanismo di disincentivazione.

La riduzione, inoltre, si applica sulla quota di trattamento pensionistico calcolata secondo il sistema retributivo. Pertanto, per coloro che hanno un’anzianità contributiva pari a 18 anni al 31 dicembre 1995, la riduzione si applica sulla quota di pensione relativa alle anzianità contributive maturate al 31 dicembre 2011; mentre, per coloro che hanno un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni al 31 dicembre 1995, la cui pensione è liquidata nel sistema misto, la riduzione si applica sulla quota di pensione relativa alle anzianità contributive maturate al 31 dicembre 1995.

Nessuna decurtazione quindi interessa chi ha la pensione calcolata con il solo sistema contributivo, cioè coloro che sono entrati nel mondo del lavoro dal 1° gennaio 1996 in poi. La decurtazione non interessa, parimenti, le lavoratrici che accedono alla pensione con l'opzione donna, nè i lavoratori salvaguardati, e in, generale, coloro che mantengono l'ultrattività delle vecchie regole pensionistiche.

Con una penalità del 4% all'anno, un'uscita anticipata di 12 mesi porterebbe a una sforbiciata di 800 euro lordi: al netto delle tasse nazionali, regionali e comunali, però, il sacrificio si fermerebbe a 548 euro, cioè poco più di 42 euro per 13 mensilità. In questo quadro, la pensione netta passerebbe dai 1.272 euro netti dell'assegno in formula piena a 1.230 euro, con un taglio reale del 3,3 per cento.

Le soluzioni applicative su cui stanno lavorando in questi giorni i tecnici del Governo ipotizzano anche anticipi superiori, accompagnati da una progressione dei tagli. Sulla pensione da 20mila euro significa 3.200 euro, che però scendono a 2.192 dopo aver calcolato le ricadute fiscali: si tratterebbe comunque di poco meno di 169 euro al mese (cioè il 13,2% delle somme che si riceverebbero aspettando di raggiungere i requisiti ordinari), una cifra non certo indifferente a questi livelli di reddito.

La domanda di pensione anticipata si presenta esclusivamente attraverso uno dei seguenti canali:

web – la richiesta telematica dei servizi è accessibile direttamente dal cittadino tramite PIN attraverso il portale dell’INPS (www.inps.it);

telefono – chiamando il Contact Center integrato al numero 803164 gratuito da rete fissa o al numero 06164164 da rete mobile a pagamento secondo la tariffa del proprio gestore telefonico, abilitati ad acquisire le domande di prestazioni ed altri servizi per venire incontro alle esigenze di coloro che non dispongono delle necessarie capacità o possibilità di interazione con l’Inps per via telematica;

enti di Patronato e intermediari autorizzati dall’Istituto, che mettono a disposizione dei cittadini i necessari servizi telematici.


Lavoro: malattia, visite fiscali e reperibilità: tutte le novità


La visita fiscale è un accertamento medico previsto dallo Statuto dei Lavoratori, e predisposto dall’INPS o dal datore di lavoro per verificare l’effettivo stato di malattia del dipendente assente per motivi di salute. La visita fiscale, infatti, non si limita a un mero controllo della presenza al proprio domicilio del lavoratore in malattia, bensì consiste in una vera e propria verifica della sussistenza degli impedimenti fisici al lavoro.

Il lavoratore che intende usufruire dell’astensione dal lavoro per malattia deve avvisare tempestivamente il proprio datore e il medico di famiglia e deve sottoporsi, preferibilmente sin dal primo giorno di malattia, ad un accertamento sanitario da parte del proprio medico curante, che produce un’apposita certificazione. La disciplina cambia caso a seconda che l’assenza per malattia sia di durata pari o inferiore a 10 giorni, oppure sia superiore a 10 giorni:

– per le assenze da malattia pari o inferiori a 10 giorni, nonché per le assenze fino al secondo evento nel corso dell’anno solare, il lavoratore può rivolgersi anche al medico curante non appartenente al SSN (o con esso convenzionato);

– se invece l’assenza supera i 10 giorni o nei casi di eventi di malattia successivi al secondo nel corso dell’anno, la certificazione deve essere rilasciata esclusivamente dal medico del SSN (o con esso convenzionato).

Visite mediche fiscali di controllo

La nuova normativa INPS ha chiarito le modalità e il diritto del datore di lavoro di attivare la procedura di visita fiscale nei confronti dei lavoratori che dichiarano uno stato di malattia, che da tale data può essere richiesta per via telematica mediante i servizi online messi a disposizione dall’INPS servizio “Richiesta visita medica di controllo“.

Al termine della visita di controllo il medico redige presso il domicilio del lavoratore un apposito verbale informatico e ne fornisce copia al lavoratore. Il verbale viene trasmesso in tempo reale ai sistemi informatici dell’INPS e reso contestualmente accessibile al datore di lavoro che ha richiesto la visita.

Il datore di lavoro può inviare all’INPS, con un’unica operazione (funzione “Invio richieste multiple”), più richieste di visite mediche di controllo (al massimo 50).

In altre parole, il datore di lavoro ha diritto a richiedere all’Inps il servizio di controllo dello stato di salute dei propri dipendenti mediante presentazione online della richiesta sin dal primo giorno di malattia se l’assenza si verifica nelle giornate precedenti o successive a quelle non lavorative.

Queste ultime sono da individuare non solo nelle giornate festive e nella domenica, ma anche nelle giornate di riposo infrasettimanale conseguenti all’effettuazione di turni o servizi, nonché in quelle di permesso o di licenza concesse.

Il datore di lavoro, mediante i servizi online dell’Inps, richiede e dispone, pertanto, il controllo fiscale del suo dipendente che si dichiara in malattia per un certo numero di giorni o per una sola giornata, il sistema a fine procedura rilascia al richiedente il numero di protocollo relativo alla sua richiesta, con il quale può conoscere in qualsiasi momento e in tempo reale, dallo stato di avanzamento fino all’esito finale della visita medica.

Il Jobs Act ha introdotto l'esclusione obbligo di reperibilità per dipendenti privati in caso di malattia grave, così come avviene già per i dipendenti del Pubblico Impiego.

L'esclusione avviene nelle stesse modalità applicate ai lavoratori del settore pubblico, per cui in caso di:

gravi malattie che richiedono terapie salvavita;

infortuni e malattia professionale per i quali sia accertata dall'INAIL la causa servizio;

invalidità riconosciuta.

Invio certificazione

Il medico è tenuto ad inviare la certificazione per via telematica all’INPS, con le specifiche tecniche e le modalità procedurali determinate dall’Istituto.

Il lavoratore deve richiedere al medico il numero di protocollo identificativo del certificato inviato e fornirlo al proprio datore di lavoro, quando richiesto.

L’INPS, a sua volta, mette a disposizione dei datori di lavoro, attraverso i propri canali telematici, gli attestati di malattia ricevuti dai medici.

Il lavoratore è esonerato dall’invio della documentazione in forma cartacea.
Il lavoratore può continuare a presentare, sia all’INPS che al datore di lavoro, il certificato di malattia in formato cartaceo quando lo stesso viene rilasciato da medici privati non abilitati all’invio telematico o da strutture di pronto soccorso, nonché quando l’evento di malattia comporta il ricovero ospedaliero.

Al momento della visita il lavoratore può richiedere al medico la copia cartacea del certificato e dell’attestato di malattia, o, in alternativa, l’invio della copia dei documenti in formato pdf alla propria casella di posta elettronica.

Quando la stampa della certificazione non è oggettivamente possibile, il medico può limitarsi a chiedere al lavoratore conferma dei dati anagrafici inseriti rilasciandogli il numero di protocollo.

Il lavoratore, infine, può prendere visione dei propri certificati accedendo al sito internet dell’INPS, tramite PIN o codice fiscale.

Obbligo reperibilità del lavoratore e fasce orarie
Per consentire il controllo dello stato di malattia, il lavoratore ha l’obbligo di essere reperibile presso l’indirizzo abituale o il domicilio occasionale comunicato al datore di lavoro:
tutti i giorni durante la durata della malattia comprese le domeniche ed i giorni festivi nelle seguenti fasce orarie giornaliere:

1) lavoratori statali e personale enti locali
mattina: dalle ore 9 alle 13
pomeriggio: dalle ore 17 alle 18.

2) Lavoratori settore privato
mattina: dalle ore 10 alle 12
pomeriggio: dalle ore 17 alle 19.

Alcune sentenze ritengono che il lavoratore debba sempre rendersi reperibile nelle fasce orarie, anche nel caso in cui il controllo medico sia già avvenuto, in quanto il datore di lavoro ha diritto alla reiterazione delle visite nei limiti in cui ciò non abbia lo scopo di molestare o danneggiare il lavoratore senza un valido motivo.

