Visualizzazione post con etichetta Rapporto di lavoro. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Rapporto di lavoro. Mostra tutti i post

martedì 21 novembre 2017

Lavoro. Whistleblowing è legge: tutelato il dipendente che denuncia illeciti



La legge sul whistleblowing, che reca disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato, contiene numerose e importanti novità.

Soffiatore di fischietto, in inglese 'whistleblower', detto anche impropriamente gola profonda (deep throat), identifica un individuo che denuncia pubblicamente o riferisca alle autorità attività illecite o fraudolente. E' il protagonista della nuova legge, ovvero è un lavoratore che, nello svolgimento delle proprie mansioni in amministrazioni pubbliche o in un'azienda privata, si accorge di una frode, un rischio o una situazione di pericolo, che possa arrecare un danno e lo segnala.

Quindi il cosiddetto whistleblowing è la segnalazione di attività illecite da parte del dipendente che ne sia venuto a conoscenza per ragioni di lavoro ed  è uno strumento legale usato per segnalare all'autorità giudiziaria, alla Corte dei conti, all'Autorità nazionale anticorruzione o al responsabile nella propria azienda di un eventuale pericolo sul posto di lavoro, frode, danno ambientale, false comunicazioni sociali, illecite operazioni finanziarie, casi di corruzione, concussione o negligenza medica.

Dopo la segnalazione il lavoratore non potrà essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, sottoposto ad altre misure di ritorsione e sarà vietato rivelarne l'identità. Si prevede il reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento e la nullità di ogni atto discriminatorio o ritorsivo. L'onere della prova è invertito. Spetterà cioè al datore di lavoro dimostrare che le misure sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione del dipendente.

L'eventuale adozione di misure discriminatorie va comunicata dall'interessato o dai sindacati all'Anac che a sua volta ne dà comunicazione al Dipartimento della funzione pubblica e agli altri organismi di garanzia. In questi casi l’Anac può irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria a carico del responsabile da 5.000 a 30.000 euro, fermi restando gli altri profili di responsabilità. Inoltre, l’Anac applica la sanzione amministrativa da 10.000 a 50.000 euro a carico del responsabile che non svolga le attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute. La misura della sanzione tiene conto delle dimensioni dell'amministrazione.

Spetta poi all'amministrazione l’onere di provare che le misure discriminatorie o ritorsive adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall'amministrazione o dall'ente comunque sono nulli. Il segnalante licenziato ha diritto alla reintegra nel posto di lavoro e al risarcimento del danno. Le tutele invece non sono garantite nel caso in cui, anche con sentenza di primo grado, sia stata accertata la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque reati commessi con la denuncia del medesimo segnalante ovvero la sua responsabilità civile, nei casi di dolo o colpa grave.

La nuova legge impone ai datori di lavoro di integrare e modificare i modelli organizzativi predisposti, ovvero dovranno individuare uno o più canali (di cui almeno uno di natura informatica) che consentano ai dipendenti di presentare, a tutela dell'integrità della società, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell'ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte.

Ogni tutela salta nel caso di condanna del segnalante in sede penale (anche in primo grado) per calunnia, diffamazione o altri reati commessi con la denuncia o quando sia accertata la sua responsabilità civile per dolo o colpa grave.



venerdì 10 marzo 2017

Pensioni: riscatto congedo parentale per maternità



Sono riscattabili, a domanda, i periodi corrispondenti all’astensione facoltativa, anche per periodi relativi a maternità che si è verificata al di fuori di un rapporto di lavoro, a prescindere dal periodo in cui si è verificato l’evento e dalla circostanza che lo stesso si sia verificato prima o dopo un rapporto di lavoro.

La domanda deve essere presentata alla sede Inps territorialmente competente, unitamente ad autocertificazione attestante tutti i dati da cui si possano desumere maternità, paternità e data di nascita del bambino.

Al pari di quanto avviene per gli anni universitari, precedenti al conseguimento della laurea, anche gli eventi di maternità collocati al di fuori del rapporto di lavoro possono essere riscattati dai lavoratori dipendenti per recuperare tali periodi ai fini pensionistici.

La richiesta di riscatto del periodo corrispondente all’astensione facoltativa (congedo parentale) anche per periodi relativi a maternità che si sono verificati al di fuori di un rapporto di lavoro, indipendentemente dal periodo in cui si è verificato l’evento e dal fatto che si sia verificato prima o dopo un rapporto di lavoro, deve essere presentata dal lavoratore stesso. La domanda di riscatto può essere presentata in qualsiasi momento con un limite massimo di periodi riscattabili di cinque anni.

Il periodo riscattabile è lo stesso riconosciuto alla madre e al padre per l’astensione facoltativa in costanza di rapporto di lavoro con diritto alla relativa indennità, quindi quello successivo ai 3 mesi successivi alla nascita del bambino (astensione obbligatoria), entro i primi 8 anni di vita del bambino fino ad un massimo di sei mesi per ciascun genitore.

Tra i requisiti richiesti per poter fruire del riscatto del congedo parentale:

l’iscrizione al fondo pensioni lavoratori dipendenti ed alle forme di essa sostitutive ed esclusive;

avere almeno 5 anni di contributi da attività lavorativa maturata in costanza di lavoro dipendente in periodi precedenti o successivi all’evento che dà luogo al diritto;

il periodo da riscattare non deve essere già coperto da altra tipologia di contribuzione.

Tale facoltà che consente ai lavoratori di cumulare il riscatto degli eventi di maternità collocati al di fuori del rapporto di lavoro con il riscatto della laurea è in vigore dal 1° gennaio 2016 per effetto della Legge 208/2015 (Legge di Stabilità 2016), mentre fino al 31 dicembre 2015 il riscatto dei periodi riscattabili per congedo parentale extra-lavorativo era alternativa alla facoltà del riscatto di laurea. La circolare INPS 44/2016 chiarisce, in merito alla nuova normativa, che:

la cumulabilità opera anche con riferimento a periodo precedenti il 2016;

le domande di riscatto presentate prima del 2016 , se già elaborate in base alla vecchia normativa, non possono essere riaperte;

le domande presentate nel 2015 ma non ancora elaborate dovranno essere definite in base alla nuova normativa.

L’onere del riscatto è a totale carico del richiedente, così come avviene con il riscatto della laurea, e il periodo riscattato sarà utile sia ai fini dell’anzianità contributiva che della determinazione della misura della pensione.

LE CONDIZIONI PER L'ACCREDITO

Unica condizione per ottenere l’accredito è che risultino versati almeno 260 contributi settimanali di effettiva attività lavorativa (5 anni di contribuzione).

Nel computo dei 5 anni devono essere considerati i periodi durante i quali vi è stata corresponsione di retribuzione assoggettata al pagamento dei contributi, anche se non vi è stata effettiva prestazione di lavoro (ferie, malattia retribuita, ecc.).

Il requisito di cui sopra deve essere già stato raggiunto alla data di presentazione della domanda.

L'ONERE DI RISCATTO

È a totale carico del richiedente e varia in relazione all'età, al periodo da riscattare, al sesso e alla retribuzione media settimanale percepita dal richiedente, determinata come per i trattamenti pensionistici.

Per tutti i periodi precedenti l' 1.1.1996, l'onere è calcolato secondo i criteri della riserva matematica prevista in caso di costituzione di posizione assicurativa per contribuzione omessa e caduta in prescrizione (art. 13 Legge 1338/62).

Per i periodi dal 1.1.1996 l'onere è calcolato con le modalità suindicate, se il richiedente ha diritto ad una pensione interamente retributiva potendo far valere almeno 18 anni di contributi al 31.12.1995, mentre si applicherà un calcolo percentuale, previsto con il sistema contributivo, per coloro che non possono far valere la predetta anzianità.

GLI EFFETTI PENSIONISTICI

I contributi accreditati dopo l'avvenuto pagamento dell'onere di riscatto sono utili ai fini del diritto e della misura della pensione, compresa quella di anzianità.

