mercoledì 29 giugno 2016

Indebito Inps : richiesta di restituzione delle somme percepite


Accade spesso ai pensionati e a chi spetta assegni di disoccupazione o di invalidità e altro vedersi recapitare dall’Inps comunicazioni relative alla restituzione di somme erogate ma ritenuti successivamente, per vari motivi, non dovuti. Nella maggior parte dei casi, le pretese dell’Istituto previdenziale si fondano su motivi reddituali, cosicché può succedere che, a distanza di molti anni e successivamente all'erogazione dell’indennità, l’Inps verifica che il reddito è maggiore di quello indicato dalla legge e chiede la ripetizione di quanto corrisposto.

I pagamenti erogati ma non dovuti riguardano:

prestazioni prive dei necessari requisiti;

prestazioni incumulabili o incompatibili con altre prestazioni;

prestazioni non dovute per limiti reddituali;

prestazioni incumulabili con redditi da lavoro;

prestazione erogate dopo il decesso del pensionato;

altro.

Le cause dei pagamenti indebiti possono essere attribuiti ad un errore dell’INPS o ad un comportamento omissivo, il fenomeno è indice di una qualità del servizio e di meccanismi di controllo non certo impeccabili. Inoltre la mancata riscossione e le continue sanatorie assumono una connotazione pedagogica negativa, in un contesto sociale caratterizzato da un basso senso civico, e penalizzano quei pensionati che tengono sempre comportamenti corretti e responsabili o che si vedono recuperare prontamente il proprio debito.

In materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, la ripetizione dell’indebito è ammessa nei soli casi di non addebitabilità al percepiente dell’erogazione non dovuta, per come disposto dall’art. 52 L. 88/89.

La norma citata così dispone: “Le pensioni a carico dell’ assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, delle gestioni obbligatorie sostitutive o, comunque, integrative della medesima, della gestione speciale minatori, delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti, mezzadri e coloni, nonché la pensione sociale, di cui all’articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, possono essere in ogni momento rettificate dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione.

La legge prevede che la sanatoria dove prevista opera in relazione alle somme corrisposte in base a formale, definitivo provvedimento del quale sia data espressa comunicazione all’interessato e che risulti viziato da errore di qualsiasi natura imputabile all’ente erogatore, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato. L’omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione goduta, che non siano già conosciuti dall’ente competente, consente la ripetibilità delle somme indebitamente percepite.

E’ bene ricordare che l’Inps procede annualmente alla verifica delle situazioni reddituali dei pensionati incidenti sulla misura o sul diritto alle prestazioni pensionistiche e provvede, entro l’anno successivo, al recupero di quanto eventualmente pagato in eccedenza.

Dunque la norma esaminata, subordina la irripetibilità a due condizioni essenziali:
1) che il pagamento sia avvenuto sulla base di un provvedimento definitivo;
2) la mancanza di dolo dell’interessato;

La legge, inoltre stabilisce il termine di decadenza di un anno per intraprendere l’azione di recupero. Il termine decorre dall'effettiva conoscenza o dalla concreta possibilità di conoscenza degli elementi necessari alle operazioni di recupero.

Quindi nei casi in cui l’indebito consegua alla omessa o incompleta segnalazione, da parte dell’interessato, di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già a conoscenza dell’Istituto, L’INPS procede al recupero delle somme indebitamente percepite, senza alcuna limitazione temporale, in quanto la omissione viene in sostanza equiparata dal legislatore al dolo, il che ne consente in ogni caso la recuperabilità.

Ed infatti, i termini di prescrizione decennali del credito decorrono, qualora l’indebito sia da ricollegare a situazioni che devono essere comunicate dal pensionato, dalla data della comunicazione stessa.

Vengono ricompresi nel comportamento doloso – oltre ai casi di attività illecita dell’interessato, come tali rilevanti anche in sede penale con conseguente obbligo di denuncia all'Autorità giudiziaria – anche l’indicazione di dati incompleti o l’omissione di denuncia di circostanze incidenti sul diritto o sulla misura della prestazione, purché l’omissione non riguardi atti o fatti già noti all'Istituto.

Il dolo va escluso nei casi in cui l’indebita erogazione sia dovuta ad errore dell’Istituto.

Gli indebiti pensionistici vengono recuperati attraverso una delle seguenti modalità:

compensazione con crediti, relativi a quote di prestazioni pensionistiche o assistenziali, vantati nei confronti dell’Istituto;

recupero mediante trattenute sulle prestazioni pensionistiche;

pagamento, anche rateale, mediante rimesse in denaro.

Non possono essere oggetto di compensazione i crediti dovuti all'interessato a titolo di assegni al nucleo familiare, pensione o assegno sociale e i trattamenti di invalidità civile se non per somme erogate per titolo di prestazione identico a quello per il quale deve essere operata la compensazione.

Il recupero delle somme indebitamente erogate può essere operato indistintamente su tutte le prestazioni pensionistiche di cui il debitore è titolare al momento della notifica dell’indebito.

Devono, comunque, essere rispettati i seguenti limiti:

l’ammontare delle trattenute sulle prestazioni pensionistiche deve essere limitato ad un quinto dell’importo della prestazione medesima;

il recupero sulle prestazioni pensionistiche deve far salvo in ogni caso l’importo corrispondente al trattamento minimo;

le somme da recuperare non possono essere gravate da interessi salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato;

nel caso in cui il debitore sia titolare di più trattamenti pensionistici la trattenuta di un quinto deve essere operata su ciascun trattamento, fermo restando il limite del trattamento minimo, che deve essere salvaguardato sul totale delle prestazioni.

Cosa deve fare il cittadino quando riceve una richiesta di rimborso?

Occorre innanzi tutto rivolgersi ad un avvocato previdenzialista di modo che possa valutare la possibilità o meno di contestare una richiesta di indebito. A questo punto vanno considerati alcuni punti importanti da tenere in considerazione.

Innanzi tutto occorre chiarire che le richieste di indebito sono soggette a prescrizione decennale, ossia l’Inps ha 10 anni di tempo per poter richiedere al cittadino la restituzione di somme indebitamente percepite. Fa eccezione al regime di prescrizione decennale solo la richiesta contributiva per cui l’Inps ha cinque anni di tempo per poter richiedere il pagamento di contributi non versati.

Altro punto da valutare sono le richieste di restituzione per indebiti reddituali. La normativa attuale prevede che l’Inps paghi le prestazioni per l’anno in corso e l’anno seguente provveda a richiedere i dati reddituali e sulla base di tali dati comunicati, l’Inps procede ad un conguaglio. Sovente però capita che l’Inps, dopo tale comunicazione, provvede a chiedere somme erogate. Dunque, per evitare che tali richieste di restituzione pervengano dopo un numero di anni spropositati l’art. 13 della legge 412 del 1991 ha previsto che l’Inps, salvo il dolo del percipiente, ha un anno di tempo dalla comunicazione dei dati reddituali per poter richiedere indietro le somme indebitamente percepite.

Concludendo, in presenza delle condizioni sopra evidenziate nessuna azione di recupero può essere operata dall'Istituto vigendo il principio generale di non ripetibilità delle somme in mancanza di dolo dell’assicurato, e, anche quando dovesse accertarsi la legittimità dell’azione di recupero dell’INPS, si può eccepire eventualmente l’intervenuta prescrizione del diritto al recupero delle somme, operando in tali casi la prescrizione decennale.



martedì 28 giugno 2016

Lavoro agile e smart working 2016: le differenze



Lo smart working (lavoro agile) è una prestazione di lavoro subordinato prestata, parzialmente, all’interno dei locali aziendali e dietro i soli vincoli di orario massimo desunti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Ovvero, il telelavoro, il papà dello smart working, è andato in soffitta, e si apre una nuova era. Almeno dal punto di vista delle tutele, perché - come riportano i dati dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano - quasi il 50% delle grandi aziende sta già sperimentando questo tipo di prestazione.

Sono diversi gli aspetti innovativi dello smart working rispetto al telelavoro, di cui non si applicano né le norme né i contratti collettivi. Nel lavoro agile il lavoratore ha la possibilità di utilizzare strumenti tecnologici propri ovvero assegnatigli dal datore di lavoro. E’ quest’ultimo, in tal caso, il soggetto responsabile dei rispettivi sicurezza e funzionamento.

Nel telelavoro, di norma, è il datore di lavoro il responsabile della fornitura, dell’installazione e della manutenzione degli strumenti necessari, a meno che il telelavoratore non utilizzi strumenti propri.
Qualora il telelavoro venga svolto regolarmente, il datore di lavoro è responsabile della compensazione o copertura dei costi che derivano direttamente dal lavoro. Il datore di lavoro, infine, deve fornire al telelavoratore i supporti tecnici richiesti per compiere la prestazione lavorativa.

Punto comune tra telelavoro e smart working è la volontarietà del datore di lavoro e del dipendente. Il telelavoro può costituire l’esito di un “successivo impegno assunto volontariamente”; lo smart working è sempre subordinato alla conclusione di un accordo scritto tra le parti, che regola le modalità con cui svolgere il servizio prestato al di fuori dei locali aziendali, anche con attinenza alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti adoperati dal lavoratore.

L’accordo può essere a tempo determinato o indeterminato; se indeterminato il recesso può verificarsi dietro un preavviso che non  deve essere inferiore a 30 giorni. In presenza di un giustificato motivo, invece, se l’accordo è a tempo determinato, le parti possono recedere prima della scadenza del termine, mentre possono farlo senza preavviso se l’accordo è a tempo indeterminato.

l 18 febbraio 2016 è stato presentato la legge denominata “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” , che dal 25 maggio 2016 è all'esame delle Commissioni parlamentari Il capo II è appunto interamente dedicato al c.d. lavoro agile, che come noto è uno strumento e non una tipologia contrattuale . Finora infatti la nostra normativa non aveva regolamentato lo smart working, mentre  il telelavoro è regolamentato per legge solo nelle pubbliche amministrazioni. Ma da qualche anno sia il telelavoro sia lo smart working si sono diffusi nel settore privato in diverse grandi aziende sulla base di accordi collettivi, a cui in parte si rifà il testo in esame. La modalità di svolgimento della prestazione svolta dal lavoratore agile si differenzia da quella del telelavoro che si caratterizza perché l’attività lavorativa   “viene regolarmente svolta al di fuori dei locali” dell’azienda. Ci si chiede  inoltre se l’espressione “lavoro agile” può essere considerata una traduzione efficace dell’inglese “smart working”, molto utilizzata di recente. Lo “smart working” ed il “lavoro agile”  non paiono comunque essere “perfetti equivalenti”. Il loro utilizzo si presta a sottolineare aspetti diversi di un modello di lavoro del futuro. Nel caso di “lavoro agile” si sottolinea un’indipendenza attiva, ma parziale, legata ai tempi di vita e di lavoro, nel caso di “smart working” si esprime invece un lavoro più caratterizzato dalle competenze della persona.