Un altro orientamento stabilisce invece che, posto il carattere eccezionale della limitazione della libertà di movimento che deriva dall’obbligo della reperibilità, il lavoratore non è più tenuto a rispettarla una volta che il medico di controllo abbia accertato la malattia. Diversamente si potrebbe addirittura incidere negativamente sulla guarigione, specialmente per alcune patologie la cui cura può richiedere l’allontanamento dal luogo abituale di residenza per località più consone alle condizioni del lavoratore ammalato.

Il lavoratore ha il dovere di cooperare all’effettuazione delle visite domiciliari, in modo da consentire al medico l’immediato ingresso nell’abitazione. Se non rispetta tale dovere per incuria, negligenza o altro motivo (si pensi all’assenza del nome del lavoratore sul citofono) scatta la decadenza dal diritto al trattamento economico; non vi si può rimediare neanche con la conferma della malattia in una successiva visita ambulatoriale.

Se il lavoratore risulta assente alla visita di controllo domiciliare, il medico:

– rilascia, possibilmente a persona presente nell’abitazione del lavoratore, un avviso recante l’invito per quest’ultimo a presentarsi il giorno successivo (non festivo) alla visita di controllo ambulatoriale, salvo che l’interessato non riprenda l’attività lavorativa;

– comunica l’assenza del lavoratore all’INPS che, a sua volta, avvisa il datore di lavoro.

Se il lavoratore non si reca alla visita ambulatoriale, l’INPS ne dà comunicazione al datore di lavoro ed invita il lavoratore a fornire le proprie giustificazioni entro 10 giorni.

Ad un’assenza ingiustificata segue la trattenuta di un giorno di retribuzione in busta paga e il rifiuto dell’INPS di corrispondere al datore l’indennità di malattia. Solitamente, alla prima assenza ingiustificata c’è la trattenuta fino a 10 giorni di malattia. Nel caso di assenza ingiustificata per un numero di giorni anche non consecutivi superiori a 3 nell’arco di un biennio, o comunque per più di 7 giorni nel corso degli ultimi 10 anni, è previsto il licenziamento con preavviso (giustificato motivo soggettivo).


Contratto di apprendistato regole per il licenziamento e preavviso


L'apprendistato è lo strumento più diffuso per l'inserimento nel mercato del lavoro. Si tratta di un particolare rapporto all'interno del quale il lavoratore acquisisce delle competenze professionali attraverso l'inserimento all'interno dell'organizzazione produttiva del datore di lavoro presso il quale svolge le proprie mansioni. Si dice, infatti, che si tratta di un contratto di lavoro a causa mista: da un lato, infatti, il lavoratore svolge una vera e propria prestazione lavorativa ricevendo in cambio, oltre alla retribuzione, una formazione specifica.

L’apprendistato è un particolare rapporto che prevede l’acquisizione di specifiche competenze professionali, da parte del lavoratore che viene inserito nell’organizzazione produttiva dell’impresa presso la quale svolge le proprie mansioni. Un periodo dalla profonda natura formativa.

Il contratto di apprendistato ha una durata minima di sei mesi e prevede una fase di formazione, al termine della quale la qualifica professionale acquisita può essere inserita nel cosiddetto libretto formativo del cittadino. Un riconoscimento del percorso professionale compiuto.

Durante il periodo di formazione il datore di lavoro non può recedere dal contratto se non in presenza di una giusta causa o di giustificato motivo. La giusta causa si configura in comportamenti di una gravità tale da giustificare l’interruzione immediata del rapporto di lavoro, quali ad esempio il furto o il danneggiamento volontario di materiali aziendali. Il giustificato motivo si divide in soggettivo e oggettivo.

Il primo consiste in un inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, mentre alla base del licenziamenti per giustificato, motivo oggettivo vi sono da ragioni relative alla riorganizzazione dell’impresa. In caso di licenziamento illegittimo durante il periodo di apprendistato, sono applicate le norme previste per il licenziamento disciplinare.

Al termine del periodo di formazione il datore di lavoro può licenziare il dipendente, dando il necessario preavviso, in caso contrario il contratto prosegue automaticamente come un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Il contratto di apprendistato presenta tra le proprie peculiarità, rispetto al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la possibilità per il datore di lavoro di recedere una sola volta il contratto, alla conclusione del periodo formativo.

Il recesso è quindi esercitabile soltanto al termine del periodo formativo, esattamente nel giorno coincidente con il termine del periodo di apprendistato, con preavviso ma senza obbligo di motivazione. Le parti possono recedere liberamente dal contratto, nel rispetto del preavviso, decorrente dal termine del periodo di formazione.

Se questo non avviene il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Diversamente nel periodo di preavviso continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato. Per determinare i giorni di preavviso, nel rispetto del giusto livello di inquadramento, bisogna fare riferimento al periodo di preavviso previsto per il livello con cui si era inquadrati da apprendista e non a quello che si raggiunge al termine del periodo formativo. Il preavviso decorre dal momento in cui è conosciuta dall’altra parte e la decorrenza è interrotta nel caso in cui sopraggiungano le ferie.

Il datore di lavoro può risolvere il contratto di apprendistato alla fine del periodo di formazione. E’, infatti, prevista espressamente la possibilità per le parti di recedere dal contratto con preavviso decorrente dal termine del periodo di formazione.

Al termine del periodo formativo la decisione di risolvere il contratto, quindi, lasciata alle parti che potranno decidere di farlo senza giustificazioni. In questo caso, tuttavia, pur non essendo richieste motivazioni, sarà necessario comunicare in forma scritta la volontà di recedere all’altra parte e calcolando il preavviso, tenendo conto della data di conclusione del contratto. Se, invece, nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.


Smart working: lavoro agile e forme flessibili


Lo Smart Working dovrebbe consistere in una prestazione di lavoro subordinato che si svolge con le seguenti modalità:

a) esecuzione della prestazione lavorativa al di fuori dei locali aziendali, per un orario medio annuale inferiore al 50 per cento dell'orario di lavoro normale;

b) utilizzo di strumenti telematici per lo svolgimento dell’attività lavorativa;

c) assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti al di fuori dei locali aziendali.

La prestazione lavorativa deve essere disciplinata da un accordo scritto tra le parti, nel quale sono definite le modalità concrete di esecuzione della prestazione resa fuori dai locali aziendali, gli strumenti telematici utilizzati dal lavoratore, e la durata oraria della prestazione medesima.
Il datore di lavoro deve adottare misure atte a garantire la protezione dei dati utilizzati ed elaborati dal lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa.

Il lavoratore che svolge la propria prestazione lavorativa è tenuto custodire con diligenza tutte le informazioni aziendali ricevute tramite le apparecchiature telematiche messe a disposizione dall’azienda; l’obbligo si estende anche alle apparecchiature telematiche, che devono essere custodite in modo tale da evitare il loro danneggiamento o smarrimento.

Il futuro dell’organizzazione del lavoro passa necessariamente da qui: lì dove il lavoro incontra le nuove tecnologie, infatti, nascono occasioni che non possiamo permetterci di ignorare e che ci portano a un importante cambiamento di mentalità.

Da una parte, numerose ricerche dimostrano che chi lavora fuori dell’azienda è mediamente più produttivo dei dipendenti che sono in ufficio (grandi aziende internazionali riportano un aumento di produttività del 35-40%), si assenta meno (circa il 63% di assenteismo in meno) ed è sicuramente più soddisfatto, riducendo così le possibilità che decida di lasciare l’azienda, costringendo quest’ultima a investire risorse nella formazione di una nuova persona. Non solo: una recente ricerca prodotta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano stima che l’adozione di pratiche di smart working in Italia potrebbe significare 27 miliardi in più di produttività e 10 miliardi in meno di costi fissi.

Puntare su modelli di lavoro agile, o smart working, comporta notevoli vantaggi, sia per l’imprenditore che per la forza lavoro, in termini tanto di produttività e competitività che di occupazione. Incentivare lo smart working significa ridurre i costi fissi degli uffici, liberando così risorse che le aziende possono investire nella crescita e nell’occupazione.

Ad evidenziare le potenzialità dello smart working è una recente ricerca di Regus condotta tra 44.000 manager e professionisti di tutto il mondo, l’81% dei quali (87% in Italia) ritiene che sia prioritario ridurre i costi fissi della gestione degli uffici e degli spazi sottoutilizzati per poter liberare risorse da investire nella crescita e per creare nuovi posti di lavoro.

Dall’indagine è emerso inoltre che la maggior parte degli imprenditori e dei manager ritiene lo smart working sia fondamentale per sviluppare la crescita economica, ma anche che servono incentivi per promuovere le modalità di lavoro agile.

