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giovedì 9 aprile 2020

Firma sulla busta paga: non vale come ricevuta



Sentenza Cassazione Lavoro n. 21699 -2018: non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza della retribuzione percepita dal lavoratore rispetto a quella risultante dai prospetti di paga. Le buste paga sottoscritte dal lavoratore con la formula "per ricevuta" costituiscono prova solo della avvenuta consegna dello specifico documento e non anche dell'effettivo pagamento, che deve essere provato diversamente dal datore di lavoro. Questo il principio riaffermato dalla Cassazione nella sentenza n. 21699 -2018, con numerosi precedenti conformi.

Il caso in particolare riguardava un lavoratore che vantava verso l'azienda differenze retributive e per t.f.r. per complessivi 26.831,41 euro. All'esito della prova testimoniale, il giudice del lavoro rigettava la domanda del lavoratore mentre la Corte d'Appello accoglieva il suo ricorso.

I giudici della Cassazione hanno rigettato il ricorso dell’azienda, basandosi sull’orientamento giurisprudenziale maggioritario secondo cui l’obbligo, previsto a carico del datore di lavoro dall'art. 1 della legge 5 gennaio 1953 n. 4, di consegnare ai lavoratori dipendenti all'atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l'indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non fornisce la prova dell'avvenuto pagamento: infatti non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, e se il lavoratore contesta che il pagamento sia avvenuto  spetta al datore di lavoro la prova rigorosa dei pagamenti in effetti eseguiti.

Di conseguenza, non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza della retribuzione percepita dal lavoratore rispetto a quella risultante dai prospetti di paga ed è sempre possibile l'accertamento della insussistenza del carattere di quietanza anche delle sottoscrizioni eventualmente apposte dal lavoratore sulle busta paga.

Il principio è stato recentemente esplicitamente ribadito anche nella norma che vieta l'erogazione in contanti della retribuzione, contenuta nella legge di bilancio 2018 L.208-2017. Ovvero le regole sono cambiate dal 1° luglio 2018, da quando cioè lo stipendio deve essere pagato necessariamente tramite accredito sul conto corrente ossia il bonifico bancario. Un obbligo che viene escluso solo in casi eccezionali come ad esempio nel lavoro domestico (colf, badante, domestica). Leggi a riguardo Posso pagare lo stipendio in contanti? La legge ha così cambiato le regole sul valore della firma sulla busta paga che, ad oggi, non ha più rilievo. Difatti solo l’estratto conto o la documentazione bancaria può dimostrare l’avvenuto pagamento dello stipendio e non anche la sottoscrizione del cedolino.

La busta paga che viene fatta firmare dal datore di lavoro ai propri dipendenti per ricevuta, non ha alcun valore. Tale pratica non prova che il datore di lavoro abbia effettivamente pagato il lavoratore e assolto al suo obbligo. Spesso la busta paga viene fatta firmare ai dipendenti ancor prima di ricevere materialmente il relativo pagamento. E se il datore di lavoro effettivamente non procede al versamento delle somme? In detti casi, il lavoratore può stare tranquillo. La firma sulla busta paga per ricevuta messa in calce al documento non ha quindi nessuna valenza.

Firma sulla busta paga per ricevuta: la vicenda
Il caso riguarda un dipendente che vantava differenze retributive e il mancato pagamento del trattamento di fine rapporto (TFR) per un importo complessivo di 26.831,41 euro. Il dipendente agisce per vie legali, ma la il giudice del lavoro con sentenza di primo grado rigetta la domanda del ricorrente, con la condanna dell’attore al pagamento delle relative spese.

Busta paga quietanza valore probatorio: la sentenza
I giudici della Corte Suprema respingono il ricorso della società. Per questi ultimi, la sottoscrizione è prova solo dell’avvenuta consegna della busta paga e non del pagamento della cifra ivi contenuta.

Sul tema, precedenti interventi della Cassazione ha stabilito come “soltanto la sottoscrizione apposta dal dipendente sui documenti fiscali relativi alla sua posizione di lavoratore subordinato (CUD e mod. 101) costituisce quietanza degli importi ivi indicati come corrisposti da parte del datore di lavoro, ed ha il significato di accettazione del contenuto delle dichiarazioni fiscali e di conferma dell’esattezza dei dati ivi riportati” (Cass. lav. n. 245 – 11/01/2006).

Quindi, la scusa del datore di lavoro di far valere la firma del dipendente sul cedolino come prova del fatto di aver versato l’importo indicato sullo stesso, non può essere fatto valere. Al riguardo, l’art. 1, co. 913 ha previsto anche un regime sanzionatorio; in tale articolo è espressamente specificato che il datore di lavoro o committente che viola l’obbligo di retribuire il dipendente in maniera telematica, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 euro a 5.000 euro. L’importo della sanzione varierà in base alla gravità e la durata della violazione.

In definitiva, inserire la dicitura “per accettazione” serve soltanto al datore di lavoro a indicare a che titolo il dipendente sta firmando un documento. Il dipendente, per assurdo, potrebbe anche rivendicare lo stipendio affermando di non averlo ricevuto. In questo modo, invece, si attesa che almeno il dipendente ne abbia preso visione.

Nel caso della dicitura “per ricevuta” invece, l’apposizione del nome e cognome del dipendente dimostra solo che questi ha avuto una copia della busta paga; non ha alcun valore invece in merito al ricevimento dello stipendio che il datore evidentemente dovrà dimostrare in altro modo.

Infine, la dicitura “per quietanza” sta a significare che è avvenuto il ricevimento di una prestazione e, quindi, anche del denaro. Ma questo ora non è più sufficiente. Inserire semplicemente la predetta dicitura per conservare la prova di aver adempiuto al proprio obbligo retributivo non è più valido.

Con ordinanza n. 21699/2018, la Corte di Cassazione ha affermato che la firma per ricevuta del lavoratore sulla busta paga, non dimostra l’effettivo pagamento della somma indicata sul documento. I giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come la sottoscrizione è prova solo dell’avvenuta consegna della busta paga e non del pagamento della cifra ivi contenuta. Precedenti decisioni della Cassazione hanno evidenziato come “soltanto la sottoscrizione apposta dal dipendente sui documenti fiscali relativi alla sua posizione di lavoratore subordinato (CUD e mod. 101) costituisce quietanza degli importi ivi indicati come corrisposti da parte del datore di lavoro, ed ha il significato di accettazione del contenuto delle dichiarazioni fiscali e di conferma dell’esattezza dei dati ivi riportati” (Cass. lav. n. 245 – 11/01/2006).

Il dipendente potrebbe anche lamentare il fatto di aver ricevuto uno stipendio più basso di quello indicato in busta paga. Questa purtroppo è una prassi di alcune aziende che neanche le regole sul pagamento con bonifico sono riuscite ad arginare completamente. Difatti esiste l’abitudine di erogare, al lavoratore, l’intera busta paga sul conto corrente obbligandolo poi a restituire in contanti la differenza; in tal modo il lavoratore ottiene uno stipendio più basso di quello documentato. In tali ipotesi purtroppo spetta al lavoratore dimostrare l’illecito del datore di lavoro (magari anche con registrazioni o testimoni). Tuttavia, c’è anche da dire che se questi si rifiuta di restituire la differenza non potrà certo essere licenziato.



venerdì 23 novembre 2018

Legittima l’indennità di disoccupazione anche se il lavoratore ha un con contratto a termine



Lo stato di disoccupazione normativamente rilevante ai fini del diritto all'indennità di disoccupazione non equivale alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto alla percezione di redditi di importo inferiore alla soglia minima imponibile per legge (Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza 17 ottobre 2018, n. 26027).

La Corte di Cassazione ha riconosciuto l’indennità di disoccupazione al lavoratore in somministrazione che perde uno dei 2 contratti che lo legano al datore somministratore, dovendosi ritenere che lo stato di disoccupazione normativamente rilevante ai fini del diritto all'indennità di disoccupazione non equivalga alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto alla percezione di redditi di importo inferiore alla soglia minima imponibile per legge.

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 17 ottobre 2018, n. 26027, ha riconosciuto il diritto all’indennità di disoccupazione per un lavoratore in somministrazione che aveva perso uno dei 2 contratti stipulati tramite agenzia, mantenendone uno. Infatti, respingendo il ricorso dell'INPS , i Supremi giudici affermano che  lo stato di disoccupazione normativamente rilevante ai fini del diritto all’indennità di disoccupazione non equivale alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto al fatto di percepire un reddito inferiore alla soglia minima imponibile per legge.

Il caso aveva ad oggetto la stipula di più contratti di somministrazione a tempo determinato, da parte di una lavoratrice rimasta poi disoccupata che aveva inoltrato richiesta di corresponsione di indennità di disoccupazione.

In primo grado, il Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, aveva condannato l’Inps a corrispondere alla lavoratrice l’indennità di disoccupazione
L’istituto previdenziale era ricorso davanti alla Corte di appello di Torino che aveva ribadito, in linea con la decisione del giudice del lavoro, che non poteva esservi dubbio sul fatto che l’indennità di disoccupazione spettasse al lavoratore occupato contemporaneamente presso due diversi datori di lavoro che, a partire da una certa data in avanti, avesse perduto uno dei due contratti, ricadendo quindi sotto la soglia reddituale; di conseguenza aveva rigettato il ricorso prodotto dall’Inps.

A questo punto, l’Inps aveva ricorso in Cassazione rilevando che  tale decisione avrebbe male interpretato la disciplina prevista dall’ordinamento previdenziale secondo la quale l’indennità di disoccupazione è riconosciuta solo a favore di coloro che involontariamente non siano più titolari di un rapporto di lavoro, anche se non stabile e continuativo nel corso dell’anno. In altri termini, a detta del ricorrente, la scriminante per l’erogazione di suddetto istituto previdenziale era determinata dalla mancanza di lavoro, tout court, ed a tale proposito il riferimento normativo a sostegno di tale tesi era contenuto nel R.D.L. n. 1827 del 1935, precisamente l’art. 45, terzo comma, secondo cui “L’assicurazione per la disoccupazione involontaria ha per scopo l’assegnazione agli assicurati di indennità nei casi di disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro”.