Conciliare, innovare e competere. Sono questi i tre diversi obiettivi, apparentemente antitetici, dello smart working che si configura come un nuovo approccio all'organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quelle dell’impresa.

Lo smart working implica un nuovo modello di organizzazione del lavoro, in cui sono fondamentali questi tre elementi:

Risorse umane. È necessaria una nuova ottica da parte del personale che deve essere pronto a rivedere il proprio ruolo in un’ottica di flessibilità e disponibile a creare maggiori sinergie con il management.

Tecnologia.  Le modalità di lavoro sono “agili” e tecnologicamente avanzate e l’accesso ai dati aziendali deve essere possibile da remoto, consentendo forme di lavoro più efficienti e altamente personalizzate.

Monitoraggio costante. È indispensabile un’analisi dei risultati del lavoro per valutare l’efficienza del personale a seguito dell’introduzione del nuovo modello organizzativo del lavoro.
Quali sono le opportunità e le possibili criticità? Per il lavoratore un maggiore controllo nel bilanciare il rapporto lavoro-famiglia e i ritmi lavorativi con quelli giornalieri, implica un aumento della propria soddisfazione lavorativa con ripercussioni positive anche in termini di produttività e contenimento dei tassi di assenteismo. Dall’altro lato, gli aspetti negativi riguardano un minor coinvolgimento nelle dinamiche di apprendimento del know-how attraverso l’osservazione dei colleghi e l’isolamento e la mancata integrazione rispetto alla “squadra” di lavoro.

Si tratta di aspetti che possono essere valutati e risolti in sede di definizione dell’organizzazione del telelavoro, specificando le modalità di coordinamento tra unità operativa e lavoratore. In particolare, la valutazione delle performance del telelavoratore è ancor più indispensabile in questo modello organizzativo. A tal fine risulta utile l’individuazione di indicatori o parametri obiettivi quali: numero email inviate, numero telefonate svolte, numero di clienti e la loro soddisfazione ecc.

E’ fondamentale per un positivo esito dello smart working il confronto costruttivo delle parti sociali sulle modalità organizzative e la comunicazione tra i soggetti coinvolti così come indicato nelle disposizioni comunitarie.


domenica 26 giugno 2016

NASPI 2016 estesa per i lavoratori stagionali


Niente Naspi dimezzata per i lavoratori stagionali, penalizzati dall'entrata in vigore dei nuovi ammortizzatori sociali del Jobs Act: a chiedere al Governo di intervenire sono tre risoluzioni discusse in commissione Lavoro alla Camera, presentate da diversi schieramenti politici. Il punto è il seguente: con la vecchia “Aspi”, l’assicurazione per l’impiego introdotta dalla Riforma Lavoro 2012, gli stagionali che lavoravano fino a sei mesi l’anno ne percepivano altrettanti di sussidio.

La NASPI, invece, funziona come per i dipendenti a tempo indeterminato, prevedendo un numero di mensilità pari alla metà delle settimane lavorate nell’ultimo quadriennio. Ma non si possono conteggiare eventuali periodi lavorativi che abbiano già dato luogo a precedenti trattamenti. Risultato: un lavoratore stagionale che lavora sei mesi nel 2016 prende tre mesi di NASPI anche se ha precedenti periodi di lavoro negli anni scorsi e ha utilizzato l’ASpI di cui aveva diritto.

La norma contestata è quella relativa all’articolo 5 del Dlgs 22/2015 (il decreto legislativo del Jobs Act che introduce i nuovi ammortizzatori sociali),  il quale prevede le regole sopra esposte per il calcolo della NASPI. Il successivo Dlgs 148/2015 prevede una fase transitoria per i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali, limitatamente alle cessazioni dal lavoro intervenute tra il 1° maggio e il 31 dicembre 2015, che abbiano dato luogo a eventuali prestazioni di disoccupazione ordinaria con requisiti ridotti e mini-ASpI 2012 fruite negli ultimi quattro anni. Quindi, in questi casi si possono conteggiare anche i periodi che hanno già dato luogo a prestazioni di sostegno al reddito.

Nell’ambito del dibattito sulle tre mozioni che chiedono di aumentare la NASPI per ilavoratori stagionali, la Commissione Lavoro ha ascoltato i sindacati confederali, i quali hanno sottolineato come le regole sulla NASPI penalizzano quasi 300mila stagionali del settore turismo e termale che rischiano di trovarsi un sussidio dimezzato.

«La stagionalità della domanda turistica è un male cronico del nostro sistema», la Naspi comporta che a pagare lo scotto di un deficit strutturale siano i soli lavoratori e le imprese che della professionalità di questi lavoratori si avvalgono», con il rischio di far fallire «interi sistemi turistici locali (soprattutto al Sud)».

Ricordiamo infatti che gli stagionali, a seguito dell'entrata in vigore del decreto Jobs Act per il riordino delle norme sugli ammortizzatori sociali, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, ha previsto nuovi requisiti e condizioni per la concessione della cassa integrazione ordinaria e straordinaria, i fondi di solidarietà, l'indennità di disoccupazione Naspi per 24 mesi anche dopo il 2016, l'assegno di ricollocazione ASDI per i disoccupati che non trovano ancora lavoro dopo 6 mesi dal termine dell'indennità, e per i lavoratori stagionali NASPI solo una salvaguardia per l'anno precedente e solo per il settore del turismo.

Perché i lavoratori stagionali sono stati penalizzati dalla NASPI? L'introduzione a partire dal 1° maggio della nuova NASPi ha fatto nascere non pochi malumori tra i lavoratori stagionali per non parlare delle associazioni di categoria al quanto perplesse dal fatto che il nuovo metodo di calcolo utilizzato per determinare la durata dell'indennità e dai requisiti di accesso resi ancor più astringenti, abbiano fortemente penalizzato i lavoratori, specialmente quelli del settore turismo dal momento che questa tipologia contrattuale è quella maggiormente utilizzata per il lavoro estivo ed invernale.

Infatti, in base a quanto sancito dal decreto legislativo 22/2015, il diritto alla NASpI è per i disoccupati che nei 4 anni precedenti alla data di cessazione del rapporto di lavoro, possono vantare almeno 13 settimane di contributi versati e almeno 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi precedenti lo stato di disoccupazione.

Per cui se con la mini-aspi gli stagionali potevano contare su 6 mesi di disoccupazione a fronte di 6 mesi di lavoro, oggi, con la NASPi tale periodo è ridotto a 3 mesi, perché sulla base dell'articolo 5 della legge, l'indennità spetta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contributi versati negli utlimi 4 anni.

Per la Naspi stagionali, il decreto attuativo in materia di riordino ammortizzatori sociali, ha previsto una salvaguardia per il solo anno 2015, per i cd. lavoratori stagionali ma esclusivamente del settore turismo.

Cosa prevedeva la nuova salvaguardia per gli stagionali? Prevedeva che per i soli eventi di licenziamento involontario verificati dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2015, i lavoratori stagionali del settore turismo potevano, ai fini di calcolo NASPI e durata dell'indennità, non computare i periodi di mini aspi o di disoccupazione con requisiti ridotti, percepiti negli ultimi 4 anni.


Lavoro: malati gravi diritto al part time




Ai lavoratori affetti da patologie oncologiche o da altre gravi patologie cronico-degenerative, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, è riconosciuto il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

Ai lavoratori affetti da malattie gravi, come le patologie oncologiche per i quali residui una ridotta capacità lavorativa o altre patologie cronico-degenerative, il datore di lavoro non può rifiutare il passaggio dal rapporto d lavoro a tempo pieno al part-time. Questo vale tanto nel privato quanto nel pubblico, come previsto dalla Legge Biagi (Dlgs 276/2003) e dal più recente Dlgs 81/2015 attuativo del Jobs Act.

La trasformazione da tempo pieno a tempo parziale può essere verticale, nel caso in cui la riduzione dell’orario di lavoro è prevista in relazione all’orario normale giornaliero, orizzontale, quando l’attività lavorativa viene svolta a tempo pieno ma limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno.

Su richiesta del lavoratore il rapporto a tempo parziale deve essere trasformato nuovamente in rapporto a tempo pieno. Il ministero del Lavoro, con la circolare 40/05, ha precisato che la richiesta del lavoratore non può essere negata anche se possono essere fatte valere contrastanti esigenze aziendali e che le parti si dovranno accordare sul nuovo orario di lavoro e sulla sua collocazione temporale, che può essere di tipo orizzontale, verticale o misto ma che deve prioritariamente tenere in considerazione le specifiche esigenze del lavoratore.

Nel decreto attuativo del Jobs Act viene inoltre prevista la possibilità, per il lavoratore che necessita di cura connesse a malattie gravi, di richiedere, in alternativa al passaggio al part-time, la fruizione del congedo parentale.

L’obiettivo generale della norma è tutelare la salute dei lavoratori ma anche la loro professionalità e la partecipazione al lavoro come importante strumento di integrazione sociale e di permanenza nella vita attiva. Per questi motivi la richiesta del lavoratore affetto da invalidità rappresenta una potestà che non può essere negata sulla base di contrastanti esigenze aziendali.

Il datore di lavoro può però pattuire con il lavoratore la quantificazione della riduzione dell’orario di lavoro e la scelta il part-time orizzontale o verticale. Nello stabilire tali opzioni organizzative, tuttavia, dovrà essere data priorità alle esigenze individuali specifiche del
lavoratore e non a quelle dell’azienda.

Il rapporto di lavoro potrà poi essere successivamente convertito nuovamente in tempo pieno su richiesta del lavoratore, si tratta di un suo diritto soggettivo, in caso di miglioramenti nello stato di salute.

Non vi è, invece, alcun diritto di chiedere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale se la malattia colpisce il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice e questi abbiano necessità di assistenza continua. L’articolo 8, comma 4, del Dlgs 81/15 stabilisce, infatti, che il lavoratore dipendente ha semplicemente la priorità nella trasformazione del contratto, da tempo pieno a tempo parziale, in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice.

Tale priorità può essere fatta valere anche se il lavoratore o la lavoratrice assiste una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa definita grave ai sensi dell’Legge 104/92 e che abbia, quindi, necessità di assistenza continua.