Si tratta di nuove modalità organizzative che consentono ai dipendenti di lavorare da remoto senza la presenza fisica in ufficio stanno diffondendosi in molte aziende anche del nostro Paese e lo smart working non è più una semplice questione organizzativa del lavoro basata sulla flessibilità o finalizzata all’ottimizzazione dei costi delle imprese, ma assume un ruolo più ampio e strategico anche per l’agenda politica e sociale del Paese.

Per quanto riguarda l’occupazione femminile, il 78 % (media globale 83%) pensa che lo smart working possa favorire il rientro dalla maternità e il bilanciamento degli impegni tra attività lavorativa e la gestione dei figli, mentre per il 70% (media globale 59%) ritiene che modalità lavorative basate sulla flessibilità degli orari e dei luoghi dove svolgere la propria attività possono anche facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e contrastare in parte il fenomeno della disoccupazione giovanile.

Questa tipologia può svolgere un ruolo determinante per stimolare l’economia e per far crescere l’occupazione. Attraverso la riduzione di costi fissi per la gestione di uffici e spazi lavoro, le imprese possono così liberare risorse da reinvestire nella crescita e nell’occupazione. Grazie a modalità organizzative del lavoro che prevedono agilità e flessibilità si consente inoltre a molte persone, in particolare le mamme, di poter conciliare al meglio la loro vita professionale e personale e di poter continuare a rimanere nel mondo del lavoro.

martedì 22 settembre 2015

Pensione anticipata e il part-time (staffetta generazionale)


Se tra i vantaggi di un sistema previdenziale più flessibile (che offra maggiori possibilità ai lavoratori di scegliere la pensione anticipata) c’è quello di garantire il passaggio generazionale agevolando l’occupazione giovanile ed esonerando le imprese dal mantenere lavoratori in esubero, tra gli svantaggi ci sono i maggiori costi per lo Stato: secondo il centro studi di Unimpresa, da qui al 2019 la spesa per le pensioni crescerà dell’11,9%, pari a 39,1 miliardi di euro.

È stato riproposto anche il part time come soluzione di pensione anticipata, collegata al lavoro, che non solo permetterebbe ai lavoratori più anziani di andare in pensione prima, ma darebbe la conseguente possibilità di liberare posti di lavoro per l'assunzione di nuovi giovani. In questo caso l’azienda, a fronte del passaggio al part-time del pensionando, si impegnerebbe ad assumere a tempo indeterminato lavoratori più giovani. Ma in quel caso però lo Stato dovrebbe farsi carico, in tutto o in parte, della riduzione di stipendio non superiore al 30 per cento della retribuzione piena.

I dipendenti che si troveranno vicini, più o meno di due anni all’età per la pensione, potranno richiedere volontariamente il regime del part-time con una diminuzione sia dell’orario di lavoro che dello stipendio e così consentire l’assunzione di un altro giovane. Coloro che sceglieranno questa opzione comunque oltre alla riduzione dello stipendio dovranno compensare i contributi tra part-time e tempo pieno.

Il passaggio chiave è un accordo che, come hanno spiegato i tecnici, che non è un meccanismo generale di flessibilità ma un sistema rivolto a platee particolari di lavoratori. La priorità, ovviamente, sono i dipendenti anziani, per esempio con più di 62 o 63 anni (si tenga conto che dal prossimo gennaio l’età per accedere alla pensione di vecchiaia sale a 66 anni e 7 mesi) che perso il lavoro non riescano a trovarne un altro. A loro potrebbe essere data la possibilità di accedere a un pensionamento anticipato con l’importo della pensione più basso perché ricalcolato alla luce del fatto che verrebbe pagato per più anni. Ci si perderebbe in media il 3-3,5% per ogni anno di anticipo.

Questo modello potrebbe essere esteso consentendo alle aziende di favorire pensionamenti anticipati all’interno di processi di ristrutturazione che potrebbero prevedere anche l’ingresso di giovani (staffetta generazionale), a patto che la stessa azienda si accolli parte del costo di questi prepensionamenti, magari versando, come propone l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, contributi esentasse per il raggiungimento della pensione. Sul tavolo, dicono ancora i tecnici, c’è anche l’ipotesi del «prestito pensionistico» o «assegno di solidarietà», altra forma per consentire le uscite anticipate a un costo basso per il bilancio pubblico.

C’è da mettere in evidenza che un anno di lavoro part-time vale quanto un anno di lavoro a tempo pieno ai fini del conseguimento del diritto alle prestazioni previdenziali? E’ questa una delle principali domande che si pongono tanti lavoratori part-time nella speranza di agguantare prima la pensione.

Vediamo dunque di chiarire rapidamente quali sono gli effetti ai fini della pensione dei lavori svolti in part-time.

Per conseguire il diritto alla pensione anticipata, lavorando in regime di part-time, il tempo lavorativo fissato non è diverso da quello richiesto per il tempo pieno: infatti, un anno di part-time, viene conteggiato come un anno di lavoro svolto a tempo pieno, a patto, però, che il lavoratore abbia ottenuto una retribuzione pari almeno al minimale previsto annualmente dall’INPS.

Il minimale fissato per l’anno 2014 è di 10.418 euro l’anno, pari a 867 euro al mese e pari a 200,35 euro a settimana. Se il lavoratore part-time, in ogni settimana dell’anno non è sceso sotto tale livello, significherà che si sarà comunque garantito la copertura contributiva delle 52 settimane e che avrà aggiunto alla sua posizione previdenziale un altro anno di contributi utili per conseguire il diritto alla pensione.

Ne segue che, se la retribuzione dovesse risultare inferiore e, proporzionalmente, il relativo versamento previdenziale, il diritto alla pensione non risulterà ancora maturato.

Ad esempio se un lavoratore nel corso del 2014 ha lavorato per 12 mesi a 1050 euro al mese con contratti part-time avrà diritto all’accredito di tutte le 52 settimane ai fini dell’accesso alla pensione anticipata o alla pensione di vecchiaia. Qualora invece abbia conseguito solo 100 euro a settimana per 52 settimane il medesimo lavoratore vedrà riconosciute ai fini del diritto alla pensione solo 6 mesi di anzianità contributiva. E in tal caso, dunque, la pensione si allontanerà.


lunedì 21 settembre 2015

Dis-Coll e pensione, nessuna copertura figurativa


I periodi di fruizione della nuova indennità di disoccupazione per i collaboratori coordinati e continuativi non titolari di partita IVA iscritti in via esclusiva alla gestione separata non sono coperti da contribuzione figurativa. Quindi non possono essere valorizzati ai fini pensionistici. A differenza di quanto accade per i lavoratori subordinati ai quali la Naspi riconosce, seppur con determinati limiti, l'accredito figurativo.

Niente contributi figurativi per la pensione nella Dis-Coll, il sussidio per collaboratori a progetto e parasubordinati, diversamente dalla NASpI : le regole sul nuovo assegno di disoccupazione sono contenute nel decreto sugli ammortizzatori sociali, attuativo del Jobs Act, Dlgs 22/2015 e introduttivo nella nuova assicurazione di sostegno al reddito (in vigore da maggio 2015), nonché della Dis-Coll.

Il sussidio dura al massimo sei mesi ed è proporzionale ai mesi di contribuzione versata, senza prevedere contributi figurativi. Tale indicazione è contenuta nel comma 7 dell’articolo 15 del decreto. La Dis-Coll è riconosciuta ai collaboratori che perdono il lavoro nel 2015 (dall'anno prossimo, queste forma contrattuale non sarà più applicabile, abolita dal Jobs Act).

La prestazione è pari al 75% del reddito, più il 25% della differenza fra reddito mensile e 1195 euro nel caso in cui lo stipendio fosse superiore a questo importo. Il tetto massimo è fissato a 1300 euro. Il trattamento si riduce del 3% al mese a partire dal quarto mese di fruizione.

La domanda va presentata all’INPS, in via telematica, entro 68 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro, la prestazione spetta dall’ottavo giorno di disoccupazione, oppure dal primo successivo alla richiesta. E’ compatibile con un una nuova occupazione subordinata fino a cinque giorni, se il contratto è più lungo decade il diritto alla DIS COLL. Per i contratti fino a cinque giorni, il trattamento viene sospeso.

Com'è noto l'indennità di disoccupazione spetta ai collaboratori coordinati e continuativi con o senza modalità a progetto, iscritti in via esclusiva alla Gestione separata, non pensionati e privi di partita Iva, che abbiano perduto involontariamente l'occupazione nel periodo che va dal 1° gennaio al 31 dicembre del 2015.