Ad avviso della Corte di Cassazione il ricorso dell’Inps è da ritenersi infondato in quanto non è giuridicamente legittimo introdurre, e, quindi, fare valere, una discriminazione tra la specie di un unico datore di lavoro somministratore rispetto a più rapporti di lavoro part time a tempo determinato del lavoratore somministrato, a quella di un lavoratore titolare di più rapporti di lavoro a tempo parziale con distinti datori di lavoro. Quanto affermato, soprattutto in considerazione del fatto che la parte debole del rapporto di lavoro (id est, il lavoratore) in ambedue i casi si vedrebbe privato della propria fonte reddituale di sostentamento.

I Giudici di legittimità hanno, pertanto, riconosciuto pregio giuridico alla decisione della Corte di Appello di Torino la quale aveva stabilito che lo stato di disoccupazione normativamente rilevante ai fini del diritto all’indennità di disoccupazione non equivale alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto alla percezione di redditi di importo inferiore alla soglia minima imponibile dalla legge.

La Corte di Cassazione, inoltre, ha richiamato una propria precedente pronuncia (Cass. Sez, lav. n. 705/2016) dove, in un caso di collocamento in mobilità per uno dei due rapporti a tempo parziale cui  era interessato un lavoratore, ha stabilito che “Il lavoratore titolare, contemporaneamente, di due rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale cd orizzontale, collocato in mobilità per uno dei due con prosecuzione dell’altro, ha diritto alla relativa indennità stante la facoltà, prevista per l’iscritto alle liste di mobilità della L. n. 223 del 1991, art. 8, comma 6, di svolgere lavoro a tempo parziale pur mantenendo l’iscrizione;




sabato 17 novembre 2018

Ferie non godute e indennità: quando si perdono



Se il datore di lavoro invita a fruire delle ferie e il lavoratore non lo fa, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, perde anche il diritto all'indennità sostitutiva, che invece spetta agli eredi: le sentenze della Corte di Giustizia UE.

Niente indennità sostitutiva delle ferie non fruite dal lavoratore, non richieste per sua volontà, in caso di cessazione del rapporto di lavoro. A stabilirlo è stata la Corte di Giustizia UE con le recenti sentenze C-619/16 e C-684/16). Diversamente il diritto del lavoratore a un’indennità finanziaria per le ferie non godute è trasmissibile agli eredi allorché sia deceduto (sentenza C-596/16 della stessa Corte di Giustizia UE).

I principi esposti dalla Corte si applicano sia in caso di occupazione nel settore pubblico sia in quello privato.

La monetizzazione delle ferie non godute per i dipendenti della Pubblica Amministrazione non è una procedura automatica e prevede un iter soggetto a limiti e alla presentazione di documenti specifici che possano motivare la richiesta di indennizzo sostitutivo.

Lo ha affermato da Corte di Cassazione con l’ordinanza 20091 del 30 luglio 2018, decisione che sottolinea come per poter incassare le ferie non godute sia necessario produrre documenti che dichiarino l’esistenza di circostanza e motivazioni specifiche che hanno portato alla necessità di rinunciare ai giorni di vacanza, in particolare definite esigenze di servizio o altre motivazioni inderogabili.

Nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico se l’interessato non prova che esso è stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da cause di forza maggiore.

La Cassazione, in sostanza, pone un limite preciso ai dipendenti pubblici che accumulano un notevole quantitativo di ferie arretrate nella speranza di richiedere, successivamente, un’indennità sostitutiva tale da convertire i giorni di assenza non goduti in denaro percepito attraverso il compenso.

In particolare il diritto alle ferie si estingue quando queste non siano state fruite per volontà del lavoratore, nonostante l’invito dal datore di lavoro a farlo. E questo principio è valido anche con riferimento al periodo minimo legale, pari a quattro settimane di ferie retribuite, generalmente un diritto irrinunciabile e mai monetizzabile se non a fine rapporto di lavoro.

Nel caso esaminato dalla Corte, circa due mesi prima della fine del rapporto, il datore di lavoro aveva invitato il lavoratore a fruire della rimanenza di ferie, senza costringerlo a osservare date prefissate. Il dipendente tuttavia aveva scelto, per ragioni proprie, di fruire di soli due giorni di ferie.

La Corte UE ha dunque chiarito che le norme UE non sono contrarie alla perdita del diritto alle ferie annuali non fruite e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla perdita del correlato diritto a un’indennità sostitutiva per le ferie non godute quando il lavoratore non abbia formulato richiesta di fruizione prima della cessazione del rapporto di lavoro e sia stato posto dal datore di lavoro, con informazione adeguata, in condizione di fruirne in tempo utile.

Questo perché viene ritenuto non legittimo il comportamento del lavoratore che si astenga deliberatamente dal fruire le proprie ferie annuali al fine d’incrementare la propria retribuzione all’atto della cessazione del rapporto.

Diversamente, in caso di decesso del lavoratore che non abbia fruito delle ferie che gli spettavano, il diritto all’indennità per ferie non godute non si estingue ma si trasmette agli eredi.

La Corte ha inoltre affermato che nel caso in cui il diritto nazionale escluda la possibilità per gli eredi di chiedere all’ex datore di lavoro del lavoratore deceduto un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute dal congiunto, gli eredi possono invocare direttamente il diritto dell’Unione.



sabato 12 maggio 2018

Licenziamento in malattia: controllo sui social legittimo



Il dipendente assente per malattia non è totalmente al sicuro dal licenziamento: ci sono dei casi, infatti, in cui l’azienda può recedere il contratto di lavoro.

La legge tutela il lavoratore che si ammala riconoscendogli un’indennità di malattia e preservandolo da possibili provvedimenti disciplinari da parte del datore di lavoro. Infatti, il datore di lavoro può recedere il contratto solamente una volta decorso il periodo di comporto stabilito dalla legge. Quindi non si può licenziare un dipendente in malattia a meno che questa non si prolunghi oltre il cosiddetto periodo di comporto.

Il dipendente in malattia non ha solamente dei diritti, ma anche dei doveri. La Corte di Cassazione ha stabilito la legittimità del licenziamento qualora il dipendente in malattia svolga attività che possono ostacolare la sua guarigione.

Il periodo coperto dall'indennità di malattia, prevede che i dipendenti rispettino determinati doveri. Non solo il dipendente deve fare comunicazione della malattia al proprio datore di lavoro, richiedere il certificato al proprio medico di base e rispettare gli orari di reperibilità previsti per le visite fiscali, ma è anche chiamato a curarsi e a non svolgere tutte quelle attività che potrebbero peggiorare le proprie condizioni di salute oppure rallentare il percorso di guarigione. Qualora non venissero rispettati anche queste ultime indicazioni, il lavoratore in malattia può essere licenziato dal proprio datore di lavoro per giusta causa.

Il lavoratore in malattia è obbligato a mantenere un comportamento idoneo a consentire il corretto decorso della malattia, agevolando la guarigione. Lo svolgimento di attività che vadano a compromettere la guarigione può essere motivo di licenziamento per giusta causa da parte dell’azienda, anche se la prova di tale comportamento arriva mediante foto e/o video pubblicati dal lavoratore sui social network. E’ quanto ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6047/2018 che ha legittimato il licenziamento intimato per giusta ad un lavoratore che durante il periodo di assenza per malattia si era esibito in un concerto, postando poi su Facebook tale attività.

Tuttavia ci sono altri due casi in cui il dipendente assente a causa di malattia, infortunio sul lavoro o gravidanza, può essere licenziato. Il primo è quello per cui il licenziamento è giustificato da motivazioni estranee alla malattia; ad esempio si può recedere dal contratto in caso di crisi aziendale (licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

Il secondo caso riguarda il dipendente per cui l’assenza per malattia - purché inferiore al periodo di comporto - abbia arrecato un grave pregiudizio all’azienda impedendo la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Licenziare un dipendente assente per malattia è possibile ma solamente quando sussistono determinate condizioni. Facciamo chiarezza analizzando caso per caso quando il licenziamento è legittimo.

Il caso arrivato in Cassazione ha visto vincere un'azienda che aveva disposto un licenziamento per giusta causa di un dipendente in malattia per lombosciatalgia che, durante il periodo di indennità ha partecipato a un concerto, suonando sul palco con il suo gruppo musicale. L'azienda è venuta a conoscenza dell’accaduto tramite il profilo Facebook del dipendente stesso.

La risposta della Corte di Cassazione è stata chiara: l’azienda è legittimata a procedere con il licenziamento per giusta causa qualora il dipendente svolga attività che con molta probabilità prolungano il periodo di malattia. Lo svolgimento dell'attività di rischio, aggiunge la Cassazione, porta a presumere l'inesistenza stessa della malattia, gettando le base per la giustificazione di un licenziamento da parte del datore di lavoro.

Motivi di licenziamento

Il dipendente che si assenta dal posto di lavoro a causa di una malattia o di un infortunio è tutelato per un determinato periodo di tempo. La legge infatti stabilisce che l’azienda non può licenziare il dipendente a causa dell’assenza protratta per malattia, a meno che questa non superi il periodo di comporto.

Il secondo caso in cui è possibile licenziare un dipendente assente per malattia è quello giustificato da motivo oggettivo. La legge, ad esempio, permette al titolare di un’azienda in difficoltà di risolvere la crisi licenziando il personale in esubero. In caso di crisi o ristrutturazione aziendale, quindi, anche il lavoratore in malattia può essere compreso nel licenziamento collettivo. Il licenziamento però deve essere indipendente dall’assenza per malattia: in pratica il titolare dell’azienda deve dimostrare che avrebbe licenziato il dipendente malato anche se questo fosse stato regolarmente a lavoro.

Negli ultimi anni la giurisprudenza si espressa in favore di quei datori di lavoro che hanno licenziato dei dipendenti che - approfittandosi della loro malattia - sono diventati poco produttivi e inefficienti, arrecando così un grave pregiudizio all’impresa.