E' utile ricordare che l’Inps, con la circolare 136/03 ha considerato sufficiente un’unica certificazione del curante che attesti la necessità di trattamenti ricorrenti comportanti incapacità lavorativa e che li qualifichi l’uno ricaduta dell’altro. Gli interessati devono inviare la certificazione prima dell’inizio della terapia, fornendo anche l’indicazione dei giorni previsti per l’esecuzione. A tale certificazione dovranno far seguito, sempre a cura degli interessati, periodiche dichiarazioni della struttura sanitaria riportanti il calendario delle prestazioni effettivamente eseguite, le sole che danno titolo all’indennità.


sabato 25 giugno 2016

Riforma pensioni: pensione anticipata torna la penalizzazione



Torna, a partire dal 2018, la penalizzazione sull'assegno previdenziale per i lavoratori che escono in anticipo dal mondo del lavoro, ovvero con meno di 62 anni di età. Per i lavoratori che maturino i requisiti per l’accesso alla pensione anticipata entro il 31 dicembre 2017, invece, non sono previste penalizzazioni anche se la prestazione previdenziale ha decorrenza successiva a tale data.

L’Anticipo pensionistico o l’Ape, la misura che dovrebbe garantire maggiore flessibilità in uscita ai lavoratori, e allo studio del governo e dei sindacati e rappresenta, al momento, una delle misure per smussare la rigidità della riforma Fornero e  sarà disponibile per tutti i lavoratori, sia autonomi che dipendenti, sia privati che statali. E’ quanto afferma il ministro Poletti intervenendo in ambito riforma pensioni. . A partire dal prossimo anno, quindi, potrebbe partire il progetto sperimentale dell’Ape, una sperimentazione che durerà soltanto 3 anni, fino al 2019 e che coinvolgerò i lavoratori nati tra il 1951 e il 1953,

La Legge di Stabilità 2015 (articolo 1, comma 113 della legge 190/2014) aveva infatti previsto un congelamento della decurtazione sulla pensione anticipata , introdotta della Riforma del 2011 Monti-Fornero, ma solo fino al 31 dicembre 2017. Così, dall’1 gennaio 2015, è stata eliminata per coloro che maturano il requisito contributivo pieno entro la fine del 2017 la decurtazione alla pensione anticipata, che era stata prevista dalla Riforma delle Pensioni Fornero, pari all’1% per ogni anno di anticipo rispetto all’età minima di 62 anni e del 2% per ogni anno prima dei 60 anni.

Per ora non sono in vista nuove proroghe alla misura temporanea che era stata pensata per compensare, almeno in parte il taglio delle quote retributive dell’assegno per i lavoratori che accedono alla pensione con la massima anzianità contributiva – 42 anni e sei mesi per gli uomini e 41 anni e sei mesi per le donne – prima dei 62 anni di età.

Dunque, a meno di nuovi interventi normativi, dal 1° gennaio 2018 scatterà la decurtazione che però, ricordiamo, vede coinvolte le sole quote dell’assegno calcolate con il sistema retributivo.
Ricordiamo infine che la Legge di Stabilità 2016 ha reso retroattiva l’abolizione del taglio previsto dalla Riforma Fornero sulla pensione anticipata, riconoscendo il trattamento pieno anche ai lavoratori che ritiratisi prima dal lavoro nel periodo 2012-2014. Dal 2016 questi pensionati percepiranno un assegno più alto (non più decurtato in base all’età in cui si sono ritirati) ottenendo anche un rimborso di quanto finora trattenuto. La misura riguarda circa 25mila assegni, che dal 2016 avranno una pensione più alta fino al 10%.

Per le donne dipendenti che hanno maturato 57 anni e 3 mesi di età e 35 di contributi (58 anni e 3 mesi per le autonome) entro il 2015, è ancora aperta l'opzione donna, cioè la possibilità di andare in pensione trascorsi la finestra mobile o anche successivamente a fronte però del calcolo dell'assegno con il metodo contributivo che comporta in media una penalizzazione del 25-30% rispetto al sistema misto a cui avrebbero diritto.

Il meccanismo di cui si discute prevede un anticipo pensionistico, APE, per ritirarsi fino a tre anni prima della pensione di vecchiaia (quindi, a 63 anni e sette mesi): il lavoratore percepisce un trattamento che restituirà poi con la pensione. L’anticipo pensionistico è finanziato dalle banche, che vengono coperte dal rischio (ad esempio, di decesso del pensionato prima della fine della restituzione del prestito, che tendenzialmente avviene in 20 anni), attraverso un’assicurazione (non si prevede intervento pubblico). Si discute in particolare sulla decurtazione della pensione, intorno al 2% per ogni anno di anticipo. Si pensa anche a un meccanismo che consenta di diminuire l’importo del prestito pensionistico riscattando periodi versati alla previdenza complementare. Sono poi previste regole diverse per i disoccupati (anch’essi beneficiari di un trattamento che li accompagni alla pensione, ma a carico dello stato).

Sul tavolo anche altre questioni:
Opzione Donna (pensione anticipata per le lavoratrici a 58 anni), esodati, lavori usuranti, lavoratori precoci, flessibilità contributiva. Tanto che Poletti così sintetizza: «la prossima Legge di Stabilità avrà un forte segno sul versante delle politiche sociali: dopo il Jobs Act serve un Social Act», che sappia coniugare flessibilità e produttività.

Comunque sono previsti dei percorsi alternativi, anche se non sempre facilmente attuabili, alla pensione di vecchiaia ordinaria, i cui requisiti anagrafici per il 2016 sono di 66 anni e 7 mesi per gli uomini indipendentemente dal settore lavorativo e per le donne dipendenti della pubblica amministrazione, di 65 anni e 7 mesi per le dipendenti del settore privato e di 66 anni e 1 mese per le autonome e le iscritte alla gestione separata dell'Inps.

Ai lavoratori cui mancano meno di 3 anni per accedere alla pensione sarà permesso, quindi, di richiedere all’Inps la certificazione del requisito per poter accedere al beneficio che permetterebbe di anticipare la pensione grazie a prestiti concessi dalle banche ma erogati dall’Inps che sarebbero poi restituiti al raggiungimento dei requisiti per accedere alla pensione di vecchiaia con micro prelievi sull’assegno pensionistico.

A garantire l’importo dell’assegno sarà il montante contributivo raggiunto al momento della richiesta dell’anticipo pensionistico ma il coefficiente di trasformazione con il quale si calcolerà la pensione futura sarà quello al momento in cui si raggiungeranno i requisiti per accedere alle pensione di vecchiaia. In questo modo il lavoratore potrà incrementare la quota C della pro prima pensione a garanzia dell’importo dell’assegno.

Il prestito erogato dalle banche non avrà una garanzia reale poiché se colui che ne beneficia dovesse morire non ci sarà possibilità di rivalsa sugli eredi.  La restituzione del prestito dovrà avvenire in 20 anni anche se riguardo all’Ape sono molti i lati oscuri ancora da chiarire, come ad esempio quali sarebbero i ruoli delle banche che finanzieranno l’uscita anticipata e quale garanzia fornirà loro lo Stato.




martedì 21 giugno 2016

Pensione: part time agevolato le novità


E’ ufficiale: il nuovo intervento di flessibilità in uscita previsto dalla legge di Stabilità, ossia la possibilità di accedere al part-time agevolato per la pensione per i lavoratori del settore privato a cui mancano al massimo 3 anni al raggiungimento del requisito di vecchiaia, sarà operativo dal 2 giugno prossimo.

Il  cambio di appalto fa venir meno il part time agevolato. E questo anche se il lavoratore è assunto dal nuovo appaltatore in continuità. Pertanto, in caso di subentro nell’appalto, il datore di lavoro e il lavoratore dovranno avviare una nuova procedura e verificare che i fondi non siano esauriti. Questo è uno dei chiarimenti della circolare 90/2016 dell’Inps in cui sono state fornite le istruzioni operative per fruire del nuovo strumento di pensionamento anticipato introdotto con la legge di Stabilità 2016.

Dal 2 giugno si può avviare l’iter amministrativo che porta il lavoratore al part time agevolato. Un iter che parte dalla richiesta di certificazione dei requisiti all’Inps ma che ha come atto fondamentale la firma di un accordo tra lavoratore e datore di lavoro in cui è necessario specificare nel dettaglio numerosi elementi: dalla norma di riferimento alla mancata reversibilità, dalla percentuale di riduzione dell’orario fino alla stessa clausola di decadenza dell’accordo, appunto in caso di cambio appalto (si veda il decalogo nel grafico a fianco).

I lavoratori interessati sono tutti i dipendenti con contratto a tempo pieno e indeterminato del settore privato (incluso i dipendenti degli enti pubblici economici), iscritti sia in Inps che in altre gestioni assicurative compreso la gestione ex Inpdap, in possesso del requisito contributivo di 20 anni al momento del rilascio della certificazione e che raggiungano, entro il 31 dicembre 2018, l’età pensionabile prevista per il pensionamento di vecchiaia (66 anni e 7 mesi).

Restano, invece, esclusi i lavoratori delle pubbliche amministrazioni in senso stretto (articolo 1 comma 2 Dlgs 165/2001) e quelli che oltre al rapporto di lavoro oggetto di trasformazione svolgono altra attività lavorativa (sia subordinata che autonoma) da cui consegue l’obbligo di versamento di contribuzione in qualsiasi gestione previdenziale compresa la gestione separata dell’Inps.
Sono incompatibili con la nuova disciplina i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, il lavoro domestico, il lavoro intermittente, il lavoro a domicilio. Mentre possono stipulare l’accordo coloro che lavorano con un contratto di somministrazione o di lavoro agricolo.

Per accedere al part time agevolato è irrilevante se il lavoratore sia già titolare di un trattamento pensionistico, purché la richiesta riguardi un percorso lavorativo distinto e, per quest’ultimo, egli sia in possesso del requisito di almeno 20 anni di contributi (diversi dunque da quelli che hanno dato diritto al trattamento pensionistico).

L’Inps ha precisato che il perfezionamento del diritto alla pensione anticipata successivamente al riconoscimento del diritto al part time agevolato non comporta di per sé la decadenza dal beneficio; mentre il conseguimento della pensione anticipata successivamente al riconoscimento del diritto al part time agevolato comporta la decadenza.

A coloro che rientrano nel regime contributivo puro (anzianità contributiva successiva alla data del 31 dicembre 1995) non è consentito l’accesso al regime agevolato se, al momento della domanda, l’importo della pensione, calcolato sulla base del coefficiente di trasformazione relativo all'età pensionabile, sia inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale.

Il primo passaggio essenziale della procedura amministrativa è la domanda di rilascio della certificazione Inps utile ad attestare il possesso dei requisiti. Non è previsto alcun termine entro cui l’Inps deve rilasciare tale certificazione.

Successivamente, si potrà procedere alla redazione e sottoscrizione dell’accordo di trasformazione da full time a part time la cui durata è legata alla data di raggiungimento dell’età pensionabile. È bene chiarire che la successiva modifica dei termini dell’accordo (ad esempio la modifica della percentuale), determina la cessazione del beneficio riconosciuto dallo Stato. L’Inps ha spiegato che si dovrà procedere a riavviare integralmente l’iter amministrativo previsto.