Per avere diritto alla Dis-Coll occorre essere in possesso congiuntamente dei seguenti requisiti:
a) stato di disoccupazione al momento della domanda;
b) almeno tre mesi di contributi tra il 1° gennaio 2014 e il giorno di disoccupazione; 
c) almeno un mese di contributi nell'anno solare della disoccupazione. In alternativa al mese di contribuzione versata nell'anno in cui si è verificata la cessazione del rapporto è riconosciuto anche un rapporto di collaborazione di durata pari almeno a un mese e che abbia dato luogo ad un reddito almeno pari alla metà dell'importo che dà diritto all'accredito di un mese di contribuzione (cioè 647,83 euro).

Per quanto riguarda la durata l’indennità DIS-COLL è corrisposta mensilmente per un numero di mesi pari alla metà dei mesi di contribuzione accreditati nel periodo che va dal 1° gennaio dell’anno solare precedente l’evento di cessazione dal lavoro al predetto evento. Entro comunque un tetto massimo di 6 mesi.

Ad esempio immaginando una collaborazione di 16 mesi attivata nel 2014 e chiusa nel 2015 con un compenso mensile di 950 euro la durata della prestazione sarà pari comunque a sei mesi e non otto. E partirà da un'erogazione di 712 euro (950 x 75%) per i primi 3 mesi, per poi ridursi del 3% l'anno per i successivi tre mesi.

L'importo base della Dis-Coll è infatti pari al 75% del reddito medio mensile, nel caso in cui tale reddito sia pari o inferiore, per l’anno 2015, all'importo di 1.195 euro, annualmente rivalutato sulla base della variazione dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente. Nel caso in cui il reddito medio mensile sia superiore al predetto importo, la misura della DIS-COLL è pari al 75 per cento del predetto importo di 1.195 euro, incrementata di una somma pari al 25 per cento della differenza tra il reddito medio mensile e il predetto importo di 1.195 euro. L’indennità DIS-COLL non può in ogni caso superare l’importo massimo mensile di 1.300 euro per l’anno 2015, annualmente rivalutato. 

Come per la Naspi resta però il complesso meccanismo dello scomputo, ai fini del calcolo della durata della prestazione, dei  “periodi contributivi” che hanno già dato luogo ad erogazione della prestazione. Circostanza destinata a presentarsi, in particolare, in caso di fruizione parziale della prestazione.

Ad esempio qualora il lavoratore fruisca di soli 2 dei 6 mesi spettanti, ai fini del non computo – in occasione di una nuova domanda di DIS-COLL - dei periodi di lavoro che hanno già dato luogo ad erogazione di precedente prestazione DIS-COLL, non saranno computati 4 mesi di lavoro. Se ne avesse fruiti 3 dei 6 spettanti non bisognerà considerare 6 mesi di lavoro. Questo scomputo tuttavia interessa solo la durata della prestazione mentre non incide sulla misura. Un meccanismo destinato a determinare più di qualche difficoltà tecnica nell'attuazione.

Fondi di solidarietà e ammortizzatori sociali le regole per il 2015 - 2016


L’intervento sugli ammortizzatori sociali nel Jobs Act, tocca le tutele del reddito sia in caso di sospensione del rapporto di lavoro sia in caso di disoccupazione. I principi e criteri prevedono: tutele del reddito universali in caso di disoccupazione; tutele uniformi e legate alla storia contributiva dei lavoratori; razionalizzazione della normativa in materia di integrazione salariale; coinvolgimento attivo dei lavoratori espulsi dal mercato del lavoro e dei beneficiari di ammortizzatori sociali; semplificazione delle procedure amministrative e riduzione gli oneri non salariali del lavoro.

L’impianto resta quello disegnato dalla legge Fornero del 2012 ma viene allargato il raggio d’azione: da gennaio 2016 l’obbligo di contribuire ai fondi è infatti esteso ai datori che occupano più di 5 dipendenti e non rientrano nella cassa integrazione. Entrano così in gioco circa 150mila nuove imprese per 1,3 milioni di lavoratori, rispetto alla platea precedente, limitata alle aziende dai 16 addetti in su.

Con il nuovo meccanismo (che entrerà in vigore l’1 gennaio 2016) gli ammortizzatori sociali andranno a coprire circa 600.000 imprese e 5.600.000 lavoratori

Integrazioni salariali ordinarie (CIGO) e straordinarie (CIGS)

I principali interventi riguardano:
l’estensione dei trattamenti di integrazione salariale agli apprendisti assunti con contratto di apprendistato professionalizzante, con la conseguente estensione degli obblighi contributivi (gli apprendisti diventano destinatari della CIGO e, nel caso in cui siano dipendenti di imprese per le quali trova applicazione solo la CIGS, di quest’ultimo trattamento, limitatamente alla causale di crisi aziendale);

la revisione della durata massima complessiva delle integrazioni salariali: viene previsto, infatti, che per ciascuna unità produttiva, il trattamento ordinario e quello straordinario di integrazione salariale non possano superare la durata massima complessiva di 24 mesi in un quinquennio mobile.

Utilizzando i contratti di solidarietà tale limite può essere portato a 36 mesi nel quinquennio mobile;
Integrazioni salariali ordinarie (CIGO)

I principali interventi riguardano:

una riduzione generalizzata del 10% sul contributo ordinario pagato su ogni lavoratore.
l’introduzione del divieto di autorizzare ore di integrazione salariale ordinaria eccedenti il limite di un terzo delle ore ordinarie lavorabili nel biennio mobile, con riferimento a tutti i lavoratori dell’unità produttiva mediamente occupati nel semestre precedente la domanda di concessione dell’integrazione salariale; e ciò, al fine di favorire la rotazione nella fruizione del trattamento di CIGO, nonché il ricorso alla riduzione dell’orario di lavoro rispetto alla sospensione;

Integrazioni salariali straordinarie (CIGS)
I principali interventi riguardano:

la razionalizzazione della disciplina concernente le causali di concessione del trattamento: nello specifico, viene previsto che l’intervento straordinario di integrazione salariale possa essere concesso per una delle seguenti tre causali:

riorganizzazione aziendale (che riassorbe le attuali causali di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale);

crisi aziendale, ad esclusione, a decorrere dal 1° gennaio 2016, dei casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un ramo di essa. Viene previsto, tuttavia, che può essere autorizzata, per un limite massimo di 6 mesi e previo accordo stipulato in sede governativa, entro il limite di spesa di 50 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016, 2017 e 2018, una prosecuzione della durata del trattamento di CIGS, qualora all’esito del programma di crisi aziendale l’impresa cessi l’attività produttiva e sussistano concrete prospettive di rapida cessione dell’azienda e di un conseguente riassorbimento occupazionale);

contratto di solidarietà: pertanto, gli attuali contratti di solidarietà di tipo “A”, previsti per le imprese rientranti nell’ambito di applicazione della CIGS, diventano una causale di quest’ultima;

l’introduzione della previsione che per le causali di riorganizzazione aziendale e crisi aziendale possano essere autorizzate sospensioni del lavoro soltanto nel limite dell’80% delle ore lavorabili nell’unità produttiva nell’arco di tempo di cui al programma autorizzato; e ciò, al fine di favorire la rotazione nella fruizione del trattamento di CIGS; questa disposizione non opera per un periodo transitorio di 24 mesi dall’entrata in vigore del decreto;

la revisione della durata massima della CIGS e dei contratti di solidarietà; nello specifico:
per la causale di riorganizzazione aziendale viene confermata l’attuale durata massima di 24 mesi per ciascuna unità produttiva, eliminando però la possibilità, attualmente prevista, di concedere le c.d. “proroghe complesse” (ossia due proroghe della durata massima di 12 mesi ciascuna);

per la causale di crisi aziendale viene confermata la durata massima di 12 mesi;

per la causale di contratto di solidarietà viene confermata, rispetto agli attuali contratti di solidarietà di tipo “A”, la durata massima di 24 mesi. Tale durata può essere estesa a 36 mesi, in quanto viene previsto che la durata dei trattamenti per la causale di contratto di solidarietà, entro il limite di 24 mesi nel quinquennio mobile, sia computata nella misura della metà. Oltre tale limite, la durata di tali
trattamenti viene computata per intero.

In sintesi
Cassa integrazione in deroga. Può essere autorizzata fino al 31 dicembre 2016 con appositi provvedimenti di concessione, i datori destinatari sono: Imprese di cui all'articolo 2082 Codice civile, esclusi i datori non imprenditori (sono stati riammessi gli studi professionali). Beneficiari: operai, impiegati e quadri, compresi apprendisti e somministrati. Requisiti: anzianità lavorativa di 12 mesi e devono essere state fruite le ferie residue. Quando e durata Crisi aziendali; ristrutturazione o riorganizzazione, massimo 5 mesi per il 2015. L’indennità 80% della retribuzione complessiva che sarebbe spettata, ridotto progressivamente in caso di proroga.