Se il riscatto si riferisce a periodi anteriori al 1.1.1994, la pensione diretta o ai superstiti può essere liquidata solo con decorrenza 1.5.2001 o successiva. Analogamente, nel caso che il richiedente sia già titolare di trattamento pensionistico, la ricostituzione può operare solo dal 1.5.2001 o dalla data di decorrenza, se successiva.

Le domande di pensione già definite negativamente per mancanza dei requisiti contributivi e assicurativi, con provvedimento per il quale non è intervenuto il termine di decadenza, devono essere riesaminate, su richiesta dell'interessato.

I ricorsi, presentati dopo il termine di decadenza, sono considerati come nuova domanda di pensione.

Come per gli altri casi di riscatto dei contributi l’onere del riscatto è a carico del lavoratore richiedente: l’importo varia in relazione ad età, periodo da riscattare, sesso e retribuzione media settimanale percepita.

Chiudiamo chiarendo un punto importante che, fino al 2015, determinava una discriminazione di genere piuttosto grave: fino a quella data infatti la facoltà di riscatto del congedo parentale era riconosciuta solo in via facoltativa al riscatto della laurea. Una discriminazione per le donne laureate e mamme che è stata risolta grazie alla legge 208/2015: il riscatto maternità è diventato cumulabile con quello della laurea con effetto retroattivo.


domenica 15 gennaio 2017

Trasferimento o cessione d’azienda: quando si configura



Si ha il la cessione ramo d'azienda o trasferimento d'azienda quando, in seguito a operazioni quali cessione contrattuale, fusione, affitto, usufrutto, cambia il titolare della azienda stessa.

La Corte di Cassazione ha chiarito con una recente sentenza (24972/2016) che il solo trasferimento del personale da un datore di lavoro all'altro in caso di cambio di appalto non basta a definire un trasferimento d’azienda, che si configura invece se l’assunzione di lavoratori in caso di cambio di soggetto appaltatore viene accompagnata anche da un passaggio di beni di non trascurabile entità, ovvero tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.

La cessione di azienda comprende cose materiali (mobili ed immobili) e immateriali, compreso l’avviamento, i rapporti di lavoro con il personale, crediti e debiti con la clientela: elementi tutti unificati in senso funzionale dalla volontà del titolare, con riguardo alla loro destinazione al comune fine dell’intrapresa attività imprenditoriale. L’azienda può sussistere anche se, essendo di nuova formazione, non abbia ancora iniziato a funzionare come organismo aziendale o, se essendo già in esercizio, abbia temporaneamente cessato di funzionare. La mancanza dell’esercizio esclude l’esistenza dell’impresa non dell’azienda. L’azienda, infatti, esiste nel momento in cui il complesso dei beni organizzati è idoneo al fine cui è destinato: l’esercizio dell’impresa.

Con il contratto di cessione d’azienda il cedente trasferisce il complesso aziendale ad un acquirente, il cessionario, dietro corrispettivo. L’azienda viene ceduta unitariamente, con debiti e crediti (a meno che non sia contrariamente convenuto), e con subentro nei rapporti contrattuali in essere. Nel contratto può essere disposto il divieto di concorrenza in capo all'alienante affinché chi vende l’azienda (l’alienante) non eserciti una concorrenza sleale nei confronti dell’acquirente. Il divieto in genere è stabilito per un periodo di cinque anni. Formalmente, la cessione dell’azienda richiede l’autenticazione delle firme, secondo quanto dispone la legge n. 310/1993: il contratto è quindi effettuato necessariamente in forma scritta.

Ma quali sono gli elementi che deve contenere il contratto di cessione di azienda? Proviamo a schematizzarli. Nelle premesse del contratto si dovrà indicare che:

il cedente  deve dichiararsi titolare del complesso dei beni organizzati in azienda, specificando anche il tipo di attività che svolge l’azienda;

il cedente deve dichiarare di voler cessare l’attività e di avere interesse a reperire chi è disponibile ad acquistare tale azienda;

il cessionario deve, a sua volta, dichiararsi disponibile ad acquistare la predetta azienda.

Fondamentalmente la Corte di Cassazione ha chiarito che un’azienda è sicuramente fatta anche di beni immateriali, ma non può certamente essere ridotta solo ad essi a fronte dell’articolo 2555 del Codice Civile che nella stessa nozione di azienda richiama la necessità anche di beni materiali organizzati tra loro in funzione dell’esercizio dell’impresa, organizzazione di fatto impraticabile in caso di strutture fisiche di trascurabile entità o mancanti del tutto, giacché organizzare significa coordinare tra loro i fattori della produzione (capitale, beni naturali e lavoro) e non uno solo.

Alcune precedenti sentenze della Corte di Cassazione sono arrivate tuttavia a sperimentare la massima dilatazione possibile di nozione di trasferimento d’azienda fino a estenderla alla cessione avente ad oggetto solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui autonoma capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how.

Nel caso specifico analizzato dalla Corte, ad essere trasferito non era stato certamente un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro.

In più, ricordano i giudici supremi ,l’art. 29 co. 3 0 d.lgs. n. 276/03 prevede che:

“L’acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

Dunque la mera assunzione, da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo intesi nei sensi di cui sopra.

Quando vi è la cessione dell'azienda (o di un ramo di essa) cambia il titolare dell'attività e quindi cambia il datore di lavoro. La legge tutela il lavoratore con alcune disposizioni specifiche e prevede che:

il rapporto di lavoro non si estingue, ma continua con il nuovo titolare dell'azienda; il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; il lavoratore può chiedere al nuovo datore di lavoro il pagamento dei crediti da lavoro che aveva maturato al momento del trasferimento; il nuovo datore di lavoro è pertanto obbligato in solido con il vecchio titolare per la soddisfazione di tali crediti; nel caso di stipulazione di un contratto d'appalto tra azienda d'origine e ramo trasferito, il lavoratore dipendente di questo ultimo può agire in giudizio direttamente nei confronti dell'azienda di origine per obbligarla al pagamento dei debiti che questa ha contratto con il ramo trasferito;

il nuovo titolare deve continuare ad applicare il contratto collettivo nazionale, in vigore al momento del trasferimento, fino alla sua scadenza;

la cessione o trasferimento d'azienda non costituisce motivo di licenziamento;

se la cessione si verifica in imprese che occupano più di 15 dipendenti, è obbligatorio per il datore di lavoro avvertire con comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima dell'atto di cessione, le rappresentanze sindacali che avviano procedure di analisi e verifica necessarie alla tutela dei lavoratori , per evitare che il mancato rispetto della normativa potrebbe eludere altri istituti contrattuali e di legge, come le norme sullo Statuto del lavoratori, il collocamento dei disabili.



giovedì 8 dicembre 2016

Busta paga trattamento fine rapporto



Il trattamento di fine rapporto (conosciuto anche come liquidazione o buonuscita) è una somma accantonata dal datore di lavoro e che viene corrisposta al lavoratore dipendente nel momento in cui il rapporto di lavoro cessa per qualsiasi motivo. Per questa ragione l'accantonamento annuo del TFR viene considerato dal datore di lavoro come un normale costo di competenza dell'esercizio (al pari del salario stesso). In passato il TFR veniva chiamato indennità di anzianità perché il suo scopo era quello di fungere da buonuscita per i lavoratori che rimanevano per molti anni a lavorare in azienda.

I lavoratori dipendenti possono scegliere di mantenere il TFR in azienda (dunque come liquidazione) oppure di versarlo in un fondo pensione, unitamente alla retribuzione, la quota di trattamento di fine rapporto maturata mensilmente.

Il TFR matura durante lo svolgimento del rapporto di lavoro e riveste carattere retributivo, costituendo quella parte di retribuzione accantonata il cui pagamento è differito al momento della cessazione del rapporto stesso.