Concluso il contratto fra le parti, il datore lo dovrà trasmettere alla Direzione del lavoro territorialmente competente, tenuta a rilasciare un proprio visto di conformità con sistema di silenzio assenso, in caso di mancato riscontro entro cinque giorni.

Ricevuto il visto o trascorsi inutilmente i cinque giorni, il datore di lavoro trasmetterà istanza telematica all’Inps con le indicazioni utili alla stima del beneficio e i dati del contratto di lavoro.

L’ente previdenziale, entro cinque giorni lavorativi dalla domanda, dovrebbe rilasciare la relativa autorizzazione (in questo caso però non si applica il silenzio assenso).

Questo intervento permette a tali lavoratori di poter optare per un part-time al 40-60%, con una busta paga più alta rispetto all’orario di lavoro ridotto, in quanto anche comprensiva di un importo esentasse che sarà pari ai contributi per l’orario che non più lavorato, e contributivi figurativi che vanno a coprire gli anni del part-time come fossero full-time.

Pertanto, ne consegue che nonostante la scelta dell’orario lavorativo ridotto, il lavoratore non arriva a subire nessun taglio sulla pensione finale.

Lo Stato, per la porzione di orario non lavorato  riconoscerà al lavoratore una contribuzione figurativa “corrispondente alla prestazione non effettuata, in modo che alla maturazione dell'età pensionabile il lavoratore percepirà l'intero importo della pensione, senza alcuna penalizzazione”. In altre parole, lo scopo è quello di evitare che il lavoratore percepisca meno contributi negli ultimi anni di attività, cosa che comporterebbe una decurtazione ingente del futuro assegno previdenziale.

Facendo un esempio pratico: nel caso in cui il lavoratore decida di ridurre il proprio orario di lavoro del 50%, grazie al meccanismo previsto all’interno del decreto, riceverà una retribuzione corrispondente a circa il 65% di ciò che percepiva in precedenza. Nel momento in cui andrà in pensione, riceverà il 100% dell’assegno previdenziale.

Il beneficio viene riconosciuto dall’INPS fino a esaurimento risorse, così ripartite:

60 milioni di euro per il 2016,

120 milioni di euro per il 2017,

60 milioni di euro per il 2018.



Sperimentazione della fattura elettronica tra privati le istruzioni tecniche




Sul sito dell'Agenzia delle Entrate le bozze con le specifiche tecniche per la fattura elettronica fra privati attraverso il SiD: ecco come funziona, sperimentazione fino a ottobre.

In attesa della definitiva operatività della fattura elettronica fra privati agevolata, nel gennaio 2017, inizia l’annunciata sperimentazione dell’Agenzia delle Entrate che mette a disposizione delle imprese le bozze dei documenti tecnici per l’utilizzo del Sistema di Interscambio (SdI), la piattaforma già in uso per la fatturazione elettronica verso la PA, integrata per rappresentare anche le fatture fra privati. Si tratta di un passo avanti previsto per la fatturazione elettronica fra privati che, in base al decreto legislativo 127/2015, sarà incentivata a partire dal primo gennaio 2017 con semplificazioni e agevolazioni fiscali.

La sperimentazione, promossa dall’Agenzia delle Entrate nell’ambito del Forum italiano sulla fatturazione elettronica e l’eprocurement, è partita in questo mese di giugno 2016 e si concluderà nel prossimo mese di ottobre.

Obiettivo: risolvere in tempo utile eventuali criticità che dovessero  presentarsi e, sulla base dei feedback ricevuti, consolidare i supporti e le regole di processo. Il Sistema di interscambio SdI funzionerà per artigiani, professionisti e imprese con le stesse regole attualmente previste per la fatturazione elettronica verso la PA (obbligatoria dal marzo 2015), opportunamente integrate.

Le bozze con le specifiche tecniche sono disponibili sul sito ell’Agenzia attraverso il seguente percorso: home > strumenti > specifiche tecniche > specifiche tecniche in bozza.Il documento con le istruzioni per la fattura elettronica fra privati si compone di tre parti: nella prima, i dati vengono rappresentati secondo una suddivisione tra dati obbligatori, dati necessari e dati opzionali. Per ognuno viene riportata la denominazione del relativo campo del tracciato del file, la descrizione del significato, l’elenco dei valori ammessi  e le caratteristiche di utilizzo. Nella seconda parte i dati vengono descritti nel dettaglio tecnico con particolare attenzione alla loro struttura sintattica ed alle caratteristiche implementative del file, nella terza viene riportato l’”XML Schema” (xsd).

I dati obbligatori da inserire in fattura:

data di emissione;

numero progressivo che identifichi la fattura in modo univoco;

ditta, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio dei soggetti fra cui è effettuata l’operazione (cedente/prestatore e cessionario/committente) e dell’eventuale rappresentante fiscale, nonché ubicazione della stabile organizzazione per i soggetti non residenti;

numero di partita IVA del cedente/prestatore;

numero di partita IVA del cessionario/committente (o numero di identificazione IVA attribuito dallo
Stato membro di stabilimento per i soggetti stabiliti in altro Stato membro dell’UE) oppure numero di codice fiscale se non agisce nell’esercizio di impresa, arte o professione;

natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione;

corrispettivi ed altri dati necessari per la determinazione della base imponibile, compresi quelli relativi ai beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono;

corrispettivi relativi agli altri beni ceduti a titolo di sconto, premio o abbuono;

aliquota, ammontare dell’imposta e dell’imponibile con arrotondamento al centesimo di euro;
data della prima immatricolazione o iscrizione in pubblici registri e numero dei chilometri percorsi, delle ore navigate o delle ore volate, se trattasi di cessione intracomunitaria di mezzi di trasporto nuovi;

annotazione che la fattura è emessa per conto del cedente/prestatore, dal cessionario/committente ovvero a un terzo.

Per il processo di fatturazione elettronica bisogna poi tenere conto delle informazioni necessarie ai fini di una corretta trasmissione al Sistema di Interscambio e da questi al destinatario, informazioni necessarie a consentire una completa dematerializzazione del processo di ciclo passivo attraverso l’integrazione del documento con i processi ed i sistemi gestionali e di pagamento, ulteriori eventuali informazioni che possono risultare utili sulla base delle tipologie di beni/servizi ceduti/prestati e delle esigenze informative intercorrenti tra singolo fornitore e singolo cliente.

La procedura online prevede alcune verifiche sui file trasmessi al Sistema di Interscambio. I nuovi controlli riguardano, in particolare, la verifica di conformità del formato fattura, l’imponibile, l’importo dei documenti e il prezzo totale. Per consentire l’adeguamento al nuovo regime di verifiche, fino al 31 luglio il mancato superamento di uno o più di questi nuovi controlli non comporterà lo scarto del file ma solo una segnalazione che verrà riportata nell'elemento “note” all’interno della “Ricevuta di consegna” o della “Notifica di mancata consegna”. Dal 1° agosto 2016 verranno, invece, scartati i file che non dovessero superare uno o più di questi controlli.



lunedì 6 giugno 2016

Inps: garanzia TFR, i documenti per la domanda


L’INPS ha reso noto che, tramite il servizio online “Domanda Fondo di Garanzia”, è un Fondo INPS che si sostituisce al datore di lavoro insolvente, o all'azienda in caso di fallimento, per il recupero del TFR o altri crediti (ultime 3 mensilità) a patto che sia accertato lo stato di morosità: procedura concorsuale, fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria. Restano esclusi tredicesima e prestazioni di malattia e maternità.

E’ possibile allegare la documentazione richiesta a corredo della domanda di prestazione a carico del Fondo di garanzia TFR e crediti di lavoro. Le domande possono essere presentate sia in caso di insolvenza del datore di lavoro a carico del quale sono in atto procedure concorsuali, sia in caso di mancata erogazione del TFR al lavoratore da parte del datore di lavoro che non è soggetto a dette procedure.

Vediamo quale documentazione bisogna allegare è ricordiamo che è disponibile il servizio online.

In caso di datore di lavoro assoggettato a procedura di Fallimento Liquidazione Coatta Amministrativa o Amministrazione Straordinaria:

copia autentica (anche per estratto) dello stato passivo reso esecutivo;

dichiarazione sostitutiva dell’attestazione della cancelleria che il credito non è stato oggetto di opposizione o di impugnazione ai sensi dell’art. 98 lf;

copia autentica del decreto che ha deciso l’eventuale azione di opposizione o impugnazione riguardante i crediti del lavoratore;

modello sr52 (per la liquidazione del tfr e dei crediti di lavoro) e/o modello sr95 (per la liquidazione delle omissioni contributive alla previdenza complementare) sottoscritti dal responsabile della procedura;

copia della domanda di ammissione al passivo completa di documentazione (conteggi, copia dei cedolini paga etc.);

modello sr98 sottoscritto dal legale rappresentante del fondo di previdenza complementare;

copia del documento di identità;

mandato di assistenza e rappresentanza.


In caso di datore di lavoro assoggettato a concordato preventivo:

copia autentica del decreto di omologazione di cui all’art. 180 l.f.;

copia della comunicazione di cui all’art. 171 lf “convocazione dei creditori” ricevuta dal commissario giudiziale, in cui sia possibile evincere l’ammontare del credito, il privilegio riconosciuto e la proposta del debitore;

modello sr52 (per la liquidazione del tfr e dei crediti di lavoro) e/o modello sr95 (per la liquidazione delle omissioni contributive alla previdenza complementare) sottoscritti dal commissario giudiziale o dal liquidatore nominato dal tribunale in caso di concordato con cessione dei beni:

copia dei prospetti paga relativi alle mensilità richieste;

copia del documento di identità;

mandato di assistenza e rappresentanza;

In caso di datore di lavoro assoggettato a procedura in un altro Stato membro dell’Unione Europea.
copia autentica dello Stato Passivo munita di traduzione legale (da cui si deve evincere, in maniera inequivocabile, che le somme sono dovute a titolo T.F.R. e/o di retribuzione per i mesi per i quali viene richiesto il Fondo di Garanzia);

dichiarazione del Tribunale (o del responsabile della procedura) munita di traduzione legale che attesti che lo stato passivo è definitivo ovvero non è soggetto, per quanto riguarda il credito del lavoratore, a modifiche;

Modello SR54 da compilare e sottoscrivere a cura del lavoratore in forma di dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà;

copia dei cedolini stipendiali relativi al T.F.R. ed alle mensilità di retribuzione per le quali si chiede l’intervento del Fondo di Garanzia;

copia della lettera o contratto di assunzione e della lettera di licenziamento;

copia del documento di identità;

mandato di assistenza e rappresentanza.