Contratti di solidarietà «B».  Sopravvivono fino al 30 giugno 2016. Datori destinatari Aziende non rientranti nel campo di applicazione delle Cig. I beneficiari sono i lavoratori subordinati, esclusi i dirigenti, dipendenti da: imprese con più di 15 dipendenti, che abbiano avviato la procedura di mobilità; imprese con meno di 15 dipendenti che stipulano contratti di solidarietà al fine di evitare licenziamenti plurimi individuali; imprese alberghiere, aziende termali pubbliche e private operanti in località territoriali con gravi crisi occupazionali; imprese artigiane. Indennità 25% della retribuzione persa. Durata Massimo 24 mesi

Fondi di solidarietà bilaterali, sistema in vigore dal 2016. Sono istituiti presso l'Inps, con decreto Lavoro-Economia, entro 90 giorni dagli accordi istitutivi del fondo. Obbligatori per tutti i settori che non rientrano nella Cigo o Cigs, in relazione ai datori che occupano in media più di 5 dipendenti (rientrano anche gli apprendisti) . I fondi già costituiti si adeguano alle nuove norme entro il 31 dicembre 2015.

Assegno ordinario per le causali Cigo/Cigs
-importo pari alle integrazioni salariali (80% retribuzione persa nei limiti dei massimali); durata compresa tra 13 sett. nel biennio mobile e le durate di Cigo/Cigs

Assegno di solidarietà
stipula di accordi collettivi di solidarietà ; durata max 12 mesi nel biennio mobile; importo pari alle integrazioni salariali (80% retribuzione persa)

Fondi «puri» e alternativi
Fondi di solidarietà bilaterali «puri»
Erogano l'assegno ordinario
Se il fondo viene costituito dopo il 2016 la contribuzione è almeno pari allo 0,45% (contribuzione addizionale non inferiore all'1,5%)

Fondi di solidarietà bilaterali alternativi
Si tratta dei fondi costituiti in riferimento ai settori dell'artigianato e della somministrazione di lavoro. Assicurano almeno una delle seguenti prestazioni: assegno ordinario o quello di solidarietà. La contribuzione addizionale non può essere inferiore all'1,5%

Fondo d'integrazione salariale

Prestazioni
Assegno di solidarietà (massimo 12 mesi nel biennio mobile – per i datori fino a 15 dipendenti, richiedibile per eventi dal 1° luglio 2016); l'ulteriore assegno ordinario solo per i datori oltre i 15 dipendenti fino a un massimo 26 settimane nel biennio mobile, per le stesse causali di Cigo (no maltempo) e Cigs (per crisi o riorganizzazione)

Durata
La durata massima dell'assegno è di 4 volte i contributi versati (questo limite è modulare nel periodo transitorio 2016-2021)

Contributi
Contributo ordinario (2/3 sul datore e 1/3 sul lavoratore): nelle aziende oltre 15 dipendenti è pari allo 0,65%, in quelle fino a 15 dipendenti è dello 0,45 %

Contributo addizionale: 4% della retribuzione persa

Riforma pensioni: flessibilità in uscita, opzione donna, opzione uomo e blocca il turn over


L’ipotesi allo studio del governo. Giuliano Poletti riaccende le speranze  per chi spera nella flessibilità pensionistica:” Stiamo lavorando sulle riforma delle pensioni. Sappiamo che c'è un aspetto da risolvere legato a uno scalino alto che blocca il turn over introdotto dalla Legge Fornero.

Il Governo lavora all'uscita anticipata delle donne dal lavoro dal 2016 a 62-63 anni con 35 di contributi: si tratta di una nuova opzione donna - spiegano tecnici dell'Esecutivo - che prevedrebbe, invece del ricalcolo contributivo, una riduzione dell'assegno legata alla speranza di vita e pari a circa il 10% per tre anni di anticipo rispetto all'età di vecchiaia. Senza interventi sulla riforma Fornero le donne del settore privato l’anno prossimo si troveranno di fronte a un nuovo scalino con il passaggio dell’età di vecchiaia da 63 anni e 9 mesi a 65 anni e 7 mesi (1 anno e 10 mesi in più rispetto al 2015).

La penalizzazione sarebbe meno pesante perché non sarebbe previsto il ricalcolo contributivo sull'intera vita lavorativa (come nell’opzione donna che scade quest’anno) ma solo un sistema legato alla speranza di vita. In pratica chi decide di uscire prima avrà un assegno decurtato.

Si studia anche un meccanismo di flessibilità per gli uomini guardando però solo a coloro che hanno perso il lavoro a pochi anni dalla pensione. Si lavora a una sorta di opzione uomo (sempre con decurtazione legata alla speranza di vita) ovvero la possibilità di accedervi con 3 anni di anticipo rispetto all'età di vecchiaia (66 anni e 7 mesi dal 2016) con un taglio dell'assegno legato non al ricalcolo contributivo, ma all'equità attuariale, cioè al tempo più lungo di percezione dell'assegno. Il Governo - spiegano tecnici dell'Esecutivo - studia anche il prestito pensionistico e una sorta di assegno di solidarietà per le situazioni di maggiore disagio, ossia all'anticipo di una parte della prestazione da restituire una volta che si raggiungono i requisiti per la pensione. Per le situazioni di maggiore disagio si ipotizza una ''pensione di solidarietà'', ovvero una sorta di ammortizzatore sociale di accompagnamento alla pensione.

Vediamo le proposte di Cesare Damiano

Pensione anticipata. Tra le varie idee è quella che è risultata a lungo la più gradita ai pensionandi. La soluzione vedrebbe l’uscita dal lavoro esattamente come avveniva nella pensione di anzianità soppressa dalla Fornero ma con qualche anno di ritardo. Età minima 62 anni a cui aggiungere 38 anni di contributi, con 63 anni servirebbero invece 37 anni di versamenti e così via (nella formulazione originaria occorrevano 60 anni di età più 40 di contributi).  Oggi servono 42 anni e 6 mesi per gli uomini e 41 anni e 6 mesi per le donne per accedere alla pensione anticipata (che è il nome dell’istituto, sebbene molti intendono il termine come mera anticipazione della pensione). E’ una delle soluzioni più “difficili” da attuare a causa degli elevati costi: si stima una spesa superiore ai 10 miliardi.

Pensione flessibile con penalizzazioni decrescenti. Età minima 62 anni con 35 anni di contributi: si percepirebbe inizialmente un assegno decurtato dell’8% che andrebbe a scalare fino a raggiungere lo zero (quindi fine della penalizzazione) a 66 anni. Con 41 anni di contributi si conseguirebbe la pensione di vecchiaia indipendentemente dall’età, come accadeva quando era in vigore la pensione di anzianità (all'epoca bastavano 40 anni di contributi).

Sul tema dei pensionamenti flessibili, si potrebbe individuare una strada che si potrebbe tradursi in realtà un nuovo meccanismo di flessibilità, prendendo in esame l'ipotesi Damiano del pensionamento anticipato con la quota 97, seppur con una maggiore percentuale di penalizzazione per ogni anno mancante dal raggiungimento dei termini di pensionamento. Al posto del 2% iniziale, si potrebbe passare ad un 3 o 4%, con l'effetto di arrivare a toccare un tetto massimo attorno al 15% per coloro che decidessero di uscire dal lavoro attorno ai 62 anni di età.

L'intervento per rendere flessibile l'uscita in pensione ci sarà. Ma dovrà essere compatibile con il quadro dei conti pubblici e degli obiettivi definiti dal Def, il Documento di Economia e Finanza con il quale il governo ha definito le stime per il Paese nel prossimo futuro. E quindi non potrà che essere minimo, focalizzato sulle categorie con maggiori problemi. "Sono possibili correttivi per chi è vicino ai requisiti ma in difficoltà con il lavoro", ha spiegato il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan.

venerdì 18 settembre 2015

Pensioni guida alla ricongiunzione contributi


La ricongiunzione dei contributi è quell’istituto che permette, a chi ha posizioni assicurative in gestioni previdenziali diverse, di riunire, mediante trasferimento, tutti i periodi contributivi presso un’unica gestione, allo scopo di ottenere una sola pensione.

La ricongiunzione, avviene a domanda del diretto interessato o dei suoi superstiti e deve comprendere tutti i periodi di contribuzione (obbligatoria, volontaria, figurativa, riscattata) che il lavoratore ha maturato in almeno due diverse forme previdenziali fino al momento della richiesta e che non siano già stati utilizzati per liquidare una pensione.