Il calcolo del TFR è l'importo che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore al termine del rapporto di lavoro e a richiesta dopo un periodo (anticipazione del TFR), di solito 8 anni di servizio nella stessa azienda in determinati casi stabiliti dalla legge come, ad esempio, la necessità di affrontare importanti spese medico-sanitarie. L'anticipazione è limitata al 70% dell'importo liquidato in caso di risoluzione del contratto di lavoro.

Il meccanismo di calcolo prevede che il TFR si calcoli sommando per ogni anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione annua dovuta, divisa per 13,5.

La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese pari o superiori a 15 giorni. La quota della retribuzione annuale accantonata deve essere rivalutata ogni anno al 31 dicembre con l'applicazione di un tasso dell' 1,5% in misura fissa e del 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo (per le famiglie di operai ed impiegati) accertato dall'Istat.

Per cominciare il calcolo del TFR è necessario essere in possesso di tutta la documentazione completa del proprio rapporto di lavoro con il datore di lavoro che deve erogare il TFR. Detto questo ne distinguiamo due diversi tipi: il Tfr lordo, che serve ai fini del calcolo di quanto spetta al lavoratore dipendente, e quello netto, che rappresenta la cifra effettiva in denaro che questi percepirà.

Il primo passo per capire a quale cifra corrisponderebbe il TFR netto in busta paga è quello di calcolare il tfr lordo: ovvero, mediante la somma delle quote accantonate in un anno lavorativo (che corrispondono alla quota di retribuzione lorda annua divisa per 13.5 meno il contributo fondo adeguamento pensione (fap) pari allo 0.50% della retribuzione soggetta a contribuzione inps (imponibile previdenziale).L’aliquota da applicare al TFR, in caso di cessazione del rapporto di lavoro ,corrisponde ad un valore medio cosi’ calcolato nel modo seguente:

a) Si determina in primo luogo il TFR lordo complessivo ;

b) Si divide poi il TFR complessivo per il numero di anni e si moltiplica il risultato per 12 (mesi), ottenendo così il reddito annuale di riferimento;

c) Si calcola infine l’aliquota Irpef media , come rapporto tra l’imposta ( determinata applicando al reddito annuale di riferimento l’ aliquota IRPEF vigente ) e l’ammontare del reddito annuo di riferimento; L’aliquota cosi calcolata si applica alla base imponibile;

Come viene calcolato il TFR: un esempio

Si supponga che la retribuzione annua Lorda di un lavoratore sia pari a € 24000 e che la quota accantonata annualmente sia pari a € 1777.77.

A questo punto è necessario moltiplicare quest’importo per gli anni lavorativi. Ad esempio per 15 anni di lavoro, il TFR lordo complessivo corrisponderà a € 26.666.

Per ottenere il reddito annuale di riferimento occorrerà dividere 26.666 per il numero di anni (15) e il risultato moltiplicarlo per 12 mesi :  26.666/15*12= 21,333.24

L’imposta relativa al reddito di riferimento  sarà di € 5159  così ottenuta :
23% di 15000= 3450 €
27%  di 6333.24 =  1709 €
L’aliquota definitiva  relativa al reddito di riferimento:  5159/21,333.24*100= 24.18%

Imposta netta  : 26,666 * 24.18% =  € 6,447

Dunque il TFR netto ammonterà  a :€  26,666 - € 6,447= € 20,219 ( tfr lordo – imposta netta)

La previdenza complementare

Fino al 31.12.2006, il trattamento di fine rapporto non destinato alla previdenza complementare introdotta con il d.lgs. n. 124/1993 al fine di assicurare livelli più elevati di copertura previdenziale, restava in azienda sino alla cessazione del rapporto di lavoro.

A partire dall'1 gennaio 2007 ciascun lavoratore è chiamato a decidere se destinare il proprio TFR alle forme pensionistiche complementari (indicando il fondo pensione prescelto) oppure se mantenerlo presso il datore di lavoro, formulando esplicito rifiuto, altrimenti l'adesione al fondo complementare avviene automaticamente tramite il meccanismo del silenzio-assenso.

La scelta va effettuata entro 6 mesi dall'assunzione, se avvenuta successivamente all'entrata in vigore della riforma (mentre per i lavoratori già in servizio è stata espressa entro il 30.6.2007).

In ogni caso, anche laddove il lavoratore non aderisca alla previdenza complementare, la legge prevede per le aziende con almeno 50 dipendenti che le quote accantonate di TFR non rimangano presso il datore di lavoro, dovendo confluire nell'apposito fondo istituito presso l'Inps.

Il “Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto” è stato istituito presso l'Inps dall'art. 2 della l. n. 297/1982, “con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del TFR, di cui all'art. 2120 c.c., spettante ai lavoratori o loro aventi diritto” ed esteso dal d.lgs. n. 80/1992 anche ai crediti di lavoro diversi dal TFR secondo i presupposti dettati dall'art. 2 dello stesso.

La condizione necessaria per far sorgere il diritto al pagamento del TFR a carico del Fondo di garanzia è l'intervento della situazione di insolvenza del datore di lavoro (Cass. n. 9068/2013) e i casi in cui il lavoratore o i suoi aventi diritto possono richiedere il pagamento del trattamento di fine rapporto e dei relativi crediti accessori sono espressamente disciplinati dall'art. 2, commi 2-5 della l. n. 297/1982 (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, esperimento esecuzione forzata quando le garanzie patrimoniali risultino in tutto o in parte insufficienti).

L'anticipazione del TFR

La legge prevede che il lavoratore, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro, possa chiedere, in costanza di rapporto, un'anticipazione del TFR non superiore al 70% sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta.
Il datore di lavoro concede le anticipazioni richieste annualmente entro i limiti del 10% degli aventi titolo e comunque del 4% del numero totale dei dipendenti.

Come espressamente disposto dalla legge, la richiesta deve essere giustificata dalla necessità di far fronte:

-a spese sanitarie per terapie o interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche. Il carattere di straordinarietà che giustifica la concessione dell'anticipazione va inteso nel senso di particolare complessità o pericolosità delle terapie e degli interventi ovvero di rilevanza importanza medico-economica;

-all'acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile. Il diritto sussiste anche nel caso in cui l'acquisto venga effettuato dal coniuge in comunione dei beni;

L'art. 5 del d.lgs. n. 151/2001 ai sensi dell'art. 7 della l. n. 53/2000 prevede, inoltre, che è possibile ottenere l'anticipazione del TFR per far fronte alle spese da sostenere durante i periodi di fruizione dei “congedi parentali”.

Pertanto, per definizione, il TFR non ha alcun legame con la prestazione pensionistica pubblica e non rappresenta in alcun modo una fonte di finanziamento di quest’ultima, ma può piuttosto essere utilizzato per finanziare la previdenza complementare.

Per esempio, se un lavoratore dipendente privato decide di destinare il TFR maturato nel corso della vita lavorativa a un forma di previdenza complementare può raggiungere, al pensionamento, un’integrazione alla pensione pubblica variabile tra il 6% e il 12% del reddito.

È utile ricordare che chi destina il proprio TFR a un fondo pensione può in caso di necessità ottenere anticipazioni: fino al 75% del montante accumulato per spese mediche e prima casa e fino al 30% senza motivazioni (dopo 8 anni di adesione al fondo). Un'opportunità, in caso di emergenza, da non sottovalutare.







sabato 22 ottobre 2016

Calcolo della liquidazione del TFR



Dopo un periodo di lavoro il dipendente può chiedere all'azienda la sua situazione il TFR e quanto è riuscito ad accantonare in un determinato lasso di tempo. Il trattamento di fine rapporto TFR, chiamato comunemente liquidazione, è la somma che spetta al lavoratore dipendente al termine del lavoro, o dopo un periodo di lavoro in un'azienda.

Per quanto riguarda il TFR, il datore di lavoro, ogni anno effettua un accantonamento, il quale rappresenta un costo per l'azienda.