In caso di datore di lavoro non assoggettabile a procedura concorsuale (esecuzione individuale, eredità giacente, liquidazione del patrimonio di cui all’art. 14-ter L. 3/2012):
documenti necessari ai fini dell’istruttoria della domanda di intervento dei Fondi di garanzia in caso esecuzione individuale;

documenti necessari ai fini dell’istruttoria della domanda di intervento dei Fondi di garanzia in caso di eredità giacente;

documenti da allegare alla domanda in caso di apertura di una procedura di liquidazione del patrimonio di cui all’art. 14-ter L. 3/2012

Quando la domanda è presentata dagli eredi del lavoratore (in aggiunta a quelli previsti per lo specifico tipo di intervento), in caso di successione legittima:

Dichiarazione sostitutiva del certificato di morte e dello stato di famiglia alla data del decesso del lavoratore dante causa;

Atto di notorietà attestante: 1) le generalità del de cuius, comprensive del luogo e della data di nascita, dello stato civile e del luogo di ultima residenza e domicilio; 2) generalità di tutti gli eredi; 3) che tra il de cuius ed il coniuge superstite non è stata pronunciata sentenza di separazione, passata in giudicato, con addebito a carico del coniuge separato; 4) l’indicazione delle persone che hanno la rappresentanza o l’assistenza di minori o di incapaci, ove vi siano tra gli aventi diritto alla successione; 5) l’indicazione delle persone di cui non consti in modo certo l’esistenza in vita (scomparsi, assenti, morti presunti), ove vi siano tra gli aventi diritto alla successione; 6) che trattasi di successione legittima, non avendo il de cuius disposto con testamento della prestazione domandata;

Modello SR22 – Delega alla riscossione in favore di uno solo degli eredi (eventuale).

In caso di successione testamentaria:

copia autentica del testamento pubblico o del verbale di pubblicazione del testamento olografo o segreto, contenente il certificato di morte;

documentazione che dovesse risultare necessaria in base al contenuto delle disposizioni testamentarie (istituzione di erede o legato);

Modello SR22 – Delega alla riscossione in favore di uno solo degli eredi (eventuale).

L’INPS ha precisato che:

la procedura online richiede obbligatoriamente la dichiarazione, ai sensi dell’art. 19 e s.s. del D.P.R. 445/2000, di conformità agli originali dei documenti allegati;

i beneficiari della prestazione hanno l’obbligo di conservazione dei documenti originali e che le strutture territoriali sono tenute ad effettuare i controlli sulle autocertificazioni, secondo le modalità illustrate da ultimo con messaggio 547/2015;

gli operatori potranno prendere visione della domanda e della documentazione allegata attraverso il servizio di consultazione disponibile sulla Intranet seguendo il percorso: “Processi -> Prestazioni a sostegno del reddito -> Fondo di Garanzia e Fondo di Tesoreria -> Consultazione domande Fondo di Garanzia -> Ricerca e Consultazione domande”.

Che cos'è il fondo di garanzia TFR

Il fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto ha lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro, in caso di insolvenza di quest’ultimo, nel pagamento del T.F.R. e/o delle ultime tre mensilità ai lavoratori subordinati, cessati dal lavoro, o loro aventi diritto.

Il Fondo di Garanzia TFR interviene in tutti i casi di cessazione del rapporto di lavoro subordinato a condizione che sia stato accertato lo stato di insolvenza del datore di lavoro.

Lo stato di insolvenza del datore di lavoro viene debitamente accertato e determinato in seguito dell’apertura di una procedura concorsuale o di esecuzione individuale.
Sono Procedure Concorsuali tutte le procedure che mirano alla sistemazione complessiva dell’ azienda in crisi, con soddisfazione di tutti i creditori nell'ambito della parità di trattamento tra essi.

Per il calcolo del TFR si consiglia l’articolo Calcolo tfr per i lavoratori dipendenti.




Contratto a progetto: domande e curiosità



Il contratto di lavoro a progetto deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere i seguenti elementi:

durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro;

descrizione del progetto, specificando il contenuto caratterizzante e il risultato finale che si intende conseguire;

corrispettivo economico e criteri per la sua determinazione, tempi e modalità di pagamento, disciplina dei rimborsi spese;

forme di coordinamento del lavoratore a progetto con il committente, che in ogni caso non possono pregiudicarne l'autonomia lavorativa;

eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza.

A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che consistano in:

prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo

e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal datore di lavoro con riguardo ai tempi e al luogo di lavoro stesso.

La disciplina sul contratto a progetto si applica a tutti i rapporti di collaborazione autonoma?

No, il contratto a progetto non si applica in caso di: rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale; prestazioni occasionali, costituite dai rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare ovvero, nell'ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona, non superiore a 240 ore con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia inferiore a euro 5 mila.

Un progetto o programma di lavoro simile può essere oggetto di successivi contratti di lavoro?

La proroga o il rinnovo del contratto sono in linea di principio legittimi nel caso in cui il risultato concordato non sia stato raggiunto nel termine fissato ovvero nel caso di progetto totalmente nuovo e diverso. Al contrario, la proroga ingiustificata e il rinnovo per un progetto identico al precedente costituiscono elementi indiziari particolarmente incisivi per dimostrare la natura di un rapporto di lavoro dipendente.

Cosa succede se ci si ammala nel corso del rapporto a progetto? E in caso di maternità?

In caso di gravidanza e di malattia o infortunio del collaboratore, il rapporto di lavoro risulta sospeso, senza erogazione del corrispettivo. Solo nel primo caso la durata del rapporto è prorogata (per un periodo di 180 giorni), mentre, nel secondo caso, non solo il contratto non è prorogabile, ma il committente può comunque recedervi se la sospensione si protrae per più di un sesto della durata stabilita dal contratto, quando essa sia determinata, oppure superiore a trenta giorni per i contratti a durata determinabile.

Qual è la sanzione nel caso in cui il progetto non ci sia o non sia sufficientemente specifico?

Ciò che caratterizza il lavoro a progetto è la sua riconducibilità ad uno specifico progetto o programma di lavoro o fase di esso e  sia in caso di assenza del progetto (o del programma di lavoro) sia in caso di loro formulazione generica, la conseguenza, che dovrà essere dichiarata dal Giudice del Lavoro, è la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di stipulazione del contratto.

Cosa si può fare se il contratto a progetto, nei fatti, maschera un rapporto di lavoro subordinato?

Ogni volta che le concrete modalità di svolgimento di un rapporto formalmente a progetto sono riconducibili al lavoro subordinato, il lavoratore ha diritto, nel corso o all'esito del rapporto di lavoro, di richiedere l’accertamento giudiziale dell’effettiva natura del rapporto stesso; a fronte di una simile richiesta il Giudice del Lavoro, non essendo vincolato dal contenuto letterale dell’accordo, può esaminare quali siano state, in concreto, le modalità di svolgimento del rapporto lavorativo e se, nel caso di specie, sussistano gli indici della subordinazione.

Nel caso in cui il Giudice accerti che il rapporto, sebbene qualificato come autonomo, ha in realtà natura subordinata, lo notificherà come tale. Il lavoratore potrà quindi rivendicare tutti i diritti conseguenti sia di natura retributiva sia di natura contributiva.

Cosa succede se il contratto a progetto viene interrotto prima della scadenza?

Nel caso in cui il contratto a progetto venga interrotto da una delle parti prima della scadenza, senza giusta causa ed al di fuori delle ipotesi previste nel contratto individuale, la parte che ha subito il recesso avrà diritto ad un risarcimento del danno da quantificarsi o nella misura del preavviso o, in mancanza di questo, in un importo pari al residuo del compenso globale pattuito.

Come devono essere le istruzioni e le direttive del committente?

Il rapporto di lavoro a progetto implica una prestazione che, in quanto coordinata e continuativa, è integrata nell'attività e nell'organizzazione del committente. Il committente può pertanto esercitare un potere di intervento e di coordinazione dell’attività prestata dal collaboratore. Tuttavia, tale potere del datore di lavoro non può in ogni caso essere tale da pregiudicare l’autonomia nell'esecuzione della prestazione lavorativa del collaboratore: saranno quindi legittime verifiche periodiche sull'andamento del lavoro, ma non controlli e direttive più stringenti, che farebbero invece propendere per la natura subordinata del rapporto.

Cosa può fare il collaboratore a progetto qualora ritenga incongruo il suo corrispettivo?

La misura del compenso costituisce un elemento essenziale del contratto a progetto, prevede che lo stesso debba essere specificamente indicato per iscritto. Il compenso deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto. Per questo motivo, il collaboratore che ritenesse inadeguato il compenso pattuito, può sempre ricorrere all'autorità giudiziaria per ottenere la condanna del suo committente a corrispondergli un corrispettivo adeguato.

In questa prospettiva, il collaboratore può far riferimento alla natura e alla durata del progetto, prendendo come parametro le remunerazioni dei compensi corrisposti per analoghe prestazioni autonome. Inoltre, si può ritenere che il collaboratore possa prendere come parametro anche le retribuzioni previste dal CCNL applicabile al suo committente e che facciano riferimento a personale che svolga mansioni analoghe. Infatti, si deve ritenere che la remunerazione di un collaboratore a progetto non possa essere, almeno di regola, inferiore a quanto percepito da un lavoratore subordinato che svolga mansioni analoghe.

E' sufficientemente dettagliato un progetto che faccia esclusivamente riferimento al tipo di attività da compiere?

Un contratto a progetto che faccia semplicemente riferimento al tipo di attività da compiere, e dunque una formulazione generica del progetto (ad es. inserimento dati), non è pertanto conforme al modello legale; il lavoratore avrà quindi la possibilità di chiedere al Giudice del Lavoro la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infatti, una simile definizione, lungi dal rappresentare il progetto, si limita a descrivere la mansione attribuita al lavoratore, del tutto svincolata dall'obiettivo che si intende raggiungere e dalle attività preparatorie e funzionali a quell'obiettivo. In buona sostanza, indicare le mansioni senza riferirle a un obiettivo significa consentire al datore di lavoro di utilizzare la prestazione lavorativa per soddisfare proprie esigenze variabili, mutevoli e indeterminate, il che contrasta con la riconducibilità dell'attività lavorativa a un progetto specifico e individuato.



Cos'è il contratto a progetto: Jobs Act, Co.co.pe., Co.co.pro, Co.co.co.



Il Jobs Act, nonostante abbia dato un colpo di spugna ai contratti a progetto, non ha cancellato del tutto le Co.co.co., cioè le collaborazioni coordinate e continuative. Difatti, dopo l’entrata in vigore del Decreto di Riordino dei Contratti, le vecchie Co.co.co. sono comunque valide, e, dal primo gennaio 2016, saranno affiancate da una nuova tipologia di contratto parasubordinato, le Co.co.pe.

La sigla Co.co.pe. sta per collaborazioni continuative e personali: saranno ricondotte in questa categoria tutte le collaborazioni che consistono in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e con modalità di esecuzione, comprese le tempistiche ed il luogo di lavoro, organizzate dal committente.