I periodi ricongiunti sono utilizzati come se fossero sempre stati versati nel fondo in cui sono stati unificati e danno quindi diritto a pensione in base ai requisiti previsti dal fondo stesso. Si tratta però di un provvedimento che comporta solitamente degli oneri economici a carico del richiedente variabili a seconda della sua retribuzione, dell'età anagrafica, dell'anzianità contributiva complessiva e dell'importo del contributo che si intende trasferire da una gestione all'altra.

Ricongiunzione nel Fondo Pensioni Dipendenti, è possibile ricongiungere presso il Fondo pensioni lavoratori dipendenti, gestito dall’Inps, tutti i contributi esistenti nelle altre gestioni sostitutive, esclusive o esonerative dell’Assicurazione obbligatoria (cosiddette gestioni “alternative” quali INPDAP, Fondi speciali Ferrovie, Volo, Elettrici, Telefonici, eccetera) o nelle Gestioni speciali dei lavoratori autonomi (Artigiani, commercianti e coltivatori diretti).  Fino al 30 Giugno 2010 l'operazione era gratuita; dal 1° Luglio 2010, per effetto delle modifiche introdotte dalla legge 122/2010, l'istituto è diventato di regola oneroso.

La procedura di ricongiunzione effettuata prevede il pagamento, di regola, di un onere a carico del richiedente. Onere che è pari al 50% della somma risultante dalla differenza tra la riserva matematica, determinata in base a specifici criteri e tabelle, necessaria per la copertura assicurativa relativa al periodo utile considerato, e le somme versate dalla gestione o dalle gestioni assicurative interessate. Il pagamento può essere effettuato, su domanda, in un numero di rate mensili non superiore alla metà delle mensilità corrispondenti ai periodi ricongiunti, con la maggiorazione di interesse annuo composto pari al 4,50%. Infine, il debito residuo al momento della decorrenza della pensione può essere recuperato ratealmente sulla pensione stessa, fino al raggiungimento del numero di rate indicato in precedenza.

La ricongiunzione interessa anche i lavoratori autonomi; per tali lavoratori è tuttavia richiesto che possano far valere un periodo di contribuzione di almeno cinque anni immediatamente antecedente nell'Ago oppure in due o più gestioni previdenziali diverse dall'Ago. Si ricorda, peraltro, che i lavoratori autonomi hanno anche la facoltà di ricorrere al cumulo contributivo gratuito ed ottenere una prestazione derivante dai contributi accreditati nel fondo lavoratori dipendenti e da quelli accreditati in qualità di lavoratori autonomi. I contributi presenti nella gestione separata non possono essere invece ricongiunti.

Sono stati ammessi alla ricongiunzione solo nel 1990 anche i liberi professionisti, e possono pertanto attivare la ricongiunzione sia in uscita dalle Casse, sia in entrata verso le Casse. In tali casi tuttavia i lavoratori dovranno sostenere interamente l'onere del provvedimento.

La domanda di ricongiunzione va presentata dall'assicurato alla sede competente dell'istituto, ente, cassa, fondo o gestione previdenziale in cui si intente ricongiungere i diversi periodi contributivi. La facoltà di ricongiunzione normalmente può essere esercitato solo una volta; è ammessa una seconda possibilità di ricongiunzione soltanto se sono passati almeno 10 anni dalla prima richiesta, nonché al momento del pensionamento solo nella stessa gestione in cui è stata effettuata la prima ricongiunzione.

Lo strumento della ricongiunzione INPS è applicabile ai contributi obbligatori, volontari, figurativi e da riscatto. Per fare domanda di ricongiunzione il lavoratore deve aver maturato contributi in almeno due diverse forme previdenziali senza averli già utilizzati per liquidare la pensione. L’istanza si trasmette online alla sede competente dell’Istituto, ente, cassa, fondo o gestione presso cui si intende trasferire i periodi contributivi.

Di norma il pagamento avviene utilizzando i bollettini MAV da versare presso sportello bancario senza costi aggiuntivi o uffici postali pagando la commissione postale. I bollettini possono essere acquisiti: dall’INPS, che li invia insieme al provvedimento di accoglimento della domanda di ricongiunzione; online dal sito INPS (www.inps.it > Portale dei Pagamenti > riscatti ricongiunzioni e rendite) con codice PIN; dal contact center INPS al numero 803164 gratuito da rete fissa o 06164164 da rete mobile a pagamento. Indicando codice fiscale  e numero pratica, il pagamento può avvenire anche presso:
tabaccherie del circuito Reti Amiche;

sportelli bancari di Unicredit o il suo sito internet;

Sito INPS (www.inps.it > Portale dei Pagamenti > riscatti ricongiunzioni e rendite) con carta di credito o tramite contact center.

Si paga in unica soluzione, entro 60 giorni dalla ricezione del provvedimento di accoglimento dell’INPS o a rate, con maggiorazione degli interessi legali calcolati al tasso vigente. L’importo totale della ricongiunzione deve essere suddiviso in rate mensili consecutive, d’importo unitario non inferiore a 27 euro. Le prime tre da versare in un’unica soluzione entro 60 giorni dalla notifica del provvedimento di accoglimento della domanda di ricongiunzione da parte dell’INPS. Se i termini non vengono rispettati l’INPS considera l’omissione come rinuncia alla ricongiunzione.

In caso di versamento rateale, se non sono pagate due rate consecutive, in pendenza di rateazione, viene annullata l’operazione di ricongiunzione, con rimborso di quanto versato. Si potrà riproporre una nuova domanda dopo 10 anni o al momento del pensionamento.

giovedì 17 settembre 2015

Come compilare una fattura per una prestazione occasionale


Alcune persone effettuano prestazioni lavorative occasionali che non raggiungono valori di fatturazioni elevati, tanto da obbligare all'apertura della partita IVA, in questi casi generalmente si ricorre alla fattura per prestazione occasionale la quale, prevede comunque, una ritenuta fiscale del 20%.

Vediamo come compilare una fattura per prestazione occasionale. Assicurarsi di avere a portata di mano, dopo aver effettuato la descrizione dell'oggetto della prestazione ed il periodo relativo andrà indicato il calcolo relativo all'imponibile della somma da percepire, il 20 % di ritenuta d'acconto relativa ed infine, il netto da pagare, (ossia la cifra che si riceve per la nostra prestazione lavorativa).

La compilazione di tutti i dati relativi, andrà effettuata su foglio di carta semplice.

La fattura per prestazione d'opera occasionale andrà stampata in duplice copia e firmata sia dal prestatore d'opera, che dal committente relativo. Ricordate di apporre la data e il luogo di fatturazione.

Non bisogna dimenticare:
se superate i 5.000 euro annui dovrete avvalervi di partita IVA , foglio di carta - dati fiscali prestatore d'opera e committente - marca da bollo.

Il prestatore di lavoro occasionale, non possedendo una posizione lavorativa aperta, il datore di lavoro – committente, dovrà versare la ritenuta d'acconto. Essendo prestatori d'opera occasionali, non si deve versare nulla all'INPS. Nella fattura andranno specificati i dati anagrafici, il codice fiscale, il domicilio del soggetto che emette fattura, l'importo pattuito e versato per la prestazione lavorativa effettuata. Nella fattura andrà dichiarato di non aver superato la soglia massima consentita per legge (generalmente 5.000 euro), andranno inseriti tutti i dati relativi del committente. Un altro dato importante che andrà inserito nella fattura per prestazione occasionale è quello che descrive la tipologia di lavoro svolto e la relativa durata dello stesso. Tale ricevuta andrà corredata di marca da bollo specifica da 1,81 euro.

Ricordiamo che la ritenuta d’acconto è sempre più diffusa come mezzo di pagamento, per le nuove generazioni sempre più spesso lavorare significa collaborare con più soggetti durante l’anno per piccole mansioni limitate nel tempo e nell'impegno richiesto, spesso legate a specifici compiti e obiettivi.

In questi casi spesso i datori di lavoro propongono ai collaboratori sprovvisti di partita IVA (per collaborazioni che non superino i 5.000 euro di compenso lordo nell'anno) la formula della collaborazione occasionale, comunemente chiamata con ritenuta d’acconto.

Come funziona la collaborazione occasionale con ritenuta d’acconto
Molto semplicemente con questo strumento il collaboratore esegue un lavoro per il committente come se fosse un professionista (pur non avendo una partita IVA), per un periodo di tempo e un compenso limitati. La natura del rapporto deve essere appunto occasionale e non c’è nel rapporto lavorativo la natura di subordinazione.

Dal punto di vista pratico, al momento del pagamento della prestazione, il collaboratore deve produrre una ricevuta al committente che provvederà a pagarla.