Il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) chiamato anche liquidazione, è un compenso che viene corrisposto al lavoratore in maniera differita, ossia alla cessazione del rapporto di lavoro. Per questa ragione l'accantonamento annuo del TFR viene considerato dal datore di lavoro come un normale costo di competenza dell'esercizio (al pari del salario stesso). In passato il TFR veniva chiamato indennità di anzianità perché il suo scopo era quello di fungere da buonuscita per i lavoratori che rimanevano per molti anni a lavorare in azienda.

Per cominciare è necessario essere in possesso di tutta la documentazione completa del proprio rapporto di lavoro con il datore di lavoro che deve erogare il TFR. Detto questo ne distinguiamo due diversi tipi: il Tfr lordo, che serve ai fini del calcolo di quanto spetta al lavoratore dipendente, e quello netto, che rappresenta la cifra effettiva in denaro che questi percepirà.

Materialmente la busta paga TFR è un cedolino riepilogativo delle principali voci della liquidazione del dipendente, con le specifiche delle rivalutazioni ISTAT, le eventuali anticipazioni, le ritenute fiscali, gli acconti e l'importo netto finale che spetta al lavoratore. Vediamo ora come si calcola.

Alla cessazion di un rapporto di lavoro subordinato, al lavoratore spetta il TFR e il suo calcolo si farà sulla base dei mesi lavorati o frazioni di mese (almeno 15 giorni). Nel computo del TFR rientrano tutti gli elementi retributivi che hanno natura tipica, normale e ripetitiva e non occasionale, fatta eccezione per i contratti collettivi che prevedono un diverso trattamento.

Sono dunque nello specifico: gli aumenti periodici di anzianità, le provvigioni, il minimo contrattuale, la maggiorazione turni, i superminimi, i premi presenza, il cottimo, l'indennità maneggio denaro, i valori mensa, importi forfetari, indennità per disagiata sede, prestazioni retributivi in natura e premi e partecipazioni (tutto ciò che non ha natura occasionale).

Ai fini del calcolo del TFR vengono computate anche altre voci come: la malattia che viene considerata come giornata lavorata e il calcolo quindi viene fatto sulla retribuzione giornaliera normale alla quale il lavoratore avrebbe avuto diritto; la maternità che viene anch'essa considerata come periodo normale lavorato ai fini del calcolo del TFR; i permessi se chiaramente spetta una retribuzione; l'infortunio che viene considerato come periodo lavorato ai fini del TFR come fosse un periodo di lavoro normale.

Per l'adeguamento all'inflazione, ai fini del calcolo bisogna tenere presente, al 31 dicembre di ogni anno (o se avviene prima quando cessa il rapporto di lavoro), la somma complessiva accantonata al 31 dicembre dell'anno precedente, tenendo presenti il tasso fisso dell'1,50% e il tasso a misura variabile pari al 75% dell'aumento dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie accertato dall'ISTAT. Va poi detto che l'ammontare della rivalutazione annua costituisce la base imponibile separata che è soggetta a imposta sostitutiva dell'11%. Dall'importo annualmente accantonato si detrae poi il contributo previdenziale a favore del Fondo di Garanzia nazionale per il trattamento di fine rapporto, calcolato sull'imponibile previdenziale dell'anno che attualmente è lo 0,50%.

Per il calcolo del TFR, la retribuzione presa in considerazione è l'insieme delle somme corrisposte dal dipendente: non vengono invece conteggiati i rimborsi spese. Per calcolarlo si utilizza di solito un modello in Excel che somma per tutti gli anni di servizio una quota che corrisponde alla retribuzione dovuta, e il totale va diviso per 13,5.

Si può dedurre il dato lordo del TFR dall’ultimo Modello Cud ricevuto dal datore di lavoro, dove è riportata la cifra complessiva lorda accantonata .A questo punto fare cosi:

Prendere il Tfr lordo, e applicarci la tassazione sulla base del proprio scaglione Irpef.
Vediamo la tabella, sugli scaglioni:

fino a 15000: 23 percento.

da 15000 fino a 28000: 27 percento.

da 28000 fino a 55000: 38 percento.

da 55000 fino a 75000: 41 percento.

da 75000 euro in poi: 43 percento.

E' utile sapere che l’anticipo del TFR non può eccedere del 70% della cifra accantonata alla data della richiesta. I datori di lavoro sono obbligati a soddisfare le richieste di anticipo della liquidazione dei dipendenti entro il 10% degli aventi titolo e comunque nei limiti del 4% del numero totale dei dipendenti. Infine è possibile ottenere l’anticipazione del TFR una sola volta nel corso di uno stesso rapporto di lavoro.



venerdì 2 settembre 2016

E’ legittima l’attività di un lavoratore in malattia o infortunio, presso altra azienda



La Corte di Cassazione legittima l’attività di un lavoratore in malattia, presso terzi , se non pregiudica la guarigione, con sentenza n. 15982 del 1 agosto 2016 afferma  che è illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore sorpreso a svolgere attività extralavorative durante il periodo di malattia nel caso l'attività non sia tale da pregiudicare la guarigione. Nello specifico  una lavoratrice durante il periodo in cui era stata assente dal lavoro a seguito di 'infortunio, svolgeva attività lavorativa presso il ristorante del proprio compagno. Dato che le condotte poste in essere dalla donna non erano tali da comportare una violazione delle prescrizioni di riposo e di cure impartite dai certificati medici, non trattandosi di attività richiedenti particolari sforzi, né lunga permanenza in piedi,  che non  ne pregiudicavano la guarigione, i giudici hanno ritenuto illegittimo il licenziamento e  respinto il ricorso del datore di lavoro.

E' utile illustrare l'istituto della malattia nel rapporto di lavoro subordinato, al fine di comprendere per quale ragione lo svolgimento di un'attività lavorativa nel corso di tale periodo può determinare il recesso per giusta causa.

Può definirsi malattia  uno stato di alterazione dello stato di salute del dipendente, temporaneo o definitivo, che impedisce a quest'ultimo di poter fornire la prestazione al datore di lavoro. Trattasi di una condizione che costringe il datore a sopportare l'assenza del dipendente, sospendendo di fatto il rapporto tra le parti. Il lavoratore è garantito in questo caso da un'indennità erogata dagli enti competenti (INPS o INAIL a seconda che si tratti di malattia o infortunio sul lavoro) mentre al datore sono riconosciuti una serie di poteri (come ad esempio il sollecito alla visita fiscale dei medici degli enti stessi, o anche l'utilizzo di investigatori privati) per accertare l'effettiva sussistenza dello stato di impossibilità ad adempiere del lavoratore.

In linea puramente teorica, in corso di malattia non si può svolgere attività lavorativa e si rimane reperibili nelle relative fasce orarie  previste  per legge. In caso di assenza alla visita fiscale nelle fasce c.d. "di reperibilità", il lavoratore può essere soggetto destinatario di un procedimento disciplinare volto ad indagare per quale ragione non sia stato presente alla visita medica; all'esito del procedimento disciplinare, dunque, il lavoratore potrà ricevere un provvedimento anche molto duro, perfino il licenziamento.

In sintesi, la Corte ha affermato che il dipendente in malattia può effettivamente svolgere un altro lavoro solamente se l’attività lavorativa svolta durante il periodo di malattia non pregiudica la sua guarigione e, dunque, sempre che il certificato medico attesti che la malattia, incompatibile con il “primo” lavoro, non è incompatibile con il secondo. Pertanto, in altri termini, in attesa di rientrare in azienda il dipendente può svolgere attività ulteriori, anche se queste gli procurano reddito direttamente o indirettamente.

La Corte di Cassazione ha dunque ravvisato non configurarsi licenziamento per giusta causa laddove non si dimostri che il lavoratore abbia agito fraudolentemente nei confronti del datore simulando uno stato di malattia, e lavorando presso terzi ove questi non siano imprese concorrenti o che l'attività prestata abbia ritardato e/o compromesso il recupero dalla malattia.