Questa tipologia di rapporto di lavoro riguarda una moltitudine di lavoratori, solitamente inseriti di fatto nell'organizzazione aziendale ma formalmente non riconosciuti come subordinati e, quindi, privi delle garanzie tipiche di questo tipo di rapporto di lavoro.

Il rapporto è gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l'organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività. Le collaborazioni coordinate e continuative stipulate secondo la disciplina previgente, se non possono essere ricondotte a un progetto o a una fase di esso, mantengono la loro efficacia fino alla scadenza.

L'istituto di cui si sta parlando non trova applicazione anche nei confronti delle professioni intellettuali per le quali è richiesta l’iscrizione all’albo l'iscrizione all'albo. Su questo aspetto. La riforma del 2012 ha chiarito che tale esclusione riguarda le sole collaborazioni coordinate e continuative il cui contenuto concreto sia riconducibile alle attività professionali per l’esercizio delle quali l’iscrizione in appositi albi è necessaria per lo svolgimento dell’attività. Al contrario, la generica iscrizione ad un albo professionale da parte del collaboratore non è di per sé idonea all'esclusione del rapporto dal campo di applicazione della disciplina relativa al contratto a progetto.

Il contratto deve essere stipulato in forma scritta e, ai fini della prova, deve contenere: l'indicazione della durata (determinata o determinabile) della prestazione, la descrizione del progetto con indicazione del suo contenuto caratterizzante e del risultato che si intende conseguire, il corrispettivo e i criteri della sua individuazione (tempi e modalità di pagamento), le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione della prestazione lavorativa, nonché eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore.

La retribuzione corrisposta ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito. La legge 92/2012 ha modificato questo aspetto della normativa: mentre, infatti, in precedenza, il compenso doveva tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto, dal 18/07/2012 in poi, esso non potrà essere inferiore ai minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva in modo specifico per ciascun settore di attività e, in ogni caso, sulla base dei minimi salariali applicati nel settore nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati. Lo stesso legislatore precisa che, in assenza di specifica contrattazione collettiva, il compenso del lavoratore a progetto non potrà essere inferiore alle retribuzioni applicate a figure professionali affini.

In caso di gravidanza, di malattia e di infortunio del collaboratore, il rapporto di lavoro risulta sospeso, senza erogazione del corrispettivo. Solo nel primo caso la durata del rapporto è prorogata (per un periodo di 180 giorni), mentre, negli altri due casi, non solo il contratto non è prorogabile, ma il committente può comunque recedervi se la sospensione si protrae per più di un sesto della durata stabilita dal contratto, oppure superiore a trenta giorni per i contratti a durata determinabile. Il collaboratore a progetto, salvo diverso accordo tra le parti, può svolgere la sua attività a favore di più committenti, non in concorrenza tra loro. Inoltre, il collaboratore non può diffondere notizie e apprezzamenti attinenti ai programmi e alla organizzazione, nonché compiere atti in pregiudizio della attività dei committenti medesimi.

Il Jobs Act ha specificato la disciplina da applicarsi alle Co.co.pe. sarà quella relativa al lavoro subordinato, escluse le seguenti categorie:

– collaborazioni previste da contratti collettivi nazionali, a causa di esigenze produttive e organizzative particolari, previste dal settore di attività: gli accordi dovranno regolamentare gli aspetti economici e normativi relativi a tali collaborazioni;

– collaborazioni prestate da professionisti iscritti ad albi, qualora siano inerenti all'attività professionale per la quale è necessaria l’iscrizione (ciò vuol dire che, se un avvocato collabora con un committente in un’attività al di fuori delle proprie competenze professionali, il suo rapporto potrà essere comunque ricondotto al lavoro subordinato, anche se è iscritto all’albo);

– attività effettuate da sindaci, amministratori, altri componenti di organi di controllo delle società, e partecipanti a collegi e commissioni;

– collaborazioni rese a società ed associazioni sportive dilettantistiche (Asd); in questo caso, è richiesta l’affiliazione a una federazione sportiva nazionale, alle discipline sportive associate, o a un ente di promozione sportiva riconosciuto dal C.O.N.I.



domenica 5 giugno 2016

In cosa consiste il trattamento di integrazione salariale



Il trattamento di integrazione salariale straordinario (CIGS) è una prestazione economica erogata dall'Inps per integrare o sostituire la retribuzione dei lavoratori al fine di fronteggiare le crisi dell’azienda o per consentire alla stessa di affrontare processi di ristrutturazione /riorganizzazione/ riconversione.

L’Inps, con il messaggio n. 1760 del 20 aprile 2016, ha comunicato che per l’anno 2016 opera l’incremento del trattamento di integrazione salariale straordinario nella misura del 10% della retribuzione persa a seguito della riduzione d’orario (per una durata massima di 12 mesi).

Com’è noto, la cassa integrazione (sia essa ordinaria o straordinaria) comporta la sospensione totale o parziale dell’attività lavorativa, con esonero del datore di lavoro dall’obbligo di corrispondere la retribuzione. Ciò che si è appena detto rappresenta una eccezione alle regole comuni che, piuttosto, dispongono la permanenza dell’obbligo retributivo in capo al datore di lavoro che rifiuti senza giusta causa di ricevere la prestazione lavorativa. Invece, nei casi di crisi o di ristrutturazione che legittimino il ricorso alla cassa integrazione, il legislatore ha ritenuto di sostenere temporaneamente le imprese, esonerandole dal pagamento della retribuzione e dal versamento dei contributi nei confronti dei lavoratori sospesi in cassa integrazione.

Il meccanismo sopra brevemente descritto non avviene però a totale detrimento dei lavoratori, che – se pur perdono la retribuzione –ottengono però dall’Inps un indennizzo, denominato integrazione salariale. Più precisamente, nel caso di cassa integrazione ordinaria l’integrazione è pari all'80% della retribuzione perduta per effetto della sospensione dal lavoro, anche se dopo i primi 6 mesi di sospensione l’indennità non può superare un tetto massimo fissato dalla legge. Nel caso invece di cassa integrazione straordinaria, l’integrazione è sempre pari all’80% della retribuzione perduta, e sempre nel limite di un tetto massimo previsto dalla legge.

Quanto invece ai contributi previdenziali e assistenziali, la legge prevede (sia nel caso di cassa integrazione ordinaria che in quello di cassa integrazione speciale) l’accreditamento di contributi figurativi. Ciò significa che, anche a fronte del mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro, il lavoratore non risulta scoperto, ai fini contributivi, durante il periodo di cassa integrazione che, dunque, anche in assenza dei contributi reali, sarà utile in particolare per la maturazione della pensione.

La riforma del mercato del lavoro, approvata con la legge 28 giugno 2012, n. 92 ha introdotto alcune modifiche all’attuale sistema delle tutele in costanza di rapporto di lavoro.

In particolare, la legge di riforma ha definitivamente incluso nel gruppo delle imprese destinatarie del trattamento di integrazione salariale straordinario alcune tipologie di imprese, oggi ammesse solo annualmente al trattamento con specifici provvedimenti legislativi; tale legge ha, parimenti, messo a regime l’indennità di mancato avviamento al lavoro per i lavoratori del settore portuale. La legge di riforma ha, inoltre, modificato i requisiti per la concessione del predetto trattamento per le imprese in procedura concorsuale.

La legge di riforma ha previsto le disposizioni in materia di trattamento straordinario di integrazione salariale e i relativi obblighi contributivi sono estesi alle seguenti imprese:

a) imprese esercenti attività commerciali con più di cinquanta dipendenti;

b) agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici, con più' di cinquanta dipendenti;

c) imprese di vigilanza con più di quindici dipendenti;

d) imprese del trasporto aereo a prescindere dal numero di dipendenti;

e) imprese del sistema aeroportuale a prescindere dal numero di dipendenti.

Il Decreto di riordino degli ammortizzatori sociali, attuativo del Jobs Act, ha introdotto numerosi cambiamenti, oltreché nell’indennità di disoccupazione e di mobilità, nei seguenti trattamenti:

Trattamenti di integrazione salariale (Cig o Cigo, Cigs, Cig o Cigs in deroga);

Fondi di solidarietà;

Contratti di solidarietà espansiva.

Per quanto concerne la Cassa Integrazione, sia straordinaria che ordinaria, è stata innanzitutto ampliata, dal Decreto, grazie all’estensione dell’obbligo contributivo CIGO/CIGS ai lavoratori con contratto di apprendistato professionalizzante, e di un nuovo contributo addizionale.

Nel dettaglio, i trattamenti di cassa integrazione ordinaria e straordinaria possono essere concessi:

ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo pieno;

ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo parziale;

ai lavoratori con contratto di apprendistato professionalizzante (se l’azienda, nello specifico, è beneficiaria di Cigs, gli apprendisti potranno fruire della Cigs, se beneficiaria di Cigo, potranno fruire solo della Cigo, e fruiranno solo della Cigo anche se l’azienda beneficia di entrambi i trattamenti; il periodo formativo sarà allungato in corrispondenza delle ore integrate).

Per beneficiare dell’integrazione salariale, compresa la Cig, o Cigo, il lavoratore dovrà però possedere 90 giorni di effettivo lavoro, nella stessa Unità produttiva, alla data della domanda. Sono contati come giorni di effettivo lavoro anche le domeniche, i giorni liberi, i festivi, e le giornate in cui il dipendente e assente per infortunio o maternità obbligatoria.

Sono invece esclusi:
i dirigenti;

i lavoratori a domicilio;

i lavoratori con contratto di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore;

i lavoratori con contratto di apprendistato di alta formazione e ricerca.

Nel 2016, il trattamento per le integrazioni salariali ammonterà, parimenti a quanto previsto dalla precedente normativa, all’80% della retribuzione globale che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate, comprese fra le ore zero e il limite dell’orario ordinario contrattuale.
Non potranno essere però superati i seguenti limiti:
– 971,71 Euro (da aumentare nella misura del 100% dell’aumento derivante dalla variazione annuale dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e impiegati) quando la retribuzione mensile di riferimento (compresi ratei di tredicesima e quattordicesima) è pari o inferiore a 2.102,24 Euro;

– 1.167,91 Euro (da aumentare come sopra), quando la retribuzione mensile di riferimento è superiore a 2.102,24 Euro.

Lavoratore illegittimamente sospeso: omessa indicazione dei criteri di rotazione




L’ordinamento giuridico consente al datore di lavoro (che si trovi in particolari situazioni di crisi o abbia la necessità di procedere a ristrutturazioni o riorganizzazioni) di sospendere in tutto o in parte i propri dipendenti dal lavoro. Tuttavia, al contempo, questo potere viene disciplinato e limitato dalla legge. Pertanto, la sospensione in CIG disposta al di fuori di questi limiti è illegittima, e il lavoratore può ricorrere al Giudice del lavoro al fine di ottenere la riammissione al lavoro, nonché il risarcimento del danno (che, normalmente, consisterà nella differenza tra la retribuzione che egli avrebbe percepito se non fosse stato sospeso e l’indennità di CIG percepita durante la sospensione).