Quando il dipendente è colpevole di scarso rendimento l’azienda può procedere con il licenziamento anche prima della scadenza del periodo di comporto. Tuttavia spetterà al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è giustificato da:

il comportamento negligente del dipendente. Dovrà provare inoltre che questo atteggiamento non è causato dall’organizzazione del lavoro aziendale né da fattori socio ambientali;

la profonda sproporzione che c’è tra gli obiettivi previsti e i risultati effettivamente raggiunti dal dipendente.

Inoltre la giurisprudenza stabilisce che per valutare lo scarso rendimento del dipendente - fattore che giustifica il licenziamento - bisogna prendere in considerazione un arco temporale piuttosto lungo e non dei casi sporadici.

Infine ricordiamo che ci sono delle situazioni in cui il licenziamento può scattare anche in seguito ad una sanzione disciplinare; ad esempio, se il dipendente in malattia non si rende reperibile in più di un’occasione al controllo del medico fiscale disposto dall’INPS può essere soggetto al licenziamento.



giovedì 10 maggio 2018

Lavoro part time: la retribuzione



Il contratto part time, conosciuto anche come tempo parziale, è un tipo di contratto che ha un orario ridotto, ossia una parte rispetto a quello previsto dal contratto a tempo pieno che è in generale di 40 ore settimanali (o eventuale orario minore secondo quanto fissato dai cosiddetti CCNL, contratti collettivi nazionali lavoro). Pertanto, se vieni assunto con un contratto di tale tipo, sai già che le tue attività lavorative avranno un orario che non potrà mai essere uguale a quello previsto dal full time. Di contro, la tua retribuzione sarà proporzionalmente ridotta sulla base delle ore effettivamente lavorate.

Il lavoratori part-time hanno diritto alla stessa retribuzione oraria dei dipendenti full-time con il medesimo inquadramento: la sentenza della Cassazione.

Con l’Ordinanza n. 8966/2018 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale il lavoratore a tempo parziale ha diritto alla medesima retribuzione oraria spettante al lavoratore a tempo pieno inquadrato al medesimo livello, ovvero con il medesimo inquadramento in base al contratto collettivo di lavoro.

Viene quindi confermato il comportamento scorretto, contrario al principio di non discriminazione e in contrasto con le norme comunitarie, dell’azienda che applica ai lavoratori part-time un divisore orario sfavorevole rispetto a quello applicato ai corrispondenti lavoratori a tempo pieno, utilizzando criteri di comparazione diversi da quello legale, avente ad oggetto l’inquadramento del dipendente ai sensi del CCNL applicabile.

I giudici ricordano che l’Accordo quadro UE sul lavoro a tempo parziale, che vieta ogni forma di discriminazione rispetto ai contratti full-time. Nessuna circostanza di fatto, come l’adibizione a turni, può essere utilizzata dal datore di lavoro per giustificare una disparità di trattamento che si rifletta sulla retribuzione globale.

In presenza di tale disparità, il lavoratore può presentare richiesta all’azienda e ottenere di diritto la refusione delle differenze retributive.

Il nuovo Decreto consente al datore di lavoro di  richiedere prestazioni di lavoro supplementare al lavoratore assunto con contratto a tempo parziale in qualsiasi forma (orizzontale, verticale o misto) , nel limite  del 25% di ore settimanali,  prevedendo una  maggiorazione economica del 15% , anche in assenza di disposizioni contrattuali . Se il contratto prevede maggiorazioni superiori devono essere applicate in luogo a quella minima ,  in caso contrario,  deve essere applicato il 15%) .

Il lavoratore può rifiutarsi di prestare il lavoro supplementare solo in presenza di comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale.

in presenza di rifiuto  ingiustificato all'effettuazione di lavoro supplementare il lavoratore sarà assoggettato ai   provvedimenti disciplinari previsti dal contratto collettivo di lavoro.

La retribuzione oraria globale di fatto per la remunerazione del lavoro supplementare deve tener conto della paga base, della contingenza, Edr, scatti di anzianità, superminimo contrattato, cottimo, indennità di mensa, indennità varie, aumenti al merito, ecc. .

Occorre poi tenere conto della  retribuzione indiretta (ferie, festività , permessi annui retribuiti, premio di risultato (se erogato annualmente), premio ferie, mensilità aggiuntive) e  della retribuzione differita ( trattamenti di fine rapporto e preavviso ).

Vediamo di seguito un esempio di come effettuare il calcolo per la retribuzione del lavoro supplementare, un dipendente ha un  contratto di lavoro a tempo parziale orizzontale di 20 ore settimanali (4 ore al giorno dal lunedì al venerdì).  Il contratto non prevede la regolamentazione del lavoro supplementare e il dipendente ha lavorato tutto il mese  di aprile  2016 effettuando  15 ore di lavoro supplementare .

Ipotizzando una retribuzione oraria pari ed euro 9,00 (comprensiva di paga base, contingenza, scatto anzianità, premio produzione e superminimo);  ai fini del calcolo, però occorre considerare anche la retribuzione indiretta e differita ovvero :

a) retribuzione indiretta : tredicesima, ferie rol e ex festività :  ipotizziamo euro 0,90;

b) retribuzione differita : TFR  ipotizziamo euro 0,50.

La retribuzione da  assumere per il calcolo del lavoro supplementare è pertanto pari a 10,40 euro;

Maggiorazione 15 % = euro 1,56

Totale retribuzione  per lavoro supplementare euro 11,96 x 15 ore =  euro 179,40

La lavoratrice, assunta con contratto a tempo indeterminato con prestazione part-time a 80 ore mensili, articolate su turni giornalieri di 8 ore ciascuno per un minimo di 10 giorni al mese e 80 giorni l'anno, ricorre giudizialmente al fine di chiedere la condanna della società al pagamento delle differenze retributive, stante la corresponsione al personale a tempo parziale di una retribuzione oraria inferiore a quella dovuta al personale dipendente a tempo pieno.

La società si costituisce, sostenendo la legittimità del proprio operato, sulla base del riconoscimento al lavoratore part-time della stessa retribuzione oraria del lavoratore full-time, salva la concessione a quest’ultimo di una retribuzione complessivamente maggiore in ragione dello svolgimento di turni continui e avvicendati.

La Cassazione evidenzia, preliminarmente, come la normativa applicabile sia l’art. 4 del d.lgs. n. 61/2000, attuativo della direttiva 97/81/CE, relativa all'accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale (poi abrogato dal Jobs Act).

La sopraindicata disposizione, al fine di assicurare la soppressione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, prevede che gli stessi non debbano ricevere un trattamento economico-normativo meno favorevole rispetto ai prestatori a tempo pieno comparabili, con ciò intendendosi quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi.

Tale equiparazione, continua la sentenza, riguarda ovviamente anche l'importo della retribuzione oraria, con la conseguenza che il trattamento del lavoratore a tempo parziale deve essere riproporzionato unicamente in ragione della ridotta entità della prestazione.
Secondo i Giudici il rispetto del citato principio di non discriminazione esclude che la suddetta comparazione possa eseguirsi in base a criteri diversi da quello contemplato dalla norma con esclusivo riferimento all'inquadramento previsto dalle fonti collettive.
Su tali presupposti, la Suprema Corte, ritenendo l’operato della società lesivo dei su esposti principi, ha rigettato il ricorso proposto dalla medesima.


È possibile avere più part time contemporaneamente?

Si possono infatti avere due o più contratti part time con diversi datori di lavoro, purché appunto questi non superino il limite di 40 ore settimanali come stabilito dal D. Lgs. N.66 del 2003. Per fare un esempio, puoi tranquillamente avere un part time che inizia alle 9 e finisce alle 13 e un altro che va dalle 14 alle 18. Questo per quanto riguarda due contratti part time, va da sé che se hai un part time e un co.co.co o svolti lavoro autonomo, tali limiti non sono da considerare.
Come per tutti i lavoratori, è fondamentale che vengano garantiti i diritti di riposo giornaliero e settimanale.

Eccoli nel dettaglio:

il riposo minimo settimanale, pari ad almeno 24 ore consecutive ogni 7 giorni (inteso come media da rispettare nell’arco di 14 giorni);

il riposo giornaliero, pari ad 11 ore consecutive ogni 24 ore (in questo caso non è possibile considerare alcuna media).

Se per esempio, stai facendo due part time contemporaneamente ma non hai avvertito di questo il tuo datore di lavoro, sappi che se non rispetta i riposi, non è colpa sua quindi non sono previste sanzioni nei suoi confronti. Altra cosa importante: per svolgere due part time con due datori di lavoro differente è importante che tu rispetti il patto di non concorrenza quindi che non vada a lavorare per aziende che sono competitor.

Le parti possono pattuire clausole elastiche (che consentono lo spostamento della collocazione dell’orario di lavoro) o flessibili (consentono la variazione in aumento dell’orario di lavoro nel part time verticale o misto).





venerdì 20 aprile 2018

Licenziamento per giusta causa: valutazione del giudice



Licenziamento per giusta causa: il giudice deve valutare le circostanze del caso concreto e la portata soggettiva della condotta di lavoratore e datore. Il licenziamento per giusta causa di un lavoratore per ingiustificata assenza è illegittimo se non vi sa stato un preventivo richiamo e l’azienda non abbia risposto alla richiesta di un periodo di ferie per gravi motivi familiari. A tal fine, occorre che i giudici di merito chiamati a vagliarne la correttezza, valutino le condotte di entrambe le parti e l’entità degli addebiti formulati.

Con sentenza n. 9339 del 16 aprile 2018, la Corte di Cassazione ha affermato che, in tema di valutazione della giusta causa e del conseguente licenziamento, occorre rifarsi non soltanto alla fattispecie astratta determinata dalla contrattazione collettiva ma è necessario valutare il comportamento inadempiente del dipendente tenendo presenti gli aspetti oggettivi e soggettivi in cui è maturato.