Il datore di lavoro, pertanto, dovrà fornire la prova che lo stato di malattia era stato fraudolentemente simulato dal lavoratore al solo fine di assentarsi dal posto di lavoro – con la relativa retribuzione riconosciuta dall'Inps – per poi recarsi in altro posto di lavoro e svolgere un'attività perfino in concorrenza.

Da parte sua, il lavoratore è onerato di dimostrare la compatibilità tra l'attività espletata a favore di terzi e lo stato di malattia (impeditiva del rapporto di lavoro) e che tale attività non abbia pregiudicato il normale recupero fisico, rimanendo al giudice le relative valutazioni degli accertamenti svolti in concreto e non astrattamente

L'onere della prova è a carico del datore

Come visto, è il caso di ricordare che l'onere della prova della sussistenza giusta causa di recesso – sia nella sua materialità, sia con riferimento all'elemento psicologico - grava, comunque, sul datore di lavoro.



martedì 26 luglio 2016

Il rapporto di lavoro del socio di cooperativa



Il socio di società cooperativa all'atto dell'adesione all'ente o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo, può stabilire un ulteriore rapporto di natura lavorativa, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale. Le disposizioni della legge 142 del 2001 (così come modificate dalla legge 30 del 2003) disciplinano il lavoro dei soci di cooperative che hanno quale scopo mutualistico la prestazione delle attività lavorative da parte degli stessi soci.

Le cooperative di produzione e lavoro sono costituite allo scopo di svolgere un'attività economica organizzata in impresa per fornire beni e servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che essi otterrebbero dal mercato (c.d. scopo mutualistico), con la utilizzazione del lavoro dei soci, ai quali spetta il diritto alla partecipazione agli utili dell'impresa.

La legge chiarisce che tra socio lavoratore e cooperativa esistono due distinti rapporti e cioè:

un rapporto di tipo associativo, ovvero il socio partecipa alla formazione degli organi sociali, alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa, alla elaborazione di programmi di sviluppo e alle decisioni concernenti le scelte strategiche, contribuisce alla formazione del capitale sociale, partecipa al rischio d’impresa, ai risultati economici ed alle decisioni sulla loro destinazione, mette a disposizione le proprie capacità professionali anche in relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa;

un rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce al raggiungimento degli scopi sociali. A tale proposito, il legislatore ha stabilito in capo alle cooperative l’obbligo di definire un regolamento, approvato dall’assemblea sociale e depositato presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio, sulla tipologia dei rapporti di lavoro che si intendono attuare.

Ai soci lavoratori con rapporto di lavoro subordinato si applicano gli istituti tipici del lavoro subordinato ed in particolare lo Statuto dei Lavoratori, con esclusione dell’art. 18 ogni volta che venga a cessare, con il rapporto di lavoro, anche quello associativo, nonché tutte le disposizioni in materia di sicurezza e igiene del lavoro. Agli altri soci lavoratori (con rapporto di lavoro non subordinato) si applicano gli artt. 1, 8, 14 e 15 dello Statuto dei Lavoratori (tutela della libertà di opinione, del diritto di attività sindacale e contro gli atti discriminatori), le disposizioni previste dai D. Lgs. 626/94 (tutela antinfortunistica) e 494/96 (misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori nei cantieri temporanei e mobili), in quanto compatibili con le modalità della prestazione lavorativa (art. 2).

Le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo.

Naturalmente, e con riferimento al socio lavoratore autonomo, per escludere la normativa di tutela del lavoro subordinato, è necessario che il rapporto sociale nel suo complesso sia autentico, e non costituisca invece un mezzo fraudolento per eludere le norme di legge. Pertanto, se il socio lavoratore è escluso dalla vita sociale (perché, per esempio, non riceve il riparto degli utili, o non viene convocato alle assemblee sociali), oppure se al socio viene affidata un’attività estranea all'oggetto dell'impresa cooperativa (per esempio l'attività del contabile in una cooperativa di facchini), il rapporto sociale potrebbe essere considerato fittizio e, sempre che il lavoro sia svolto con le caratteristiche della subordinazione, il socio lavoratore potrebbe essere ritenuto un ordinario lavoratore subordinato.

Sulla base del dato normativo deve ritenersi che nell'ipotesi in cui si controversa sia sulla cessazione del rapporto associativo che del rapporto lavorativo, la competenza non sia quella del Tribunale ordinario, ma quella del Giudice dl Lavoro.

Questa è una logica conseguenza della partecipazione alla cooperativa in qualità di socio che è la condizione che legittima l’instaurazione del rapporto di lavoro di tipo subordinato con la stessa cooperativa. Pertanto, mentre la cessazione del rapporto associativo travolge, in modo definitivo, quello di lavoro, la cessazione di quest’ultimo non travolge il rapporto associativo, con piena applicazione dell’art. 18 dello statuto del lavoratori ed obbligo, quindi, da parte dell’impresa cooperativa di riammettere in servizio il socio lavoratore ingiustamente allontanato.

Ne consegue che in caso di licenziamento illegittimo del socio lavoratore, quando la cooperativa abbia contestualmente disposto anche l’esclusione dello stesso dalla compagine sociale, il Giudice potrà applicare solo le sanzioni proprie del regime di stabilità obbligatoria, ossia  condannare la società al risarcimento del danno.



venerdì 22 luglio 2016

I diritti sindacali dei lavoratori a contratto di somministrazione




I lavoratori in somministrazione hanno diritto a:

partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici.

riunirsi per la trattazione di problemi di natura sindacale e le relative ore di permesso per parteciparvi sono retribuite al 100% e calcolate mensilmente.

organizzarsi in un sindacato, con sottoscrizione di delega (nella prima busta paga dei lavoratori deve essere inserito il modello di delega per aderire al sindacato, contributo pari allo 0,8% della retribuzione netta);

eleggere i propri rappresentanti aziendali (qualora l’impresa utilizzatrice impieghi almeno 15 lavoratori in somministrazione contemporaneamente per almeno 2 mesi, provenienti anche da diverse APL).

Ai dipendenti delle società di somministrazione si applicano tutti i diritti sindacali previsti dallo Statuto dei Lavoratori. Pertanto, nei confronti del somministratore i lavoratori in questione possono esercitare per esempio il diritto di costituire rappresentanze sindacali aziendali o unitarie, di riunirsi in assemblea, di fruire di permessi, di fruire - in qualità di dirigenti di rappresentanza sindacale aziendale o unitaria - di permessi sindacali retribuiti e non. Ovviamente la concreta fruizione di questi diritti presuppone che il somministratore, presso gli uffici cui compete l'organizzazione dei lavoratori somministrati, occupi più di 15 dipendenti.

Il fatto che i lavoratori somministrati siano dislocati presso una pluralità di utilizzatori può comportare alcuni problemi pratici per il concreto esercizio dei diritti sindacali. A tale riguardo, è previsto per legge, a loro favore, compete uno specifico diritto di riunione, da esercitarsi con le modalità determinate dalla contrattazione collettiva. Inoltre, il lavoratore somministrato vanta alcuni diritti sindacali anche nei confronti dell'utilizzatore. Infatti, nei confronti di quest'ultimo egli può esercitare - per tutta la durata del contratto - i diritti di libertà e di attività sindacale, nonché di partecipare alle assemblee del personale dipendente dell'impresa utilizzatrice. Esistono altri obblighi di natura sindacale in capo all'utilizzatore. Egli, infatti, deve rendere alcune comunicazioni alle rappresentanze sindacali, aziendali o unitarie o, in loro mancanza, ai sindacati territoriali che appartengono alle confederazioni comparativamente più rappresentative.

Più esattamente, l'utilizzatore deve indicare il numero e i motivi del ricorso alla somministrazione, e ciò ancor prima della stipulazione del contratto di somministrazione (solo in caso di particolari motivi d'urgenza la comunicazione può essere successiva di 5 giorni). Inoltre, ogni 12 mesi deve essere data indicazione in ordine al numero e ai motivi dei contratti di somministrazione conclusi, alla loro durata, al numero e alla qualifica dei lavoratori interessati.