La CIGO ha la funzione di sostegno del reddito dei lavoratori per sospensioni dal lavoro e riduzioni dell’orario di lavoro dovute ad eventi transitori non imputabili né al datore di lavoro né ai lavoratori, ovvero a situazioni temporanee di mercato.

L’ammontare del trattamento economico è pari all’80% della retribuzione spettante ai lavoratori per le ore non lavorate; dopo il primo semestre di erogazione non può superare un tetto massimo incrementato annualmente in base all’indice ISTAT.

La legge impone una procedura di informazione e consultazione sindacale con le RSA, di solito preventiva. Solo nei casi di sospensione o riduzione indifferibile del lavoro, l’imprenditore deve comunicare alle RSA o, in mancanza di queste, agli organismi provinciali dei sindacati di categoria più rappresentativi, la durata prevedibile della sospensione o contrazione del lavoro ed il numero dei lavoratori interessati; se la sospensione o contrazione superi le 16 ore settimanali, su richiesta dell’imprenditore o degli organismi rappresentativi dei lavoratori si procede ad un esame congiunto sulla ripresa del normale lavoro e sui criteri di distribuzione degli orari di lavoro.

Per la CIGO, a differenza della CIGS, il datore di lavoro anticipa il trattamento una volta adottato il provvedimento di concessione, conguagliando i contributi dovuti. Se dall’omessa o tardiva domanda deriva la perdita totale o parziale della CIGO, l’imprenditore è tenuto a corrispondere ai lavoratori una somma pari all’importo dell’integrazione non percepita.

La durata massima della CIGO è di tre mesi continuativi, ma in casi eccezionali può essere prorogata per tre mesi fino a un massimo complessivo di un anno.

La fissazione dei criteri di rotazione, da osservare in caso di sospensione del personale per fruizione della CIGO, era oggetto di indirizzi giurisprudenziali ora si ritiene che, per omessa specificazione dei criteri di rotazione, rende illegittimo il decreto di concessione del trattamento di CIGS. Conseguentemente, al lavoratore sospeso spetta il diritto soggettivo di chiedere al giudice ordinario la condanna, previa disapplicazione in via puramente incidentale, del provvedimento amministrativo di concessione della CIGS e quella del datore di lavoro al pagamento dell’integrale obbligazione retributiva.

Il D.lgs. n. 148/15, di attuazione della L. n. 183/14 (c.d. Jobs Act), riordinando la disciplina degli ammortizzatori sociali, ha omesso, per il trattamento di CIGO, il riferimento all’osservanza dei criteri di rotazione. Questi, invece, costituiscono oggetto di specifica disposizione nel caso di procedimento volto a conseguire la CIGS. Sicché, anche all’esito della riforma, si registra quella diversa formulazione letterale delle norme che disciplinano il procedimento di concessione della CIGO e della CIGS. Per avere efficacia è stabilito che la comunicazione alle organizzazione sindacali deve avere ad oggetto “[…] le cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile, il numero dei lavoratori interessati”. Il comma 4 dispone poi che “nei casi di eventi oggettivamente non evitabili che rendano non differibile la sospensione o la riduzione dell’attività produttiva”, il contenuto della comunicazione deve comprendere “la durata prevedibile della sospensione o riduzione e il numero dei lavoratori interessati”.

E’ doveroso ricordare che il potere di sospendere i propri dipendenti in CIG incontra innanzi tutto limiti di tipo formale. Infatti, la legge prescrive l’obbligo, per il datore di lavoro, di attivare preventivamente una procedura di informazione e (a richiesta) di consultazione con il sindacato.

L’obbligo di informare e, eventualmente, di trattare con il sindacato ha lo scopo di garantire che la sospensione dei lavoratori sia trasparente e corretta, con la conseguenza che eventuali violazioni della procedura sindacale rilevino, oltre che sul piano formale, anche su quello sostanziale.

Con riferimento ai vizi procedurali il lavoratore (ma anche il sindacato) potrebbe per esempio lamentare l’omissione della procedura, oppure il fatto che non siano state rese tutte le informazioni previste dalla legge, o che le stesse siano state fornite in maniera generica o falsa, o ancora che il datore di lavoro non ha dato seguito alla richiesta del sindacato di trattare.

Vi sono però altri limiti che il datore di lavoro deve rispettare e che, in caso contrario, legittimano il ricorso al giudice da parte del lavoratore. Innanzi tutto, si deve ricordare che il datore di lavoro può ricorrere alla CIG solo in presenza di situazioni di crisi o di ristrutturazione – riorganizzazione previste dalla legge. Sotto questo profilo, dunque, il lavoratore potrebbe per esempio contestare che la causa della sospensione, dichiarata dal suo datore di lavoro, non rientra tra quelle previste dalla legge, oppure che quella situazione non corrisponde al vero. Infine, il datore di lavoro deve scegliere il personale da sospendere in CIG utilizzando criteri oggettivi e coerenti con la causa della sospensione: il lavoratore potrebbe quindi lamentare di essere stato scelto sulla scorta di criteri che non corrispondono a tali caratteristiche.

giovedì 2 giugno 2016

Le migliori app per trovare lavoro ecco un resoconto


Le applicazioni permettono di gestire molte attività comodamente dal proprio smartphone, tablet o telefono cellulare e ciò è molto pratico e comodo. Trovare lavoro attraverso un'applicazione è una pratica molto comune ed immediata, infatti le app che sono molto rapide, più di tante piattaforme online soprattutto quando vengono usate da smartphone. E’ la vera  nuova frontiera per trovare lavoro, che  ce l’abbiamo in tasca.

Oggi per chi cerca lavoro non si limita a ricerche su siti web o tramite agenzie per il lavoro, dal momento in cui possono farlo comodamente mentre viaggiano in treno o seduti in una caffetteria; praticamente ovunque ed in qualsiasi momento. Per chi utilizza uno smartphone o un tablet, la ricerca di un lavoro può essere infatti facilitata poiché questi dispositivi offrono maggiori opportunità attraverso delle apposite applicazioni.

Vediamo allora quali sono le migliori app per cercare lavoro.

Tra tutte le app disponibili online c’è TapJobs  , un'applicazione molto intuitiva e veloce che permette di eseguire ricerche in modo funzionale. Con TapJobs non esistono perdite di tempo dovute a risultati di offerte di lavoro poco interessanti: dalla classifica delle ricerche più gettonate, fino alla possibilità di ricercare per una specifica azienda a cui si è interessati, TapJobs è la soluzione giusta per chi desidera un'applicazione funzionale ma al tempo stesso semplice, e da la possibilità di inviare il curriculum direttamente da Mobile la rende una delle migliori applicazioni che non possono mancare nel proprio cellulare.

Se state cercando lavoro sul web e con le app non bisogna trascurare le offerte di LinkedIn, dove è possibile stringere nuovi rapporti professionali, mettere in evidenza le proprie competenze, implementare le proprie conoscenze e restare in contatto con le aziende che assumono.

L’applicazione permette infatti di ricercare, in base alla località, qualifica o anche parola chiave, le offerte disponibili e ti avverte, mediante notifica, di nuove occasioni scelte secondo i tuoi criteri preimpostati. Basterà avere un profiloLinkedIn e potrai presentare la tua candidatura.


Trovit  è presente pure in ambito lavorativo e la ricerca può essere effettuata mediante localizzazione o parola chiave. È possibile anche scegliere i vari risultati per restringere il più possibile il campo intorno a quello che davvero cerchiamo, puntando magari sullo stipendio o su determinati orari. Si ricevono anche degli alert (notifiche) per e-mail, sulle offerte più interessanti e molto altro.
Permette, tra l’altro di condividere le varie offerte sui social o per posta elettronica. E se vuoi “cambiare aria”, nessun problema perché puoi effettuare ricerche in ben 46 paesi nel mondo.

Facile da utilizzare, InfoJobs  ti permette di trovare lavoro mediante un’attenta ricerca in base alla categoria (informatica, design, turismo, etc.) ed al livello professionale. Non manca neanche qui, la possibilità di selezionare le province di interesse. Ma c’è di più: ogni volta che un’Azienda leggerà il tuo Curriculum Vitae, sarai avvertito da un messaggio automatico.

Trova lavoro con Indeed, il più completo motore di ricerca del lavoro.
Si tratta, come accennato, di un motore di ricerca molto completo col quale puoi accedere alle varie offerte.

Con più di 15 milioni di offerte nel mondo e più di 50 paesi proposti per lavorare anche all’estero, l’offerta è veramente ampia. L’utilizzo di quest’applicazione è semplice ed intuitivo. Puoi utilizzare il GPS per cercare vicino alla tua città ed anche visualizzare le offerte che sono state pubblicate successivamente al tuo ultimo accesso: in questo modo non perderai del tempo prezioso a visualizzare offerte magari già viste e scartate.

Una volta inserito il tuo CV potrai modificare il messaggio di presentazione personalizzandolo in base alle singole candidature.

Oltre a ricevere via mail le offerte che più ti interessano, potrai anche seguire e ricevere aggiornamenti dalle tue Aziende preferite (e per le quali vorresti lavorare).

È presente anche una sezione chiamata “I Miei Lavori” con la quale potrai catalogare le tue candidature, oltre che salvare le offerte.

Un'applicazione fuori dal comune è anche ClicLavoro , sviluppata dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per offrire servizi sia ai cittadini in cerca di un posto fisso, sia per facilitare ed aiutare le aziende a trovare la forza lavoro di cui hanno bisogno. Oltre alla funzione di invio in tempo reale delle candidature, ricercabili per qualifica e sede dell'azienda, è possibile localizzare facilmente le Agenzie per il Lavoro ed i Centri per l'impiego più vicini alla posizione dalla quale si effettua la ricerca.

Con l’ applicazione è possibile:

inviare in tempo reale la tua candidatura per tutte le offerte che ti interessano di più effettuando la ricerca per qualifica e per luogo. Per candidarsi bisogna essere loggati e avere inserito il CV;

localizzare le Agenzie per il Lavoro, i Centri per l’impiego, le DRL-DTL, gli Informa Giovani e gli Uffici di Collocamento Marittimo della provincia selezionata. Questa funzione è accessibile anche dall’utilizzatore anonimo;

per i datori di lavoro, consultare i CV presenti nella banca dati di Cliclavoro per individuare possibili candidati a nuove assunzioni (con o senza incentivi). Per visionare i CV basta inserire il luogo e/o la qualifica desiderati. Per contattare un candidato è necessario essere loggati.