Il giudizio comparativo deve valutare non soltanto il comportamento del lavoratore ma anche quello del datore di lavoro; tale valutazione appare necessaria per comprendere se, sulla base dei principi di correttezza e buona fede, lo stesso abbia una parte di responsabilità relativa all’inadempimento contestato. Nel caso di specie l’assenza ingiustificata superiore a 3 giorni era stata preceduta da una richiesta di ferie per gravi ed improrogabili esigenze familiari alla quale il datore non aveva dato riscontro: pochi giorni dopo era deceduto il genitore del dipendente.

Al termine dei tre giorni, senza effettuare prima alcun richiamo, il datore di lavoro ha intimato al lavoratore il licenziamento per giusta causa per assenza ingiustificata. Il lavoratore presentava quindi ricorso, accolto in primo grado e poi respinto dalla Corte di Appello. La Corte di Cassazione ha nuovamente ribaltato il giudizio affermando che: Il giudice di secondo grado ha emesso la propria decisione senza procedere alla valutazione della gravità del licenziamento in un necessario giudizio di comparazione delle reciproche condotte alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede.

Il dipendente aveva inviato al proprio datore di lavoro la domanda di fruizione delle ferie, motivata da “gravi ed improrogabili esigenze familiari”, per poter assistere il padre gravemente malato. L’azienda non aveva risposto e il dipendente si era, comunque, assentato nel periodo di ferie richiesto, durante il quale veniva colpito da lutto grave.

Allo scadere dei tre giorni dall’inizio dell’assenza ingiustificata, il datore di lavoro – senza effettuare prima alcun richiamo – ha proceduto con la contestazione dell’assenza ingiustificata, intimando il licenziamento per giusta causa al dipendente.

Il lavoratore ricorre in giudizio. La domanda di impugnativa del licenziamento era stata accolta in primo grado, mentre la Corte di Appello aveva riconosciuto legittima e proporzionata la decisione del datore di lavoro di licenziare il dipendente, ritenendo sussistente la proporzionalità della sanzione espulsiva, visto che il dipendente aveva superato i tre giorni di assenza ingiustificata previsti dal CCNL.

Con l’ordinanza n. 9339/2018, invece, la Suprema Corte ribalta il giudizio, ritenendo che “il giudice di secondo grado ha emesso la propria decisione senza procedere alla valutazione della gravità del licenziamento in un necessario giudizio di comparazione delle reciproche condotte alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede”.

Secondo i Giudici, infatti, non basta il richiamo alla sanzione prevista dalla contrattazione collettiva, perché quest’ultima non può essere soggetta ad una applicazione slegata dalla realtà concreta nel quale si è svolto il rapporto di lavoro.

Il giudizio di comparazione – secondo la Corte – richiede che venga esaminato non solo il comportamento del lavoratore, ma anche la condotta del datore di lavoro, che nel caso di specie non aveva risposto alla richiesta di ferie, per gravi motivi famigliari, del lavoratore.

Pertanto, deve sempre essere accertato il rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione e il giudice è obbligato ad accertare la reale entità e gravità delle infrazioni addebitate al dipendente, tenendo conto delle circostanze del caso concreto e della portata soggettiva della condotta.




venerdì 9 febbraio 2018

Legge n. 104: i permessi non sono ferie



L'azienda non può togliere dalle ferie i permessi 104 di chi assiste familiari con handicap, a differenza dei congedi parentali: sentenza di Cassazione, ovvero niente decurtazione dalle ferie dei giorni di permesso chiesti dal dipendente per assistere, ai sensi della legge 104, un familiare affetto da handicap.

I permessi per chi presta cure e assistenza ai familiari con handicap grave e previsti dalla legge 104/1992 non possono essere scalati dalle ferie a meno che non si sommino a periodi di congedo parentale: lo ha chiarito la Corte di Cassazione. In materia di permessi 104, la Cassazione ha di recente definito che chi si prende cura del familiare disabile non ha l’obbligo di fornire un’assistenza continuativa; in più, non è necessario che l’assistenza coincida con gli orari del lavoro. L’importante è dedicare la parte prevalente della giornata al familiare disabile, ma ciò non toglie che si possa anche approfittare per fare la spesa o – perché no – di sdraiarsi sul divano e riposarti. La ragione è presto detta: chi si prende in carico l’assistenza di un portatore di handicap è più “usurato” e impegnato dei colleghi di lavoro i quali, invece, dopo l’orario di servizio, possono dedicarsi ai loro svaghi. Ad avviso della Cassazione, l’assistenza al familiare disabile va inquadrata come un’attività pensate e onerosa, ma anche avente una funzione sociale che è quella della cura dei disabili, tutelata dalla stessa Costituzione. Così come tutelato dalla stessa Costituzione è il diritto alle ferie. Si parla quindi di due diritti sacrosanti che non possono essere calpestati. Proprio per tale ragione è giusto pretendere che anche i giorni di permesso ai sensi della legge 104 siano da considerare come normali giorni di lavoro e, come tali, computabili ai fini della maturazione delle ferie.

Si tratta di permessi retribuiti e coperti da contribuzione figurativa, riconosciuti a coniuge, parenti e affini entro il secondo grado, oppure entro il terzo grado se i genitori o il coniuge della persone con handicap grave hanno più di 65 anni, oppure siano affetti da patologie invalidanti o siano mancanti. Prevedono la possibilità di assentarsi dal lavoro per tre giorni al mese anche in via continuativa. La Corte chiarisce che questi tre giorni di permesso mensile non possono in alcun modo essere sottratti alle ferie.

Diverso è il caso dei congedi parentali ordinari e di quelli per malattia del figlio di età inferiore a tre anni previsti dalla legge 151/2011: questi congedi possono determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa, che giustifica un diverso trattamento.

I permessi di tre giorni previsti per i portatori di handicap, fra l’altro: si inseriscono nell’ambito della tutela dei disabili predisposta dalla normativa interna (in primis, dagli articoli 2, 3, e 38 della Costituzione) e internazionale.

Ad esempio la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 18/2009.

La Convenzione ONU, prosegue la sentenza:

prevede il sostegno e la protezione da parte della società e degli Stati non solo per i disabili, ma anche per le loro famiglie, ritenute strumento indispensabile per contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità.

Quindi, l’interpretazione della norma a favore di chi assiste familiari deve evitare:

che l’aggravio dei congiunti di portatori di handicap nella fruizione dei permessi possa vanificare le esigenze di tutela» e «scongiurare qualsiasi incidenza negativa sull’utilizzo dei permessi medesimi.

Non è quindi legittimo decurtare dalle ferie i giorni di permesso chiesti dal dipendente per assistere, ai sensi della legge “104”, un familiare affetto da handicap.

Del resto, non calcolare i giorni di permesso della 104 ai fini delle ferie significa discriminare i dipendenti che hanno la sfortuna di avere un familiare disabile con quelli che invece non ce l’hanno: i primi, infatti, oltre a dover rinunciare a una parte delle ferie, sono soggetti tre volte al mese a una cura e assistenza tutt’altro che leggera.

Resta ferma la non commutabilità dei permessi quando debbano cumularsi effettivamente con il congedo parentale ordinario – che può determinare una significativa sospensione della prestazione lavorativa – e con il congedo per malattia del figlio, per i quali compete un’indennità inferiore alla retribuzione normale.


giovedì 17 agosto 2017

Pensione di invalidità le nuove regole ecco cosa cambia



Nuove regole per la pensione di invalidità. Nella verifica dei redditi per la liquidazione delle prestazioni di invalidità civile i pagamenti arretrati soggetti a tassazione separata non devono più essere computati sulla base del principio di cassa, cioè nel loro importo complessivo, ma sulla base dei ratei maturati in ciascun anno di competenza. Lo specifica l'INPS nel messaggio 3098/2017, nel quale l'Istituto si conforma all'orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione.

Con tale messaggio l’INPS chiarisce le modalità di computo del reddito per l’erogazione delle prestazioni previdenziali ed assistenziali, distinguendo la procedura da seguire per i periodi futuri da quelli che riguardano le istanze già presentate. L'INPS che, acquisito il parere favorevole del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, nel suo messaggio ha stabilito, che nel computo dei redditi in tema di liquidazione delle prestazioni di invalidità civile gli arretrati siano calcolati non nel loro importo complessivo, ma sulla base dei ratei maturati in ciascun anno di competenza a prescindere dall'anno di competenza.

L’INPS ha stabilito che, a partire dal 25 luglio 2017, nel computo dei redditi in tema di liquidazione delle prestazioni di invalidità civile gli arretrati siano calcolati non nel loro importo complessivo, ma sulla base dei ratei maturati in ciascun anno di competenza. Di conseguenza le sedi, al fine di dare applicazione alla suddetta disposizione, in fase di acquisizione dei redditi, dovranno ripartire manualmente gli importi arretrati per anno di competenza.

Coloro che hanno ricevuto in passato una risposta negativa alla domanda di pensione, motivata dall’applicazione del principio di cassa, per ottenere le pensioni invalidità devono presentare specifica istanza.

Nuovo quadro normativo
Fino a ad oggi, le regole INPS per assegno sociale e prestazioni di invalidità civile si riferivano alla circolare del 2010 (126/2010), secondo cui:

per l’assegno sociale, nel calcolo dei redditi – ai fini del riconoscimento dell’assegno – si applicava il criterio di competenza;

per le pensioni di invalidità civile, tutti gli arretrati soggetti a tassazione separata, a prescindere dall’anno di competenza (criterio di cassa).

Sulla differenziazione è sorto un contenzioso giudiziario, concluso con sentenza di Cassazione 12796/2005 a sezioni unite, che ha dato torto all’INPS: per entrambe le tipologie di prestazione si applica il criterio di competenza.

Revisione domande
Le nuove domande vengono da oggi in poi lavorate in base al dettato della sentenza, recepita dal Messaggio copra citato. Per quanto riguarda istanze in precedenza respinte, ma che applicando l’orientamento accolto dalla Cassazione avrebbero avuto esito positivo, l’INPS di comporta nel seguente modo:

domanda respinta per la quale è pendente istanza di riesame: risposta positiva alla domanda;

domanda respinta per la quale è pendente ricorso amministrativo al Comitato provinciale: la sede INPS dovrà riconoscere la prestazione in autotutela;

domanda respinta per la quale, a seguito di ricorso al Comitato provinciale e di accoglimento dello stesso, il Direttore di Sede abbia sospeso la delibera di esecuzione: dopo la trasmissione della sospensiva alla Direzione centrale sostegno alla non autosufficienza, invalidità civile e altre prestazioni, la medesima Direzione trasmetterà alla Sede competente formale invito di accogliere l’istanza in autotutela.