Quindi l'utilizzatore comunica alla RSU, ovvero alle rappresentanze aziendali e, in mancanza, alle associazioni territoriali di categoria aderenti alle confederazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale:

il numero e i motivi del ricorso alla somministrazione di lavoro prima della stipula del contratto di somministrazione; ove ricorrano motivate ragioni di urgenza e necessità di stipulare il contratto, l'utilizzatore fornisce le predette comunicazioni entro i cinque giorni successivi;

ogni dodici mesi, anche per il tramite della associazione dei datori di lavoro alla quale aderisce o conferisce mandato, il numero e i motivi dei contratti di somministrazione di lavoro conclusi, la durata degli stessi, il numero e la qualifica dei lavoratori interessati,




Cos'è il contratto di somministrazione?



Per contratto si somministrazione del lavoro si intende quel rapporto di lavoro tra lavoratore da assumere e agenzia di somministrazione. Successivamente poi tra l’impresa e l’agenzia di somministrazione di lavoro si instaura un altro contratto di servizi per la messa a disposizione del lavoratore. Per tutta la durata del contratto di lavoro di somministrazione il datore di lavoro (impresa) e lavoratori svolgono le attività nell'interesse sotto la direzione del controllo dell’utilizzatore (l’agenzia). Esistono diverse tipologie contrattuali di contratto di somministrazione di lavoro: a tempo determinato e a tempo indeterminato.

Con la sottoscrizione dell'accordo l'agenzia si assume l'obbligo di pagare il lavoratore rispettando le regole stabilite nell'obbligazione aziendale. L'agenzia può stipulare un contratto a tempo determinato part time o full time. Possono avere una validità massima di un anno. Si possono prorogare per non più di quattro volte e con una durata non superiore ai sei mesi per ogni prolungamento.

Le agenzie per la somministrazione sono enti privati, presso le quali i lavoratori possono iscriversi per sottoporre la loro candidatura. Le aziende hanno una doppia funzione, ovvero, da una parte, trovare un lavoro che corrisponda alle richieste dei lavoratori. Dall'altra, fornire alle ditte la figura professionale di cui sono alla ricerca. L'agenzia comunemente detta somministratore ascolta i lavoratori e mette loro a disposizione degli utilizzatori, ovvero le aziende. Queste ultime acquistano dall'agenzia il diritto di usufruire dei lavoratori. Il somministratore manda il lavorante presso l'impresa, pubblica o privata, per svolgere sotto le direttive dell'utilizzatore la sua attività.

Il contratto di somministrazione deve essere stipulato in forma scritta e contenere, a pena di nullità, una serie di indicazioni (tra l'altro, gli estremi dell'autorizzazione rilasciata al somministratore, il numero dei lavoratori da somministrare, i casi di ammissibilità che consentono il ricorso alla somministrazione, l'indicazione della presenza di eventuali rischi per l'integrità e la salute del lavoratore e delle misure di prevenzione adottate, nonché la data di inizio e la durata prevista dal contratto di somministrazione).

In mancanza di forma scritta, il lavoratore dovrà necessariamente venir considerato a tutti gli effetti alle dipendenze dell'utilizzatore. Inoltre, il somministratore deve comunicare per iscritto al lavoratore, all'atto della stipulazione del contratto di lavoro, tutte le informazioni relative al rapporto di cui egli è oggetto e che sono state sopra menzionate.

Il lavoratore somministrato ha diritto a un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello dei dipendenti di pari livello dell'utilizzatore, a parità di mansioni svolte. Il pagamento della retribuzione al lavoratore e il versamento dei contributi previdenziali e assicurativi sono a carico del somministratore, con il rimborso successivo da parte dell’utilizzatore.

Il lavoratore ha diritto a fruire di tutti i servizi sociali ed assistenziali di cui godono i dipendenti dell'utilizzatore addetti alla medesima unità produttiva, ma non viene computato nell'organico dell'utilizzatore. In ogni caso, quando la somministrazione di lavoro avviene al di fuori dei limiti e delle condizioni previste dalla legge, il lavoratore può rivolgersi al Giudice del lavoro per ottenere la formalizzazione del rapporto alle dirette dipendenze dell'utilizzatore.

Il contratto di somministrazione può essere a tempo indeterminato o determinato.

Il contratto di somministrazione a tempo indeterminato staff leasing può essere applicato a qualsiasi attività e a qualsiasi tipologia di lavoratori. L'unico limite da osservare per le aziende utilizzatrice è di rispettare il limite del 20% tra il numero di lavoratori impiegati in azienda a tempo indeterminato rispetto a quelli inquadrati come staff leasing. Tale limite. va riscontrato alla data del 1° gennaio dell'anno in cui viene stipulato il contratto, e può essere modificato solo se previsto dalla contrattazione collettiva applicabile dall’utilizzatore. Inoltre, ai fini di assunzione di lavoro somministrato, è stato abolito l'obbligo di indicare la causale. Il lavoratore staff leasing assunto come dipendente subordinato dall'agenzia di lavoro, e non dall'utilizzatore come accadeva prima con il contratto di lavoro interinale, spetta una indennità di disponibilità per tutti i periodi in cui non svolge l'attività lavorativa presso un utilizzatore. La misura di tale indennità è calcolata sulla base della contrattazione collettiva comunque non al si sotto dell'importo fissato con decreto del Ministero del lavoro.

Per il contratto di somministrazione a tempo determinato vi è l’obbligo di indicare le ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” per giustificare il ricorso al contratto a termine. Stessa a-causalità anche per i contratti a termine nei rapporti di somministrazione ed eventuali proroghe.

Riguardo agli obblighi previsti, rimangono quelli di indicare e comunicare al lavoratore la durata e l'inizio della missione che deve avvenire in forma scritta in sede di stipula e sottoscrizione del relativo contratto, e la durata contrattuale che non può essere superiore a 36 mesi durante i quali possono essere effettuate al massimo 5 proroghe. Superato predetto termine, il contratto si trasforma a tempo indeterminato.

Il contratto di somministrazione, sia esso a tempo determinato o indeterminato, è vietato nei seguenti casi:

a) per la sostituzione di lavoratori in sciopero;

b) presso unità produttive in cui si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni a cui si riferisce il contratto di somministrazione (salvo deroghe sindacali);

c) presso imprese in cui siano in corso sospensioni di rapporti o riduzione dell'orario di lavoro con diritto al trattamento di integrazione salariale (Cassa integrazione guadagni) che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione (salvo deroghe sindacali);

d) da parte di imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi per la sicurezza sul lavoro.


domenica 26 giugno 2016

Lavoro: malati gravi diritto al part time




Ai lavoratori affetti da patologie oncologiche o da altre gravi patologie cronico-degenerative, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, è riconosciuto il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

Ai lavoratori affetti da malattie gravi, come le patologie oncologiche per i quali residui una ridotta capacità lavorativa o altre patologie cronico-degenerative, il datore di lavoro non può rifiutare il passaggio dal rapporto d lavoro a tempo pieno al part-time. Questo vale tanto nel privato quanto nel pubblico, come previsto dalla Legge Biagi (Dlgs 276/2003) e dal più recente Dlgs 81/2015 attuativo del Jobs Act.

La trasformazione da tempo pieno a tempo parziale può essere verticale, nel caso in cui la riduzione dell’orario di lavoro è prevista in relazione all’orario normale giornaliero, orizzontale, quando l’attività lavorativa viene svolta a tempo pieno ma limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno.

Su richiesta del lavoratore il rapporto a tempo parziale deve essere trasformato nuovamente in rapporto a tempo pieno. Il ministero del Lavoro, con la circolare 40/05, ha precisato che la richiesta del lavoratore non può essere negata anche se possono essere fatte valere contrastanti esigenze aziendali e che le parti si dovranno accordare sul nuovo orario di lavoro e sulla sua collocazione temporale, che può essere di tipo orizzontale, verticale o misto ma che deve prioritariamente tenere in considerazione le specifiche esigenze del lavoratore.