Spesso è il committente che fornisce un modello di ricevuta che il collaboratore firma e consegna: si tratta di un ribaltamento di ruoli, come spiegato sopra, dovuto solo al fatto che il collaboratore non sa fattivamente come produrre la ricevuta ma formalmente è il collaboratore che consegna la ricevuta al committente come se fosse una fattura.

Dal punto di vista fiscale la ricevuta conterrà:

la data e il numero della ricevuta;

i dati del collaboratore (incluso codice fiscale);

i dati del committente (inclusi codice fiscale e partita iva);

la descrizione dell’attività prestata;

l’importo del compenso lordo;

l’importo della ritenuta d’acconto;

l’importo netto (lordo - ritenuta d’acconto).

Una volta consegnata la ricevuta al committente, questo provvede a:

versare l’importo netto al collaboratore (preferibilmente con una forma tracciabile, ex. bonifico bancario);

versare l’importo della ritenuta d’acconto allo Stato per conto del collaboratore entro il 15 del mese successivo alla data della ricevuta.

Quindi:

la spesa totale del committente è pari al lordo;

l’incasso del collaboratore è pari al netto;

lo Stato prende subito il 20% di tasse del collaboratore attraverso il committente. Al momento della
dichiarazione dei redditi dell’anno successivo, a seconda dei redditi totali e di eventuali deduzioni e detrazioni, lo Stato potrà:

nel caso in cui non fosse dovuta, restituire al collaboratore parte o l’intera percentuale pagata (sotto forma di credito di imposta);

nel caso in cui le tasse dovute eccedessero il 20% già versato, chiedere un conguaglio.


martedì 15 settembre 2015

Lavoro: le figure professionali più richieste


Nei bollettini sul barometro del lavoro pubblicati periodicamente da ClicLavoro emerge che a determinare le caratteristiche dei “nuovi profili” richiesti dalle aziende per l’immediato futuro sono la necessità di migliorare le performance produttive e di vendita, oltre che gestionali, assieme alla ricerca di nuovi mercati e il presidio più efficace di quelli tradizionali.

Le professioni più richieste diventano perciò:
• profili commerciali (dagli export manager agli agenti di commercio, sono il 36,4% le aziende che hanno ricercato tali profili)
• tecnici (32,4%)
• amministrativi  (31,4%)
• ingegneri (25,4%)
• esperti in comunicazione e nuovi media (il 12,2% delle aziende ha ricercato tali profili)
• informatici, sistemisti e programmatori (10,1%).

I lavori che offriranno i maggiori sbocchi occupazionali nel prossimo futuro in base ad un'analisi del mercato del lavoro e dell'evoluzione della società.

In un periodo in cui il mondo del lavoro si presenta quanto mai incerto sapersi “inventare” un mestiere può rappresentare l’idea vincente. Immaginando quelle che potrebbero essere le professioni del futuro è lecito ipotizzare una crescente influenza delle tecnologie, nonché un loro sviluppo.

Tra i settori che potrebbero offrire nei prossimi anni le maggiori opportunità di lavoro c’è il settore delle bio-tecnologie, dunque potrebbe essere una buona idea per le prossime generazioni puntare ad ottenere lauree e dottorati in questo settore, con un occhio alla nano-medicina.

ICT
Ovviamente, diventando le tecnologie sempre più centrali, opportunità di lavoro certamente non mancheranno per:
gli analisti per la sicurezza informatica;
gli specialisti in R&S;
sviluppatori software;
Big data e open data analyst;
data scientist;
esperto in Computer Forensic;
grafico web;
consulente web analytics;
IT Architect
esperti in intelligenza artificiale.

Tra le evoluzioni della nostra società, insieme allo sviluppo delle tecnologie, non si può non citare l’aumento dell’età media. Un fenomeno che lascia pensare a possibili sbocchi occupazionali per i responsabili dei servizi per la terza età. Tra i lavoratori di oggi cresce inoltre l’esigenza di ritrovare il proprio benessere psicofisico e di combattere lo stress, in questo giocheranno un ruolo sempre più centrale i lifecoach.

In un’ottica di globalizzazione è possibile inoltre immaginare che figure come i legali specializzati nel diritto internazionale diventino sempre più ricercati dalle aziende. Per essere competitive le aziende dovranno inoltre essere in grado di analizzare e predire l’andamento del business e dei mercati, anche con il supporto di consulenti di mercati emergenti ed esperti in modelli matematici e algoritmi predittivi di tipo avanzato. Anche gli esperti in logistica assumeranno un ruolo sempre più centrale nelle strategie di business delle imprese.

Tra le nuove professioni che potrebbero nascere nel prossimo futuro possiamo immaginare:
manager dei rifiuti, capace di allocare e riutilizzare in modo più intelligente le risorse;
ingegnere delle risorse con ampia conoscenza delle fonti di energia rinnovabili;

Chief Digital Officer, un manager capace di digitalizzare davvero un’impresa, rendendola più efficiente e funzionale;

manager del tempo, per un suo utilizzo ottimale;

esperti nella cancellazione dei dati, con l’avanzare della digitalizzazione al momento della dismissione di un’attività sarà cruciale sapere eliminare in maniera corretta i dati che non devono essere diffusi.

Le figure professionali che si ricercano con più frequenza sono resident engineer, technical sales, product manager, e controller. Per i primi due profili, area tecnico-commerciale e produzione ci orientiamo verso laureati in Ingegneria preferibilmente con indirizzo meccanico o elettronico dotati di autonomia organizzativa e capacità di lavorare in team. Per gli inserimenti nelle aree marketing-commerciali e gestionale-amministrativo ci rivolgiamo a laureati in economia e ingegneria gestionale che abbiano capacità di analisi, dinamismo e flessibilità. Inseriamo inoltre, nei nostri settori e servizi laureati in discipline umanistiche, lingue, psicologia, sociologia, scienze della comunicazione.

Le imprese sono sempre più alla ricerca di personale qualificato, in possesso di competenze specializzate. Nel dettaglio i settori che offrono maggiori opportunità professionali in Italia sono:
• Technology/Information Technology (26.72% sul totale di offerte di lavoro attualmente disponibili sul mercato);
• Commerciale & Vendite (14.09%);
• Consulenza & Libera Professione (12.05%);
• Neolaureati in Diritto, Economia, Ingegneria, Indirizzi Tecnici (9.92%);
• Engineering & Manufacturing (7.03%);
• Retail (6.90%);
• Marketing & Comunicazione (4.28%);
• Sanità & Life Sciences (4.19%).

Più in dettaglio le 10 posizioni più ricercate, secondo Isfol, saranno:
• addetto ai servizi di pulizia, igienici, di lavanderia ed assimilati;
• addetto alle vendite all’ingrosso;
• addetto alla pulizia ed all’igiene degli edifici;
• ingegneri;
• personale non qualificato servizi turistici;
• specialisti in scienze giuridiche;
• specialisti dell’educazione e della formazione e consulenti della formazione;
• personale qualificato servizi sanitari;
• tecnici finanziari/assicurativi.

La Corte di Cassazione: non esiste l’ obbligo di lavorare il giorno festivo



Nessuno può essere obbligato a lavorare nei giorni festivi ad eccezione personale dipendente di istituzioni sanitarie pubbliche o private. Il datore di lavoro non può costringere un dipendente a lavorare in una giornata festiva infrasettimanale.

«Nessun datore di lavoro può obbligare un dipendente a prestare servizio in un giornata festiva collocata in mezzo alla settimana». E’ netto il giudizio della Cassazione che ha respinto il ricorso della ditta piemontese Loro Piana costretta anche a pagare le spese processuali per il suo ricorso.

Ed è illegittima la sanzione disciplinare che punisce il suo rifiuto. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione e accogliendo il ricorso di un'addetta alle vendite, multata nel 2004 per non essersi presentata al lavoro il giorno dell'Epifania. Ricordiamo che l’azienda tessile famosa in tutto il mondo aveva sanzionato una commessa che non si era presentata al lavoro il giorno dell’Epifania. La multa era stata giudicata illegittima dal Tribunale di Vercelli e dalla Corte d’Appello di Torino. Ora il principio è stato sancito anche dai giudici supremi.

Anche la Corte d'Appello di Torino aveva dato ragione alla lavoratrice. La Cassazione  ha chiuso risolutivamente la questione, ribadendo che il lavoratore può prestare servizio durante le festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze religiose o civili solo se c'è l'accordo con il datore di lavoro.

“L'importanza di questa sentenza - spiega Barbara Grazioli, responsabile dell'ufficio vertenze Cgil Vercelli Valsesia - risiede nel principio secondo il quale il riposo per le festività, come il riposo domenicale, non hanno una semplice funzione di ristoro, bensì un'importante fruizione di tempo libero qualificato”.