Se la domanda era stata respinta e non c’è stato nessun seguito, il contribuente ripresenta domanda all’INPS, che dovrà accoglierla.



giovedì 8 giugno 2017

Licenziabile il manager: quando e motivazioni



Per la Cassazione lo svolgimento di attività extralavorativa in orario aziendale lede il vincolo fiduciario con il dipendente con mansioni direttive.

Lo svolgimento di attività extra lavorativa durante l'orario di lavoro, seppure in un settore non interferente con quello curato dal datore di lavoro, da parte di un responsabile commerciale con notevole autonomia nella gestione della attività, offendei il vincolo fiduciario tra le parti anche quando non comporta un danno economico all'Azienda e giustifica il licenziamento. In tale caso infatti le energie lavorative del prestatore vengono distolte ad altri fini e, quindi, finisce per essere non giustificata la corresponsione della retribuzione che, in relazione alla parte commisurata all'attività non resa, costituisce per il datore un danno economico e per il lavoratore un profitto ingiusto.

La sentenza della Cassazione n. 13199 del 25 maggio 2017 sottolinea inoltre, e soprattutto,  come il vincolo fiduciario con il dipendente risulta maggiormente stringente nel caso di attività autonome e lontane dal controllo diretto del datore di lavoro ed è più grave la lesione del patto, anche se non ne risulta un danno economico all'azienda.

Un Area Manager era stato licenziato per giusta causa a seguito della contestazione di calo di produttività, e fatti di rilievo disciplinare consistiti:

nell'avere portato sul luogo di lavoro articoli da commercializzare per conto di una società di cui faceva parte;

nell'essersi recato durante l'orario di lavoro presso il negozio di cui era socio;

di aver accumulato 13 episodi di ritardo nell'arrivo in azienda.

Il suo ricorso era stato respinto dal Tribunale mentre la Corte di Appello, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento e condannato la società a reintegrare nel posto di lavoro con risarcimento del danno, il giudice di appello ha ritenuto infatti che:

a) il problema gestionale derivante  dall'attività commerciale propria sul luogo di lavoro era  privo di prova certa;

b) l'avere costituito una società commerciale per la vendita di capi di abbigliamento di per sé non costituiva illecito disciplinare, in quanto non interferiva con quella svolta dal datore di lavoro;

c) l'avere raggiunto in due occasioni l'esercizio commerciale in orario di lavoro con l'autovettura aziendale non giustificava il licenziamento ma solo una sanzione conservativa, in quanto era un fatto episodico e senza conseguenze sull'attività aziendale;

d) la natura flessibile dell'orario richiesto al lavoratore, connessa alle mansioni direttive affidategli, rendeva priva di rilievo la timbratura effettuata oltre le ore 9:30.

La società ha presentato ricorso in cassazione, affidandosi a due motivi:

la società ricorrente denuncia che la Corte territoriale  non aveva considerato le ragioni per le quali la flessibilità dell'orario era stata concessa, per cui il mancato rispetto delle previsioni contrattuali non poteva ritenersi giustificato ogniqualvolta il dipendente, prima di recarsi in ufficio, aveva svolto attività di carattere personale, senza recarsi nelle sedi e nelle agenzie dislocate sul territorio;

la Corte ha errato nel non ritenere grave l'accertata attività esterna durante l'orario di lavoro, a causa della breve durata e per la mancanza di danno e nel considerare che sottrae all'obbligo la mansione direttiva che, invece, costituiva un'aggravante nella valutazione della condotta del lavoratore. Al lavoratore, infatti, erano affidati lo sviluppo e la gestione dei rapporti commerciali che, comportando una notevole autonomia nella gestione della attività, presupponevano l'esistenza di uno stringente vincolo fiduciario fra le parti.

I giudici della Cassazione hanno ritenuto fondato il secondo motivo, in quanto ha errato la Corte territoriale nel sostenere che «un comportamento illecito ridotto temporalmente», dal quale non sia derivato un pregiudizio concreto per il datore di lavoro, non sia idoneo a ledere il vincolo fiduciario, perché detta lesione può verificarsi ogniqualvolta la condotta ponga in dubbio la correttezza del futuro adempimento . Nel caso in cui la prestazione richiesta al dipendente, si svolga al di fuori della diretta osservazione e del controllo da parte del datore di lavoro, è maggiore l'affidamento che quest'ultimo deve potere riporre nella correttezza e nella buona fede del lavoratore.

Accogliendo il secondo motivo, i giudici si sono basati sul principio secondo cui “l'obbligo di fedeltà impone al lavoratore di astenersi dal porre in essere, non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi altra condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei una situazione di conflitto con gli interessi del datore di lavoro”.

Ricordiamo inoltre che il licenziamento del manager può essere legittimo anche quando i conti dell’impresa sono buoni, ovvero non sussiste un periodo di crisi aziendale e non ci sono spese straordinarie da sostenere, se la “soppressione” della sua posizione lavorativa è funzionale a un nuovo assetto riorganizzativo che, oltre a determinare una migliore efficienza può anche accrescere i margini di guadagno del datore di lavoro che sono pur sempre una ‘garanzia’ per la tenuta generale dei livelli occupazionali complessivi di una azienda. E' quanto ha sottolineato la Cassazione nella sentenza con la quale lo scorso 7 dicembre.

giovedì 27 aprile 2017

A chi spetta individuare il periodo di ferie



Il lavoratore dipendente è libero di scegliere le modalità e le località per usufruire di un periodo di ferie che ritenga più utili. E la sua reperibilità può essere oggetto di specifico obbligo disciplinato dal contratto individuale o collettivo del lavoratore in servizio, ma non già del lavoratore in ferie.


Il Codice Civile, all’art. 2109: “Il prestatore di lavoro ha … anche diritto … ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità”, contempla i seguenti tre principi:

le modalità di fruizione delle ferie sono stabilite dall’imprenditore, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro;

la durata delle ferie è stabilita dai contratti collettivi;

l'imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie;

il periodo di preavviso non può essere computato nelle ferie;

i contratti collettivi possono prevedere periodi di ferie ulteriori a quello legale. Questi periodi possono essere fruiti in base a quanto esplicitato dal contratto collettivo e, quindi, in astratto, anche successivamente al 18° mese dalla maturazione;

il mancato riconoscimento del periodo di ferie, nei limiti della previsione legale, comporta una sanzione amministrativa pecuniaria, in capo al datore di lavoro, da Euro 100 ad Euro 600; se, invece, la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata in almeno due anni, la sanzione è da Euro 400 ad Euro 1.500; infine, se la violazione si riferisce a più di dieci lavoratori ovvero si è verificata in almeno quattro anni, la sanzione amministrativa pecuniaria è da Euro 800 ad Euro 4.500 e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.

Secondo la giurisprudenza, l’individuazione del periodo feriale deve tener conto dei due interessi contrapposti, quello del lavoratore a fruire di un periodo di riposo sufficiente a reintegrare le energie perdute lavorando, e quello del datore di lavoro al buon funzionamento dell’azienda. Più precisamente, si ritiene che la scelta del periodo feriale sia idonea a salvaguardare l’indicato interesse dal lavoratore alla sola condizione che il numero delle giornate di ferie sia congruo: pertanto, mentre – per esempio – non sarebbe idoneo allo scopo imporre al lavoratore di fruire di una o di due giornate di ferie, il datore di lavoro potrebbe anche unilateralmente imporre al proprio dipendente la fruizione di una settimana di ferie, a condizione di provare che ciò è coerente con il buon funzionamento dell’azienda.

Sulla scorta di tali principi, una sentenza della Corte di Cassazione ha ritenuto irrilevante addirittura la circostanza che il periodo di ferie già fosse stato concordato, e che il lavoratore già avesse prenotato le proprie ferie. Più precisamente, in quel caso il lavoratore, dopo che le ferie erano state concordate e dopo aver prenotato un albergo in coincidenza del periodo feriale, a seguito del rinvio del periodo feriale disposto unilateralmente dal datore di lavoro, per sopravvenute urgenti necessità organizzative, si era ugualmente assentato dal lavoro per qualche giorno, durante il periodo feriale originariamente pattuito, per recarsi nella località turistica dove aveva effettuato la prenotazione, per disdirla.

Conseguentemente, il datore di lavoro, dopo aver contestato la circostanza sopra illustrata e aver sentito il lavoratore a sua difesa, lo aveva licenziato, considerando ingiustificata l’assenza dal posto di lavoro. La domanda giudiziaria presentata dal lavoratore, che aveva impugnato tale licenziamento sotto il profilo della carenza di alcuna valida giustificazione, era stata rigettata dai Giudici di merito, con pronunce confermate dalla Suprema corte: infatti, è stato ritenuto che il datore di lavoro, avendo provato l’effettiva sussistenza della necessità organizzativa che rendeva necessario spostare il periodo feriale originariamente concordato, legittimamente aveva modificato, sia pure unilateralmente, il periodo delle ferie.

La suprema Corte ha sottolineato come il lavoratore, una volta messo a conoscenza della distribuzione delle ferie nell’arco dell’anno, abbia un vero e proprio onere di comunicare tempestivamente all’azienda eventuali esigenze personali che giustifichino una richiesta di modifica del periodo fissato. In mancanza, ha osservato la Suprema Corte, è possibile ritenere che il silenzio del lavoratore sia qualificabile alla stregua di un vero e proprio assenso tacito alla scelta della società. Con l’ulteriore conseguenza che un eventuale spostamento delle ferie potrebbe in seguito essere giustificato e richiesto solo adducendo motivi sopravvenuti ed originariamente imprevedibili.