Nominata come tra le più quotate app per iOS per la ricerca del lavoro, Jobaware permette di sincronizzare tutte le attività di ricerca di lavoro sul web, interagendo anche con un eventuale profilo LinkedIn. È possibile tenere traccia dei progressi di ricerca, confrontare le offerte di lavoro in diverse città, controllare le aziende specifiche e visualizzare le informazioni sullo stipendio medio percepito dai lavoratori. L'applicazione si collega anche con una serie di risorse didattiche per facilitare la ricerca.

Corner Job è la nuova app creata per tutti coloro che cercano lavoro e propone una soluzione semplice e veloce per trovare offerte lavorative attinenti alle proprie abilità. E’ possibile creare facilmente il tuo profilo e scoprire tutti gli annunci di lavoro vicini a te. Trovare un impiego velocemente dal tuo smartphone è possibile grazie all’app di Corner Job.

E' bene scaricare tutte le app sul proprio smartphone, in modo tale da non perdere le occasioni migliori messe a disposizione.



mercoledì 1 giugno 2016

Restituzione bonus 80 euro come funziona



Ecco quali saranno i dipendenti chiamati alla restituzione del Bonus erogato nel corso dell'anno 2015. Circa 1,4 milioni di persone che hanno ricevuto il bonus di 80 euro e dovranno restituirlo. La gran parte dovrà restituire tutta o parte della cifra ricevuta perché ha superato la soglia dei 24 mila euro di reddito, oltre la quale il bonus si riduce rapidamente fino a scomparire per i redditi superiori ai 26 mila euro. Ma circa 341 mila contribuenti lo dovranno restituire perché sono risultati “incapienti”, cioè hanno guadagnato meno di 8.000 euro, la soglia sotto la quale si perde il diritto al bonus.

Vediamo quali contribuenti sono interessati dalla restituzione del bonus 80 euro?

Si tratta fondamentalmente di tre tipologie di contribuenti:

coloro che hanno percepito un reddito inferiore alla no tax area ovvero agli 8.000 euro;

coloro che hanno percepito un reddito superiore al limite previsto dalla Legge (ovvero 26.000 euro);

coloro che hanno commesso o addirittura subito (nel senso che è stata l’Agenzia delle Entrate a commettere l’errore) errori nella compilazione della dichiarazione dei redditi modello 730 precompilato.

Il bonus da 80 euro mensili– tecnicamente un credito di imposta sull’IRPEF riservato ai lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi – è stato approvato nell'aprile del 2014, poche settimane prima delle elezioni europee. Il bonus spettava a tutti i lavoratori dipendenti che guadagnavano meno di 26 mila euro, ma –dato di fatto è una detrazione fiscale –non tocca a quei contribuenti che guadagnano meno di 8.000, per i quali è già prevista una riduzione totale dell’IRPEF. È noto dall'inizio che se nel corso dell’anno un contribuente fosse uscito da questi due limiti, superare i 26 mila euro o scendere sotto gli 8.000, sarebbe stato costretto a restituire tutta o parte della cifra che aveva ricevuto.

Il ministero delle Finanze ha pubblicato nei giorni scorsi i dati sulle dichiarazioni dei redditi del 2015, nei quali era presenta anche una tabella riassuntiva sulla distribuzione e sulla restituzione degli 80 euro. Da questi dati risulta che 11,2 milioni di italiani hanno ricevuto il bonus e 1,4 milioni lo dovranno restituire. Di questi, 651 mila contribuenti hanno dovuto restituire parte del bonus, perché sono passati dalla fascia sotto i 24.000 euro di reddito a quella sopra  i 26 mila. Altri 798 mila circa hanno invece dovuto restituirlo interamente. Di questi, circa 341 mila hanno dovuto restituire il bonus perché sono scesi sotto gli 8.000 euro di reddito annuo e sono diventati “incapienti”.

Vediamo chi è diventato incapiente ha diritto comunque a un rimborso delle imposte pagate.

Queste persone si trovano quindi nella situazione paradossale di dover restituire gli 80 euro ricevuti ma essere diventati nel contempo creditori nei confronti dello stato di un’altra somma.
Facciamo un esempio concreto: un lavoratore con un contratto che gli garantisce un reddito di 10 mila euro nel corso dell’anno. Dopo sei mesi in cui ha percepito regolarmente gli 80 euro in busta paga, e in cui ha pagato l’IRPEF sul suo reddito, il lavoratore riceve una riduzione di ore e quindi di stipendio, oppure perde il lavoro: di fatto il suo reddito a fine anno non arriva a 8.000 euro. Il contribuente dovrà restituire il bonus, ma nello stesso tempo, essendo diventato incapiente, ha diritto alla restituzione di tutta l’IRPEF versata nel corso dell’anno, o che avrebbe dovuto versare in sede di dichiarazione.

Si trova in questa situazione il 12,5 per cento di chi ha ricevuto il bonus, un contribuente su otto. La causa del problema è che il governo ha introdotto gli 80 euro sotto forma di bonus mensile e non come conguaglio a fine anno, cosa che avrebbe permesso di evitare gran parte dei casi di restituzioni.

L’aspetto più antipatico della vicenda è che i contribuenti interessati, pur avendo percepito il bonus di 80 euro a rate durante l’anno precedente, dovranno restituire l’importo considerato in un’unica soluzione.



Lavoro: calcolo part time in busta paga



Il contratto di lavoro a tempo parziale, meglio conosciuto come contratto part time, indica un rapporto di lavoro subordinato caratterizzato da una riduzione dell'orario di lavoro rispetto a quello a tempo pieno.

Come ogni contratto di lavoro, anche quello part time può essere sia a tempo determinato che indeterminato. Un contratto part time per essere in regola deve essere sottoscritto da entrambe le parti e deve contenere informazioni precise sulla durata della prestazione lavorativa e sull'orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.

Un lavoratore part - time può instaurare più rapporti di lavoro fino a raggiungere l’orario previsto generalmente dai CCNL o dalla legge (comunque non oltre 40 ore settimanali).

Esistono tre diversi tipi di part - time:

ORIZZONTALE
si lavora tutti i giorni della settimana (mattina o pomeriggio) con un orario ridotto rispetto a quello contrattuale (es. 4 ore al giorno per 5 giorni alla settimana).

VERTICALE
si lavora per alcuni giorni nella settimana con un orario ridotto o normale (es. lunedì, mercoledì e venerdì, oppure tutte le domeniche del mese o nei fine settimana).

MISTO

Si lavora con un orario settimanale sia verticale che orizzontale, in base a quanto è stato stabilito dai contratti collettivi nazionali (es. 6 ore per 3 giorni e 3 ore per 2 giorni)

Il contratto week-end è un rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale e si realizza quando il dipendente presta la sua attività solo nei giorni di sabato e domenica.

I CCNL possono prevedere combinazioni diverse tra le varie tipologie contrattuali, determinando le modalità temporali di svolgimento dell'attività lavorativa ad orario ridotto, nonché le eventuali implicazioni di carattere retributivo della stessa.

Chi lavora con un contratto part time beneficia dei medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno. Ciò è vero sia per la retribuzione oraria, sia per la durata e l'assegnazione delle ferie annuali. Al pari di un lavoratore full time chi lavora con un contratto part time può essere soggetto a un periodo di prova e ha diritto a un congedo di maternità e paternità così come a riposi giornalieri. Un lavoratore part time è tutelato anche nella conservazione del posto in caso di infortunio o malattia.

La retribuzione oraria è la medesima prevista per un lavoratore full time ma c'è da dire che il trattamento economico è proporzionale in ragione della ridotta entità della prestazione, ciò significa che le ferie pagate e i trattamenti economici per malattie, indennità e maternità saranno calcolati in proporzione alle prestazioni lavorative.

Quindi il lavoratore part time ha diritto alla medesima retribuzione oraria del lavoratore full time anche se gli importi dei trattamenti economici singoli (malattie, infortunio e maternità) saranno di gran lunga inferiori perché il calcolo è proporzionale al numero di ore di lavoro.

Per i rapporti di lavoro a tempo parziale, bisogna parametrare i calcoli all’orario di lavoro. Se il contratto di riferimento prevede 40 ore settimanali (è il caso della maggioranza dei lavoratori del settore privato), il minimale orario (da moltiplicare per le ore del contratto part-time), è pari a 7,15 euro (47,68 euro, ovvero il minimo giornaliero, moltiplicato per sei giorni lavorativi e diviso per 40 ore). Se il contratto è di 36 ore (ipotesi che ricorre per i lavoratori iscritti alle gestioni previdenziali pubbliche), il minimale orario è di 6,62 euro (47,68 per cinque giorni lavorativi diviso 36).

Come calcolare lo stipendio di un contratto part time a 20, 24, 30 o 36 ore? La prima cosa da fare, è quella di fare una proporzione rispetto allo stipendio a tempo pieno, a partire dal lordo ed inoltre considerare l’eventuale più basso scaglione IRPEF che andrebbe a centrare il reddito.

Vediamo come fare.
Se sul contratto non è scritto lo stipendio lordo mensile, ma quello lordo annuale (RAL), occorre prima calcolare lo stipendio lordo mensile. Supponiamo che per il lavoro part time di 20 ore a settimana, si percepisca secondo il CCNL uno stipendio lordo annuale di 10.000 euro, diviso su 14 mensilità.

Per calcolare lo stipendio lordo mensile, si dovrà fare 10.000 / 14 = 714,28 euro (stipendio lordo mensile).

Su uno stipendio di 10.000 euro lorde annuali si applica un’aliquota IRPEF pari al 23%. Da 10.000 bisogna  togliere 2.300 euro e quindi rimangono 7.700 euro. Da questi si dovrà togliere un ulteriore 1000 euro di INPS e altri contributi, quindi si arriva a 6.600 euro. Tale importo si divide 6.600 euro per 14 (se il CCNL prevede 14 mensilità) si otterrà 470 euro netti al mese circa.

Con il part-time agevolato lavoratore potrà concordare col datore di lavoro il passaggio al part-time, con una riduzione dell'orario tra il 40 ed il 60%, e di ricevere mensilmente l'importo corrispondente ai contributi previdenziali e alla contribuzione figurativa. La misura si rivolge solo ai lavoratori del settore privato. I requisiti richiesti per l’accesso sono i seguenti:

contratto a tempo indeterminato;

lavoro a tempo pieno;

20 anni di contributi versati (requisito contributivo minimo per la pensione di vecchiaia);

requisito anagrafico maturato entro il 31 dicembre del 2018. nel caso in cui il lavoratore decida di ridurre il proprio orario di lavoro del 50%, grazie al meccanismo previsto all’interno del decreto, riceverà una retribuzione corrispondente a circa il 65% di ciò che percepiva in precedenza. Nel momento in cui andrà in pensione, riceverà il 100% dell’assegno previdenziale.


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