La Cassazione ha ribadito che solo per il personale dipendente di istituzioni sanitarie pubbliche o private sussiste l'obbligo della prestazione lavorativa durante le festività per esigenze di servizio e su richiesta datoriale.

Il fatto risale al 6 gennaio di undici anni fa. La commessa non si era presentata al lavoro ed era quindi stata sanzionata. Per l’azienda aveva infatti disatteso ciò che aveva chiesto ai proprio dipendenti. Ovvero di prestare servizio nei giorni festivi di apertura del punto vendita di Romagnano: oltre all’Epifania, anche Santo Stefano, 25 aprile e primo maggio.

Il Tribunale di Vercelli, nel 2008, aveva accolto il ricorso dell’addetta alle vendite: la multa inflittale era stata giudicata illegittima perché il datore di lavoro non poteva trasformare in modo unilaterale la festività in giornata lavorativa. Anche la Corte d’Appello di Torino aveva dato ragione alla lavoratrice, rimarcando la sistematicità della violazione del divieto al riposo della stessa azienda, per di più ripetuta su più giorni.

La Cassazione, nei giorni scorsi, ha messo fine una volta per tutte alla questione, rigettando il ricorso della azienda tessile che da un paio d’anni è stata acquisita dal gruppo francese del lusso Lvmh. La sentenza 16592/2015 ribadisce infatti che «il lavoratore può prestare servizio durante le festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze religiose o civili solo se c’è accordo con il datore di lavoro e non può essere obbligato».

In una fase di liberalizzazioni, crisi e debolezze sul fronte sindacale questa vicenda da respiro alle richieste dei lavoratori che osano sfidare i loro datori di lavoro sulla base di ben precise normative da far rispettare in considerazione anche delle esigenze individuali.

lunedì 14 settembre 2015

Come ottenere un aumento di stipendio: ecco dei consigli utili



Per qualcuno equivale a un riconoscimento, per altri a una necessità, ma per tutti è una delicata richiesta da presentare. L’aumento di stipendio rappresenta una vera e propria chimera per la maggior parte dei lavoratori italiani. Ottenerlo non è facile, ma neppure impossibile. Almeno secondo gli esperti di Hays Executive, la divisione del Gruppo Hays specializzata nel recruitment di figure dirigenziali, che hanno stilato una lista di consigli per chi vorrebbe chiedere (e ottenere) un aumento in busta paga.

“Un colloquio con il proprio responsabile non è mai facile da affrontare, soprattutto se il tema dell’incontro è il proprio livello salariale. Ansia ed emotività potrebbero infatti giocare un brutto tiro, facendoci apparire titubanti, indecisi o peggio ancora avidi e arrivisti", ha affermato Erika Perez, responsabile della divisione Hays Executive.

"Per convincere il proprio dirigente - assicura - basta adottare piccoli e semplici accorgimenti.

Spiegare con casi concreti perché si pensa di meritare un aumento, per esempio, può essere più efficace che pronunciare il solito ritornello del 'dopo tanti anni mi merito un aumentò.

Quali sono i suggerimenti per convincere il responsabile per ottenere il tanto desiderato aumento di stipendio?:

Prima di affrontare la negoziazione è necessario definire bene i propri punti di forza, i risultati raggiunti e i problemi risolti. Riportare casi concreti può rappresentare la chiave di volta per vedere la propria richiesta realizzata. Avere già in mente, poi, la cifra da richiedere, permette di mantenere le redini della trattativa.

Mostrarsi ben disposti ad avere una maggiore mole di lavoro o responsabilità può essere efficace per provare ad ottenere l’aumento tanto desiderato.

Valutare le condizioni economiche dell’azienda. Se la propria azienda viaggia in cattive acque e alcuni colleghi rischiano il posto di lavoro, forse non è proprio il momento giusto per avanzare richieste. Meglio attendere tempi migliori per evitare un no quasi scontato o gaffe con chi condivide la nostra scrivania.

Raccogliere dati su posizioni simili. Prima di chiedere un aumento, può essere utile consultare siti o riviste di settore per conoscere meglio lo stato del mercato del lavoro in Italia e capire se il proprio stipendio corrisponde o meno alla media nazionale.

Pensare bene a come giustificare la propria richiesta e stabilire l’ammontare della cifra da raggiungere. Prima di affrontare la negoziazione è necessario definire bene i propri punti di forza, i risultati raggiunti e i problemi risolti: riportare casi concreti può rappresentare la chiave di volta per vedere la propria richiesta realizzata. Avere già in mente, poi, la cifra da richiedere, permette di mantenere le redini della trattativa.

Trovare il momento giusto per parlare con il proprio capo. Mai improvvisare un incontro per parlare di una questione delicata come il proprio stipendio. È consigliabile chiedere per tempo un appuntamento e, sotto data, se si percepisce che il superiore sta affrontando un periodo di particolare stress, spostare il meeting. Parlare con un capo mal disposto di certo non aiuta.

Curare l’aspetto. Anche l’occhio vuole la sua parte e, nonostante l’abito non faccia il monaco, i modi di porsi sono fondamentali. Vestirsi in modo semplice, ma curato, evitando l’eleganza fuori luogo (soprattutto quando nel resto del tempo si è piuttosto casual), può fare la differenza.

Tenere a bada le emozioni. Mantenere un certo self control, mentre si è a colloquio con il capo, è fondamentale per esporre le proprie ragioni con successo. Evitare, quindi, lamentele o rivendicazioni, ma soprattutto va sempre tenuto a mente che gli aumenti di salario vengono concessi a chi se li merita e non a chi ha bisogno di denaro.

Chiedere al responsabile cosa si può fare di diverso. Mostrarsi ben disposti ad avere una maggiore mole di lavoro o responsabilità può essere efficace per provare ad ottenere l’aumento tanto desiderato.

Ringraziare comunque il superiore per il tempo e l’attenzione dedicati Qualunque sia la risposta ricevuta, scrivere un’email di ringraziamento al proprio capo al termine del colloquio può rivelarsi una mossa vincente. Oltre ad essere segno di buona educazione, è prova della propria maturità e responsabilità soprattutto se non si è ottenuto l’aumento sperato.

Non vantarsi con i colleghi del risultato ottenuto. Confrontare le buste paga non è uno sport da
praticare. Se il risultato è arrivato, meglio evitare di vantarsi in pubblico: si potrebbe causare malcontento tra i colleghi, oltre che a mettere nei guai il 'boss' con un’ondata di richieste di aumento dal resto dello staff.

Non deludere in alcun modo la fiducia dei superiori. Una volta raggiunto l’obiettivo tanto agognato, mai allentare la presa: meglio mostrarsi ancora più disponibili. Ne va della propria credibilità e professionalità.

E’ importante mettersi nei panni del vostro superiore,  il quale vi paga per svolgere un lavoro per lui e se volete aumentare lo stipendi,  bisogna giustificare i motivi per cui dovrebbe investire una quota maggiore del suo budget per il personale su di voi.

Siate quindi pronti ad esporre in modo convincente i vostri punti di forza, documentando i successi ottenuti.

È probabile che il vostro superiore non sia la persona che prenderà la decisione finale, quindi è importante che l'argomentazione sia chiara e concisa perché possa ottenere l'approvazione della catena di comando.

Documentatela utilizzando la forma della presentazione. Il vostro superiore forse non si ricorderà del vostro operato, ma una presentazione di fatti e cifre rimane più impressa di una semplice esposizione discorsiva.

Ricordate che concedere un aumento di stipendio non è una questione di correttezza. Si tratta di una decisione aziendale come tutte le altre e il vostro superiore vorrà sapere che cosa otterrà in cambio di questo investimento supplementare.

A volte esistono motivi validi per cui non è possibile ottenere un aumento di stipendio, come ad esempio le condizioni economiche del settore. Ma non si tratta solo di soldi: il fatto che il vostro superiore vi abbia negato un aumento di stipendio non significa che non possiate chiedere in alternativa vantaggi di natura non finanziaria.

Anche se decidete di cercare un altro lavoro, non assumete un atteggiamento astioso: non è detto che le vostre strade non si incontrino ancora in futuro.

Ovviamente evitare di confrontare le buste paga. Se il risultato è arrivato, meglio evitare di vantarsi in pubblico: si potrebbe causare malcontento tra i colleghi, oltre che a mettere nei guai il boss con un’ondata di richieste di aumento dal resto dello staff.

Una volta raggiunto l’obiettivo, mai allentare la presa: meglio mostrarsi ancora più disponibili. Ne va della propria credibilità e professionalità.

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