Il diritto alle ferie è irrinunciabile e, pertanto, tale periodo non è monettizabile diversamente, ossia non è sostituibile con una indennità per ferie. Solo se il rapporto termini prima del godimento della pausa feriale, il lavoratore avrà diritto a percepire una indennità proporzionale alle ferie non godute. E’ in vigore il principio della insostituibilità del periodo minimo di ferie (fissato in quattro settimane) con il pagamento di un’indennità in denaro, e ciò ad eccezione dell’ultimo anno del rapporto di lavoro.

Il periodo minimo di ferie annue è pari a quattro settimane per ogni lavoratore. Il diritto alle ferie è irrinunciabile e non può essere sostituito da indennità economiche eccetto nei casi di cessazione di rapporto di lavoro: solo in tali casi le ferie non godute vengono monetizzate e convertite in quote di retribuzione giornaliera.

La metà delle ferie deve essere fruito obbligatoriamente entro l'anno, la restante parte di ferie non godute nei successivi 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. In caso contrario il datore di lavoro è passibile di sanzioni.

Il lavoratore può richiedere le ferie in qualunque momento dell'anno. La richiesta di ferie, ancorché soggetta a valutazione del datore di lavoro in merito alle esigenze di aziendali, deve essere presentata con congruo anticipo.





mercoledì 26 aprile 2017

Mobbing, quando si può denunciare



Il Mobbing è una forma di terrore psicologico, il più delle volte senza una reale ragione, che viene esercitato sul luogo di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte di colleghi, superiori e datori di lavoro.

Generalmente è un comportamento persistente ed offensivo che si riassume in un abuso di potere e che causa nell’aggredito sentimenti di disperazione, umiliazione e facile vulnerabilità. E' un atteggiamneto che  mina la fiducia in se stessi e diventa causa di un enorme stress.fini della configurabilità del mobbing occorre quanto segue:

la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

l’evento lesivo della salute e della personalità e dignità del dipendente, il nesso eziologico tra la condotta del datore o il superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore, la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio, ai fini della configurabilità del mobbing.

 In altro senso, il mobbing è caratterizzato da una condotta del datore di lavoro o superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore all’interno dell’ambiente di lavoro, consistente in reiterati e sistemici atti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica determinanti la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente con effetti lesivi dell’equilibrio psico-fisico e della personalità del medesimo.

È, in definitiva, un dato acquisito che il mobbing, per assumere rilevanza giuridica, implica la esistenza di plurimi elementi di natura oggettiva e soggettiva.

Il lavoratore può denunciare il datore di lavoro, il capo, o i colleghi per mobbing se ha subito una serie ripetuta di condotte illecite che hanno leso la sua dignità. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 2142/17) ha stabilito i cinque fattori principali che devono sussistere affinché si possa parlare di mobbing:

1) Comportamenti ostili in serie;

2) La ripetitività delle vessazioni per un congruo periodo di tempo: è stato ritenuto congruo un periodo pari a circa sei mesi;

3) La lesione della salute e della dignità del dipendente (ad esempio il disturbo di adattamento o la depressione);

4) Un rapporto di causa-effetto tra le condotte del datore e il danno subito dalla vittima: il secondo deve cioè essere conseguenza delle prime e di nient'altro;

5) L'intento persecutorio che collega tutti i comportamenti illeciti.

La sentenza specifica che il mobbing esiste nel caso di condotte poste in essere "con dolo specifico, ovvero con la volontà di nuocere, infastidire, o svilire un compagno di lavoro, ai fini del suo allontanamento dall'impresa". Tra i casi di mobbing vi sono il demansionamento, per cui il lavoratore viene costretto a svolgere mansioni di livello inferiore rispetto a quelle per cui è stato assunto, l'emarginazione sul lavoro, le continue critiche, la persecuzione sistematica, l'irrogazione di sanzioni disciplinari e le limitazioni alla possibilità di carriera.

Il lavoratore che vuole agire contro l'azienda per mobbing deve provare la volontà persecutoria e il piano vessatorio messo in atto dal datore di lavoro o dai colleghi. Dal punto di vista difensivo - spiega ancora il sito di consulenza legale - il dipendente può ricorrere a diverse strategie: dimettersi per giusta causa e ottenere l'assegno di disoccupazione, rifiutarsi di lavorare oppure presentare un ricorso urgente in tribunale (cosiddetto articolo 700 del codice di procedura civile) chiedendo il risarcimento del danno.

Sono 7 i parametri del mobbing secondo la Corte di Cassazione che, con sentenza n.10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing  per provare di essere stati danneggiati sul lavoro:
ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio.


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mercoledì 12 aprile 2017

TFR: quando l’Inps paga al posto del datore di lavoro





L’INPS paga il TFR al lavoratore al posto dell’azienda se quest’ultima, pur non avendo avviato procedure fallimentari, sia comunque insolvente: lo stabilisce una nuova sentenza della Corte di Cassazione (numero 7924/2017). Il caso riguarda la liquidazione da un’impresa chiusa, con amministratori irreperibili (esecuzione forzata infruttuosa). Per accedere al Fondo di garanzia presso l'INPS, ex lege 297/1982, se il datore è assoggettabile a fallimento sono necessari tre requisiti: la cessazione del rapporto di lavoro, l'inadempimento integrale del datore e la sua insolvenza.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 7924/2017 pronunciatasi sulla vicenda di alcune lavoratrici che avevano chiesto condannarsi il Fondo di garanzia dell'Inps a corrispondere loro il trattamento di fine rapporto, dovuto in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro con una società.

In, generale, i lavoratori hanno diritto al trattamento di fine rapporto dal Fondo di garanzia INPS, in caso di insolvenza del datore di lavoro. La legge (297/1982), tuttavia, prevede due casi:

impresa sottoposta a procedure concorsuali

inadempimento del datore di lavoro (anche in misura parziale).

In caso di fallimento devono sussistere altre condizioni:

avvenuta cessazione del rapporto di lavoro;

mancato pagamento del TFR (o pagamento parziale);

insolvenza del datore di lavoro.

Se l’insolvenza è accertata anche in sede diversa da quella fallimentare, secondo la nuova sentenza di Cassazione, il lavoratore accede alle prestazione del Fondo di Garanzia, quindi riceve il TFR dall’INPS: «secondo una ragionevole interpretazione», il diritto spetta anche nel caso in cui «l’imprenditore non sia in concreto assoggettato al fallimento e l’esecuzione forzata si riveli infruttuosa».

L'azienda era rimasta inadempiente, il tentativo di esperimento di esecuzione forzata era rimasto infruttuoso per irreperibilità della società e dei suoi amministratori e il Tribunale a cui era stata avanzata istanza di fallimento si era dichiarato incompetente.

Tribunale e Corte d'Appello accolgono la richiesta delle lavoratrici, ritenendo sussistenti i presupposti per l'applicazione dell'art. 2 della L. 29 maggio 1982, n. 297, sul rilievo che la società aveva cessato l'attività quanto meno dal 2003, che non risultavano sue sedi o domicili o dei suoi amministratori realmente reperibili, che pertanto era improbabile sia una procedura concorsuale sia una effettiva e fruttuosa esecuzione, attesa la materiale irreperibilità di questi soggetti.

Le legge distingue distingue a seconda che il datore di lavoro sia stato sottoposto a una procedura concorsuale ovvero che il medesimo non adempia, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, alla corresponsione del trattamento dovuto o vi adempia in misura parziale.

Nel primo caso, relativo a datore di lavoro che sia un imprenditore commerciale soggetto alle procedure esecutive concorsuali, il pagamento da parte del Fondo è subordinato a tre requisiti: l'avvenuta cessazione del rapporto di lavoro; l'inadempimento del datore di lavoro per l'intero credito inerente al trattamento di fine rapporto o per una sua parte; l'insolvenza del medesimo datore di lavoro.

Per la giurisprudenza, l'ingresso a un'azione nei confronti del Fondo è consentita anche quando l'imprenditore non sia in concreto assoggettato al fallimento,  vuoi per le sue condizioni soggettive vuoi per ragioni ostative di carattere oggettivo, e l'esecuzione forzata si riveli infruttuosa.

Ove pertanto l'accertamento del credito in sede fallimentare sia stato impedito a causa della chiusura anticipata della procedura per insufficienza dell'attivo, il credito stesso può essere accertato anche in sede diversa da quella fallimentare e il lavoratore può conseguire le prestazioni del Fondo di garanzia.

Pertanto, secondo il meccanismo configurato dalla legge, la dichiarazione di insolvenza e la verifica sulla esistenza e misura del credito in sede fallimentare fungono da presupposti del diritto verso il Fondo di garanzia.

Solo nel caso in cui l'imprenditore non sia assoggettabile alla procedura concorsuale, è possibile l'intervento del fondo di garanzia a patto che il lavoratore dimostri, attraverso l'esperimento di "un'azione esecutiva, che deve conformarsi all'ordinaria diligenza e che sia esercitata in modo serio ed adeguato", l'insufficienza totale o parziale delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro inadempiente, coerentemente con il disposto dell'art. 2740 c.c.

Nel caso di specie, alla data di presentazione della domanda all'Inps da parte delle lavoratrici, la società risultava ancora iscritta al registro delle imprese, ed era pertanto assoggettabile al fallimento, giacché ai fini della decorrenza del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento di un'impresa svolta in forma societaria, occorre far riferimento solo alla data di cancellazione dal registro delle imprese.

Non può dirsi esclusa l'assoggettabilità a fallimento per il sol fatto che la società era sconosciuta alla sede risultante dai pubblici registri, ben avendo potuto la procedura fallimentare avviarsi, attraverso la notifica della convocazione del fallendo con il rito degli irreperibili, ex art. 143 c.p.c., ovvero attraverso la notifica sussidiaria al legale rappresentante presso la residenza anagrafica.