Nel decreto attuativo del Jobs Act viene inoltre prevista la possibilità, per il lavoratore che necessita di cura connesse a malattie gravi, di richiedere, in alternativa al passaggio al part-time, la fruizione del congedo parentale.

L’obiettivo generale della norma è tutelare la salute dei lavoratori ma anche la loro professionalità e la partecipazione al lavoro come importante strumento di integrazione sociale e di permanenza nella vita attiva. Per questi motivi la richiesta del lavoratore affetto da invalidità rappresenta una potestà che non può essere negata sulla base di contrastanti esigenze aziendali.

Il datore di lavoro può però pattuire con il lavoratore la quantificazione della riduzione dell’orario di lavoro e la scelta il part-time orizzontale o verticale. Nello stabilire tali opzioni organizzative, tuttavia, dovrà essere data priorità alle esigenze individuali specifiche del
lavoratore e non a quelle dell’azienda.

Il rapporto di lavoro potrà poi essere successivamente convertito nuovamente in tempo pieno su richiesta del lavoratore, si tratta di un suo diritto soggettivo, in caso di miglioramenti nello stato di salute.

Non vi è, invece, alcun diritto di chiedere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale se la malattia colpisce il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice e questi abbiano necessità di assistenza continua. L’articolo 8, comma 4, del Dlgs 81/15 stabilisce, infatti, che il lavoratore dipendente ha semplicemente la priorità nella trasformazione del contratto, da tempo pieno a tempo parziale, in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice.

Tale priorità può essere fatta valere anche se il lavoratore o la lavoratrice assiste una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa definita grave ai sensi dell’Legge 104/92 e che abbia, quindi, necessità di assistenza continua.

E' utile ricordare che l’Inps, con la circolare 136/03 ha considerato sufficiente un’unica certificazione del curante che attesti la necessità di trattamenti ricorrenti comportanti incapacità lavorativa e che li qualifichi l’uno ricaduta dell’altro. Gli interessati devono inviare la certificazione prima dell’inizio della terapia, fornendo anche l’indicazione dei giorni previsti per l’esecuzione. A tale certificazione dovranno far seguito, sempre a cura degli interessati, periodiche dichiarazioni della struttura sanitaria riportanti il calendario delle prestazioni effettivamente eseguite, le sole che danno titolo all’indennità.


lunedì 6 giugno 2016

Contratto a progetto: domande e curiosità



Il contratto di lavoro a progetto deve essere stipulato in forma scritta e deve contenere i seguenti elementi:

durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro;

descrizione del progetto, specificando il contenuto caratterizzante e il risultato finale che si intende conseguire;

corrispettivo economico e criteri per la sua determinazione, tempi e modalità di pagamento, disciplina dei rimborsi spese;

forme di coordinamento del lavoratore a progetto con il committente, che in ogni caso non possono pregiudicarne l'autonomia lavorativa;

eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza.

A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che consistano in:

prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo

e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal datore di lavoro con riguardo ai tempi e al luogo di lavoro stesso.

La disciplina sul contratto a progetto si applica a tutti i rapporti di collaborazione autonoma?

No, il contratto a progetto non si applica in caso di: rapporti di agenzia e di rappresentanza commerciale; prestazioni occasionali, costituite dai rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell'anno solare ovvero, nell'ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona, non superiore a 240 ore con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia inferiore a euro 5 mila.

Un progetto o programma di lavoro simile può essere oggetto di successivi contratti di lavoro?

La proroga o il rinnovo del contratto sono in linea di principio legittimi nel caso in cui il risultato concordato non sia stato raggiunto nel termine fissato ovvero nel caso di progetto totalmente nuovo e diverso. Al contrario, la proroga ingiustificata e il rinnovo per un progetto identico al precedente costituiscono elementi indiziari particolarmente incisivi per dimostrare la natura di un rapporto di lavoro dipendente.

Cosa succede se ci si ammala nel corso del rapporto a progetto? E in caso di maternità?

In caso di gravidanza e di malattia o infortunio del collaboratore, il rapporto di lavoro risulta sospeso, senza erogazione del corrispettivo. Solo nel primo caso la durata del rapporto è prorogata (per un periodo di 180 giorni), mentre, nel secondo caso, non solo il contratto non è prorogabile, ma il committente può comunque recedervi se la sospensione si protrae per più di un sesto della durata stabilita dal contratto, quando essa sia determinata, oppure superiore a trenta giorni per i contratti a durata determinabile.

Qual è la sanzione nel caso in cui il progetto non ci sia o non sia sufficientemente specifico?

Ciò che caratterizza il lavoro a progetto è la sua riconducibilità ad uno specifico progetto o programma di lavoro o fase di esso e  sia in caso di assenza del progetto (o del programma di lavoro) sia in caso di loro formulazione generica, la conseguenza, che dovrà essere dichiarata dal Giudice del Lavoro, è la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di stipulazione del contratto.

Cosa si può fare se il contratto a progetto, nei fatti, maschera un rapporto di lavoro subordinato?

Ogni volta che le concrete modalità di svolgimento di un rapporto formalmente a progetto sono riconducibili al lavoro subordinato, il lavoratore ha diritto, nel corso o all'esito del rapporto di lavoro, di richiedere l’accertamento giudiziale dell’effettiva natura del rapporto stesso; a fronte di una simile richiesta il Giudice del Lavoro, non essendo vincolato dal contenuto letterale dell’accordo, può esaminare quali siano state, in concreto, le modalità di svolgimento del rapporto lavorativo e se, nel caso di specie, sussistano gli indici della subordinazione.

Nel caso in cui il Giudice accerti che il rapporto, sebbene qualificato come autonomo, ha in realtà natura subordinata, lo notificherà come tale. Il lavoratore potrà quindi rivendicare tutti i diritti conseguenti sia di natura retributiva sia di natura contributiva.

Cosa succede se il contratto a progetto viene interrotto prima della scadenza?

Nel caso in cui il contratto a progetto venga interrotto da una delle parti prima della scadenza, senza giusta causa ed al di fuori delle ipotesi previste nel contratto individuale, la parte che ha subito il recesso avrà diritto ad un risarcimento del danno da quantificarsi o nella misura del preavviso o, in mancanza di questo, in un importo pari al residuo del compenso globale pattuito.

Come devono essere le istruzioni e le direttive del committente?

Il rapporto di lavoro a progetto implica una prestazione che, in quanto coordinata e continuativa, è integrata nell'attività e nell'organizzazione del committente. Il committente può pertanto esercitare un potere di intervento e di coordinazione dell’attività prestata dal collaboratore. Tuttavia, tale potere del datore di lavoro non può in ogni caso essere tale da pregiudicare l’autonomia nell'esecuzione della prestazione lavorativa del collaboratore: saranno quindi legittime verifiche periodiche sull'andamento del lavoro, ma non controlli e direttive più stringenti, che farebbero invece propendere per la natura subordinata del rapporto.

Cosa può fare il collaboratore a progetto qualora ritenga incongruo il suo corrispettivo?

La misura del compenso costituisce un elemento essenziale del contratto a progetto, prevede che lo stesso debba essere specificamente indicato per iscritto. Il compenso deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e deve tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto. Per questo motivo, il collaboratore che ritenesse inadeguato il compenso pattuito, può sempre ricorrere all'autorità giudiziaria per ottenere la condanna del suo committente a corrispondergli un corrispettivo adeguato.

In questa prospettiva, il collaboratore può far riferimento alla natura e alla durata del progetto, prendendo come parametro le remunerazioni dei compensi corrisposti per analoghe prestazioni autonome. Inoltre, si può ritenere che il collaboratore possa prendere come parametro anche le retribuzioni previste dal CCNL applicabile al suo committente e che facciano riferimento a personale che svolga mansioni analoghe. Infatti, si deve ritenere che la remunerazione di un collaboratore a progetto non possa essere, almeno di regola, inferiore a quanto percepito da un lavoratore subordinato che svolga mansioni analoghe.