Parimenti insufficiente, secondo la Corte, ai fini dell'accertamento dello stato di insolvenza e, quindi, dell'intervento del Fondo di garanzia, è la sentenza declinatoria della competenza pronunciata dal Tribunale, contro la quale i lavoratori avrebbero potuto proporre impugnazione oppure riassumere in giudizio dinanzi al tribunale indicato come competente e qui ottenere la sentenza dichiarativa di fallimento o la sua chiusura per assoluta insufficienza dell'attivo.

Il lavoratore ha diritto al TFR dall’INPS anche con azienda non assoggettabile a fallimento, purché un’azione esecutiva dimostri l’insufficienza delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro inadempiente ( nel caso in esame, infatti, la società era stata erroneamente – secondo la Cassazione – ritenuta non assoggettabile al fallimento, per irreperibilità degli imprenditori e mancanza di un domicilio fiscale dell’impresa).

La Corte stabilisce che comunque sarebbe stato possibile avviare le procedure concorsuali (attraverso specifica procedura prevista per gli irreperibili, oppure notifica sussidiaria al legale rappresentante). Mentre era chiaramente insolvente, era cessato il rapporto di lavoro e non era stato pagato il TFR. Di conseguenza, le lavoratrici hanno diritto al pagamento del trattamento di fine rapporto da parte dell’istituto di previdenza.


martedì 14 marzo 2017

Colloquio disciplinare il lavoratore non puo mancare all'appuntamento fissato



In caso di provvedimento disciplinare, il lavoratore che fa richiesta di essere sentito oralmente per rendere le proprie giustificazioni non ha diritto ad un differimento dell'incontro per il colloquio fissato dal datore di lavoro per una certa data , in particolare se adduce una generica impossibilità di presenziare. Infatti l'obbligo di accogliere tale richiesta sussiste solo a fronte di un'esigenza difensiva non altrimenti tutelabile. Questa la conclusione della Corte di Cassazione nella sentenza n. 5314 del 2 marzo 2017.

Nel caso specifico il lavoratore aveva richiesto un colloquio difensivo oltre il termine di 5 giorni  dal momento della contestazione dell'addebito. Prima di questo termine come noto il  datore di lavoro non puo irrogare il provvedimento disciplinare (nel caso di specie il licenziamento) per consentire al lavoratore di presentare eventuali giustificazioni del suo comportamento (art. 7 c.2 Statuto dei lavoratori). Tuttavia il datore, a seguito di tale richiesta, aveva convocato il lavoratore per una certa data,e questi non si era presentato , fornendo giustificazioni mediche vaghe e non documentate.

La Cassazione nel rigettare il suo ricorso contro il licenziamento, ha confermato la decisione del giudice di merito che non ha giudicato in alcun modo inadempiente il datore di lavoro . Ha inoltre precisato che "la convocazione è evidentemente strumentale al colloquio a difesa e  non esiste alcuna norma della negoziazione collettiva, né l'art. 55 del D. Igs n. 165 2001, che preveda un  diritto del lavoratore al differimento dell'incontro".

Il lavoratore ha diritto – entro 5 giorni di calendario dal ricevimento della lettera di contestazione, che salgono a 10 giorni nel settore del credito cooperativo e a 15 giorni nel settore delle Assicurazioni (ANIA) – a formulare le proprie difese per iscritto e/o richiedendo un colloquio.

E’ necessario evidenziare come ogni procedimento disciplinare faccia storia a sé; inoltre la casistica delle possibili infrazioni è pressoché illimitata: ne consegue che è impossibile creare una bozza standard di lettera di controdeduzioni.

A titolo assolutamente generale, la lettera di contestazione ha lo scopo d’individuare una o più inadempienze nella prestazione lavorativa ascrivibili al lavoratore interessato.  Ne consegue che la lettera di controdeduzioni o il colloquio devono evidenziare se il lavoratore abbia commesso veramente delle inadempienze; oppure se il lavoratore fosse realmente in grado di tenere una condotta diversa da quella contestata; oppure ancora se ciò fosse impossibile o almeno difficile per le circostanze più diverse.

E’ necessario esaminare la lettera di contestazione individuando quali siano i punti di forza e i punti di debolezza e poi fornire le spiegazioni in ordine a ciascun elemento della contestazione.
In primo luogo devono essere verificati gli aspetti formali – la tempestività, la precisione nell'identificare i fatti contestati ecc. – e quindi gli aspetti sostanziali.

Per valutare e controbattere gli aspetti sostanziali è necessario esaminare la normativa aziendale che disciplina l’operatività contestata. Qualora la contestazione riguardi materie di particolare difficoltà tecnica, sarà opportuno che il sindacalista si consulti con una persona che abbia specifiche competenze al riguardo; in caso di coinvolgimento di altri soggetti, occorre sempre ricordare il vincolo di riservatezza al quale è tenuto il sindacalista.

Qualora siano già state fornite al proprio responsabile o alle funzioni ispettive alcune spiegazioni sui fatti contestati, sarà necessario tenerne conto nella stesura delle difese.
Non serve tentare di smentire fatti oggettivi ed accertati.

E’ importante sottolineare problematiche che riguardano carenze organizzative e procedurali dell’azienda, carichi di lavoro, carenze nella formazione, carenze nella comunicazione di nuove normative, carenze procedurali eccetera.

La lettera di controdeduzioni deve essere redatta in maniera lineare e sintetica, senza polemiche, che avrebbero quale unico risultato quello di esacerbare la situazione.

Nella lettera sarà opportuno evitare di trattare questioni riguardanti difficoltà di carattere personale e così pure coinvolgere altri colleghi di lavoro; al più tali aspetti potranno essere trattati in sede di colloquio. In ogni caso, la chiamata di corresponsabilità con altri lavoratori è sempre da valutare con la massima cautela.

La scelta fra la lettera di controdeduzioni ed il colloquio dipende da diverse variabili.
La lettera è indicata nei casi in cui la situazione è nel complesso definita e vi sono sufficienti elementi per dare una giustificazione esaustiva dei fatti contestati.

Nei casi incerti, può essere preferibile il colloquio, che consente al sindacalista d’intervenire sulle situazioni di contesto già accennate (carenze organizzative e procedurali dell’azienda, carichi di lavoro, eccetera).

Il colloquio può dare una personalità fisica a quella che può apparire come una mera pratica burocratica dell’ufficio del personale, ma per alcuni può anche essere una situazione di stress e come tale da evitare.  La richiesta di colloquio permette però di avere qualche giorno in più per approfondire meglio la contestazione e preparare le proprie difese.

Nel colloquio l’azienda solitamente si limita a verbalizzare le spiegazioni del lavoratore: è quindi necessario arrivare al colloquio con una traccia scritta delle proprie difese.

E’ anche possibile presentare al colloquio una memoria scritta che affronta gli aspetti formali e sostanziali, mentre il sindacalista aggiungerà verbalmente le proprie osservazioni circa le situazioni di contesto (le lacune aziendali). Il verbale del colloquio risulterà così formato dalla memoria scritta e dalla verbalizzazione di quanto dichiarato dal sindacalista.

E’ possibile formulare le proprie difese in una lettera ed in più richiedere anche il colloquio.
E’ importante che la richiesta del colloquio sia esplicita: inserire nella lettera di controdeduzioni frasi del genere “il sottoscritto è a disposizione per ogni ulteriore chiarimento” è da evitare, perché crea incertezza su quali siano le concrete intenzioni del lavoratore.


sabato 28 gennaio 2017

Lavoro: la consulenza per email va retribuita, obbligatorio pagare il professionista


Il consiglio anche informale del professionista richiede un compenso, anche senza esplicito incarico, il parere fornito per email è comunque una prestazione come è stato deciso dalla Corte di Cassazione. Importante novità per i professionisti che forniscono pareri e indicazioni: la consulenza fornita via mail, anche per posta elettronica tradizionale e non certificata, va retribuita

Se un a professionista fornisce – anche in via informale - un parere su richiesta di un cliente o potenziale tale, tale prestazione richiede comunque un retribuzione anche se fornita per email, tramite Internet, o senza appuntamento presso lo studio. Anche senza un esplicito accordo preventivo sul compenso. Queste situazioni, infatti, non rappresentano una presunzione di gratuità alla prestazione, anzi: ad esempio l’email è una prova scritta di incarico professionale che, come tale, deve essere retribuito salvo diverso accordo tra le parti.

A chiarirlo è stata la Corte di Cassazione con sentenza n. 1792/2017 specificando che, in assenza di mandato scritto, l’affidamento è dimostrabile con qualsiasi mezzo anche per email. In generale, spiegano i giudici, secondo consolidato orientamento della Corte:

“il rapporto di prestazione d’opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l’avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso”.

Caso tipico è quello di un cittadino che chiede un consiglio a un avvocato inviando una semplice email.

Per quanto in molti casi il privato intenda semplicemente ricevere n parere a titolo gratuito, per poi magari decidere sul da farsi in un secondo momento, una mail del genere conferisce a tutti gli effetti un incarico all'avvocato. Incarico che, se accettato dal professionista, va retribuito.
In molti casi una semplice mail di risposta, nel quale l’avvocato fornisce il parere richiesto, è sufficiente a far considerare concluso l’incarico così assegnato.

L’email è prova del conferimento dell’incarico 

Nel caso in esame, il professionista aveva prodotto come dimostrazione dell’avvenuto conferimento dell’incarico, presupposto del diritto al compenso, due comunicazioni fax ed una comunicazione email, ritenute dalla Corte prove valide. 

La logica da cui muove la sentenza in commento si poggia sui seguenti passaggi logici:

un incarico conferito a un professionista si considera sempre a pagamento, salvo diverso accordo tra le parti;

l’email con la richiesta di un parere o con qualsiasi altro incarico instaura un rapporto contrattuale, a pagamento, con il professionista;

l’email può essere considerata una prova e dimostrare, appunto, il conferimento dell’incarico;
il professionista che abbia eseguito l’incarico richiestogli con l’email ha diritto ad essere pagato.

Il contratto d’opera professionale è sempre a pagamento

Secondo la giurisprudenza, le norme sui contratti d’opera professionale – ossia sugli incarichi conferiti a professionisti – si poggiano su quella che viene chiamata «presunzione di onerosità»: in buona sostanza, l’incarico si considera sempre «a pagamento», salvo diverso accordo delle parti. Il professionista e il cliente sono certamente liberi di stabilire la gratuità dell’opera, ma se nulla viene previsto nel contratto – come spesso avviene negli incarichi conferiti a voce – l’attività svolta dal professionista va sempre retribuita. Dunque il compenso è un elemento essenziale del contratto, che può essere “derogato”, ma è necessario un esplicito accordo in tal senso.

In sintesi, il conferimento dell’incarico può avvenire in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà del cliente di avvalersi della attività e dell’opera del professionista.

L’email è prova di incarico professionale
Ma l’email – ed è questo un punto cruciale – può essere usata in una causa, dopo essere stata debitamente stampata, per provare il credito del professionista? La risposta fornita dalla Cassazione è sì: l’avvocato, l’ingegnere, l’architetto, il consulente del lavoro, il medico, il commercialista può dimostrare in qualsiasi modo di aver ricevuto l’incarico, quindi anche con una semplice email. E posto che la richiesta di parere scritto o verbale può considerarsi al pari di un normale incarico professionale, la domanda inviata tramite email instaura una proposta di contratto, cui il professionista può decidere di aderire, rispondendo, o meno.

Ciò detto, da oggi chi richiede un parere via email è obbligato a pagare il professionista perché la posta elettronica tradizionale – anche quella non certificata – può costituire prova di un incarico.

lunedì 23 gennaio 2017

Cessione ramo d'azienda e demansionamento



Ancora sentenza della Corte di Cassazione conferma: l’onere della prova del demansionamento grava sul lavoratore. Nel caso specifico la sentenza n. 1778/2017 ha analizzato un caso di modifica delle mansioni in occasione di una cessione di ramo d’azienda. Nella fattispecie, l’assegnazione di diversa attività aveva  riguardato l’intero personale. Tuttavia, per ottenere un risarcimento, è il singolo lavoratore a dover dimostrare l’effettiva presenza dei presupposti di demansionamento, così da ottenere il risarcimento del relativo danno.

In materia di cessione del ramo d'azienda, la Corte di Cassazione ha chiarito che la stessa deve considerarsi operante qualora, oltre al profilo dipendente, lo stesso riguardi anche i beni materiali. Nello specifico la Suprema Corte, con la Sentenza n. 1316 del 19 gennaio 2017, ha precisato che ai fini dell'operatività del trasferimento/cessione del ramo d'azienda risulta necessario che lo stesso interessi, oltre al profilo dipendente, anche i beni materiali che risultino essenziali e necessari per lo svolgimento dell'attività ceduta. Diversamente non può considerarsi operante l'istituto in parola, cosi? come definito dall'art. 2112 c.c.

Nello specifico caso, dunque, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore in quanto non verificabile il danno professionale lamentato, né il preteso danno alla salute. Nella sentenza, la Corte ricorda comunque che:

“È indubbio che l’assegnazione a mansioni inferiori rappresenti fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Ed infatti, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali

Ed inoltre, il demansionamento è potenzialmente idoneo a pregiudicare beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti: particolare rilievo assumendo, a questo proposito, la dignità personale del lavoratore che costituisce diritto Corte di Cassazione – copia non ufficiale inviolabile, a norma degli artt. 2, 4 e 32 Cost.

Sicché, la lesione di tale diritto, rappresentata dai pregiudizi alla professionalità da dequalificazione che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa, ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso (Cass. 12 giugno 2015, n. 12253)”.

Tuttavia, chiarita l’astratta potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, i giudici Supremi precisano che:

“La produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale, non derivando automaticamente dall’inadempimento datoriale l’esistenza di un danno solo in ragione della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo: e pertanto esso non è ravvisabile in re ipsa, ma esige una specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. s.u. 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 30 settembre 2009, n. 20980; Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327).

Il che non esclude che, ferma la dimostrazione del danno da demansionamento in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, la prova possa avvenire anche per presunzioni, per la quale dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionannento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 10 aprile 2010, n. 8893): purchè, si intende, oggetto di specifica allegazione dal lavoratore (Cass. 23 settembre 2016, n. 18717)”.

Ricordiamo che con sentenza n. 21711, la Cassazione ha precisato che il trasferimento a un altro datore di lavoro di una serie di contratti di lavoro eterogenei, rappresenta cessione di ramo d'azienda solo se prima del negozio tra cedente e cessionario questi contratti configuravano una vera e propria struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva: in mancanza di questi elementi, il trasferimento è una mera esternalizzazione.

La Cassazione, ha inoltre ribadito la natura di retribuzione differita del Tfr, sostiene che in caso di cessione di ramo di azienda assoggettata al regime previsto dall'articolo 2112 del Codice civile, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, conclude l'estensore, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda.

domenica 15 gennaio 2017

Trasferimento o cessione d’azienda: quando si configura



Si ha il la cessione ramo d'azienda o trasferimento d'azienda quando, in seguito a operazioni quali cessione contrattuale, fusione, affitto, usufrutto, cambia il titolare della azienda stessa.

La Corte di Cassazione ha chiarito con una recente sentenza (24972/2016) che il solo trasferimento del personale da un datore di lavoro all'altro in caso di cambio di appalto non basta a definire un trasferimento d’azienda, che si configura invece se l’assunzione di lavoratori in caso di cambio di soggetto appaltatore viene accompagnata anche da un passaggio di beni di non trascurabile entità, ovvero tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.

La cessione di azienda comprende cose materiali (mobili ed immobili) e immateriali, compreso l’avviamento, i rapporti di lavoro con il personale, crediti e debiti con la clientela: elementi tutti unificati in senso funzionale dalla volontà del titolare, con riguardo alla loro destinazione al comune fine dell’intrapresa attività imprenditoriale. L’azienda può sussistere anche se, essendo di nuova formazione, non abbia ancora iniziato a funzionare come organismo aziendale o, se essendo già in esercizio, abbia temporaneamente cessato di funzionare. La mancanza dell’esercizio esclude l’esistenza dell’impresa non dell’azienda. L’azienda, infatti, esiste nel momento in cui il complesso dei beni organizzati è idoneo al fine cui è destinato: l’esercizio dell’impresa.

Con il contratto di cessione d’azienda il cedente trasferisce il complesso aziendale ad un acquirente, il cessionario, dietro corrispettivo. L’azienda viene ceduta unitariamente, con debiti e crediti (a meno che non sia contrariamente convenuto), e con subentro nei rapporti contrattuali in essere. Nel contratto può essere disposto il divieto di concorrenza in capo all'alienante affinché chi vende l’azienda (l’alienante) non eserciti una concorrenza sleale nei confronti dell’acquirente. Il divieto in genere è stabilito per un periodo di cinque anni. Formalmente, la cessione dell’azienda richiede l’autenticazione delle firme, secondo quanto dispone la legge n. 310/1993: il contratto è quindi effettuato necessariamente in forma scritta.

Ma quali sono gli elementi che deve contenere il contratto di cessione di azienda? Proviamo a schematizzarli. Nelle premesse del contratto si dovrà indicare che:

il cedente  deve dichiararsi titolare del complesso dei beni organizzati in azienda, specificando anche il tipo di attività che svolge l’azienda;

il cedente deve dichiarare di voler cessare l’attività e di avere interesse a reperire chi è disponibile ad acquistare tale azienda;

il cessionario deve, a sua volta, dichiararsi disponibile ad acquistare la predetta azienda.

Fondamentalmente la Corte di Cassazione ha chiarito che un’azienda è sicuramente fatta anche di beni immateriali, ma non può certamente essere ridotta solo ad essi a fronte dell’articolo 2555 del Codice Civile che nella stessa nozione di azienda richiama la necessità anche di beni materiali organizzati tra loro in funzione dell’esercizio dell’impresa, organizzazione di fatto impraticabile in caso di strutture fisiche di trascurabile entità o mancanti del tutto, giacché organizzare significa coordinare tra loro i fattori della produzione (capitale, beni naturali e lavoro) e non uno solo.

Alcune precedenti sentenze della Corte di Cassazione sono arrivate tuttavia a sperimentare la massima dilatazione possibile di nozione di trasferimento d’azienda fino a estenderla alla cessione avente ad oggetto solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui autonoma capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how.

Nel caso specifico analizzato dalla Corte, ad essere trasferito non era stato certamente un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro.

In più, ricordano i giudici supremi ,l’art. 29 co. 3 0 d.lgs. n. 276/03 prevede che:

“L’acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

Dunque la mera assunzione, da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo intesi nei sensi di cui sopra.

Quando vi è la cessione dell'azienda (o di un ramo di essa) cambia il titolare dell'attività e quindi cambia il datore di lavoro. La legge tutela il lavoratore con alcune disposizioni specifiche e prevede che:

il rapporto di lavoro non si estingue, ma continua con il nuovo titolare dell'azienda; il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; il lavoratore può chiedere al nuovo datore di lavoro il pagamento dei crediti da lavoro che aveva maturato al momento del trasferimento; il nuovo datore di lavoro è pertanto obbligato in solido con il vecchio titolare per la soddisfazione di tali crediti; nel caso di stipulazione di un contratto d'appalto tra azienda d'origine e ramo trasferito, il lavoratore dipendente di questo ultimo può agire in giudizio direttamente nei confronti dell'azienda di origine per obbligarla al pagamento dei debiti che questa ha contratto con il ramo trasferito;

il nuovo titolare deve continuare ad applicare il contratto collettivo nazionale, in vigore al momento del trasferimento, fino alla sua scadenza;

la cessione o trasferimento d'azienda non costituisce motivo di licenziamento;

se la cessione si verifica in imprese che occupano più di 15 dipendenti, è obbligatorio per il datore di lavoro avvertire con comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima dell'atto di cessione, le rappresentanze sindacali che avviano procedure di analisi e verifica necessarie alla tutela dei lavoratori , per evitare che il mancato rispetto della normativa potrebbe eludere altri istituti contrattuali e di legge, come le norme sullo Statuto del lavoratori, il collocamento dei disabili.



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