E' sufficientemente dettagliato un progetto che faccia esclusivamente riferimento al tipo di attività da compiere?

Un contratto a progetto che faccia semplicemente riferimento al tipo di attività da compiere, e dunque una formulazione generica del progetto (ad es. inserimento dati), non è pertanto conforme al modello legale; il lavoratore avrà quindi la possibilità di chiedere al Giudice del Lavoro la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infatti, una simile definizione, lungi dal rappresentare il progetto, si limita a descrivere la mansione attribuita al lavoratore, del tutto svincolata dall'obiettivo che si intende raggiungere e dalle attività preparatorie e funzionali a quell'obiettivo. In buona sostanza, indicare le mansioni senza riferirle a un obiettivo significa consentire al datore di lavoro di utilizzare la prestazione lavorativa per soddisfare proprie esigenze variabili, mutevoli e indeterminate, il che contrasta con la riconducibilità dell'attività lavorativa a un progetto specifico e individuato.



Cos'è il contratto a progetto: Jobs Act, Co.co.pe., Co.co.pro, Co.co.co.



Il Jobs Act, nonostante abbia dato un colpo di spugna ai contratti a progetto, non ha cancellato del tutto le Co.co.co., cioè le collaborazioni coordinate e continuative. Difatti, dopo l’entrata in vigore del Decreto di Riordino dei Contratti, le vecchie Co.co.co. sono comunque valide, e, dal primo gennaio 2016, saranno affiancate da una nuova tipologia di contratto parasubordinato, le Co.co.pe.

La sigla Co.co.pe. sta per collaborazioni continuative e personali: saranno ricondotte in questa categoria tutte le collaborazioni che consistono in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e con modalità di esecuzione, comprese le tempistiche ed il luogo di lavoro, organizzate dal committente.

Questa tipologia di rapporto di lavoro riguarda una moltitudine di lavoratori, solitamente inseriti di fatto nell'organizzazione aziendale ma formalmente non riconosciuti come subordinati e, quindi, privi delle garanzie tipiche di questo tipo di rapporto di lavoro.

Il rapporto è gestito autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l'organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività. Le collaborazioni coordinate e continuative stipulate secondo la disciplina previgente, se non possono essere ricondotte a un progetto o a una fase di esso, mantengono la loro efficacia fino alla scadenza.

L'istituto di cui si sta parlando non trova applicazione anche nei confronti delle professioni intellettuali per le quali è richiesta l’iscrizione all’albo l'iscrizione all'albo. Su questo aspetto. La riforma del 2012 ha chiarito che tale esclusione riguarda le sole collaborazioni coordinate e continuative il cui contenuto concreto sia riconducibile alle attività professionali per l’esercizio delle quali l’iscrizione in appositi albi è necessaria per lo svolgimento dell’attività. Al contrario, la generica iscrizione ad un albo professionale da parte del collaboratore non è di per sé idonea all'esclusione del rapporto dal campo di applicazione della disciplina relativa al contratto a progetto.

Il contratto deve essere stipulato in forma scritta e, ai fini della prova, deve contenere: l'indicazione della durata (determinata o determinabile) della prestazione, la descrizione del progetto con indicazione del suo contenuto caratterizzante e del risultato che si intende conseguire, il corrispettivo e i criteri della sua individuazione (tempi e modalità di pagamento), le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione della prestazione lavorativa, nonché eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore.

La retribuzione corrisposta ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito. La legge 92/2012 ha modificato questo aspetto della normativa: mentre, infatti, in precedenza, il compenso doveva tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto, dal 18/07/2012 in poi, esso non potrà essere inferiore ai minimi stabiliti dalla contrattazione collettiva in modo specifico per ciascun settore di attività e, in ogni caso, sulla base dei minimi salariali applicati nel settore nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati. Lo stesso legislatore precisa che, in assenza di specifica contrattazione collettiva, il compenso del lavoratore a progetto non potrà essere inferiore alle retribuzioni applicate a figure professionali affini.

In caso di gravidanza, di malattia e di infortunio del collaboratore, il rapporto di lavoro risulta sospeso, senza erogazione del corrispettivo. Solo nel primo caso la durata del rapporto è prorogata (per un periodo di 180 giorni), mentre, negli altri due casi, non solo il contratto non è prorogabile, ma il committente può comunque recedervi se la sospensione si protrae per più di un sesto della durata stabilita dal contratto, oppure superiore a trenta giorni per i contratti a durata determinabile. Il collaboratore a progetto, salvo diverso accordo tra le parti, può svolgere la sua attività a favore di più committenti, non in concorrenza tra loro. Inoltre, il collaboratore non può diffondere notizie e apprezzamenti attinenti ai programmi e alla organizzazione, nonché compiere atti in pregiudizio della attività dei committenti medesimi.

Il Jobs Act ha specificato la disciplina da applicarsi alle Co.co.pe. sarà quella relativa al lavoro subordinato, escluse le seguenti categorie:

– collaborazioni previste da contratti collettivi nazionali, a causa di esigenze produttive e organizzative particolari, previste dal settore di attività: gli accordi dovranno regolamentare gli aspetti economici e normativi relativi a tali collaborazioni;

– collaborazioni prestate da professionisti iscritti ad albi, qualora siano inerenti all'attività professionale per la quale è necessaria l’iscrizione (ciò vuol dire che, se un avvocato collabora con un committente in un’attività al di fuori delle proprie competenze professionali, il suo rapporto potrà essere comunque ricondotto al lavoro subordinato, anche se è iscritto all’albo);

– attività effettuate da sindaci, amministratori, altri componenti di organi di controllo delle società, e partecipanti a collegi e commissioni;

– collaborazioni rese a società ed associazioni sportive dilettantistiche (Asd); in questo caso, è richiesta l’affiliazione a una federazione sportiva nazionale, alle discipline sportive associate, o a un ente di promozione sportiva riconosciuto dal C.O.N.I.



domenica 1 maggio 2016

CCNL: successione e modifiche peggiorative


Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) è la norma che definisce le regole del rapporto di lavoro: si tratta di norme concordate, esito di una contrattazione tra le organizzazioni sindacali e le associazioni dei datori di lavoro. Questa contrattazione è detta contrattazione collettiva. Di norma i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro regolano sia gli aspetti normativi del rapporto di lavoro, sia quelli di carattere economico. Una parte, inoltre, è destinata a normare alcuni aspetti del rapporto sindacale esistente tra le organizzazioni che hanno sottoscritto l’accordo e le Associazioni datoriali, oltre che ai rapporti interni alle aziende tra i rappresentanti dell’impresa e quelli sindacali.

I CCNL servono a determinare il contenuto che regola i rapporti di lavoro nel settore di attività di appartenenza dell’azienda e a disciplinare le relazioni tra i soggetti firmatari dell’accordo stesso.

I contratti collettivi sono qualificabili come contratti di diritto comune non esplicanti efficacia verso i terzi e con efficacia vincolante limitatamente:
alle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro che lo hanno stipulato;
ai soggetti iscritti alle stesse associazioni (in virtù del mandato rappresentativo conferito dal lavoratore e dal datore con l'iscrizione alle rispettive associazioni sindacali);
ai soggetti che, pur non essendo iscritti, vi abbiano aderito anche solo implicitamente.

La normativa vigente consente che un nuovo contratto collettivo di lavoro possa introdurre modifiche peggiorative al rapporto di lavoro. Gli unici limiti a questa possibilità sono il principio della intangibilità della retribuzione e la salvaguardia dei diritti quesiti. Tuttavia, occorre considerare che i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro sono ordinari contratti di diritto comune e che quindi possono vincolare solamente i lavoratori iscritti al sindacato che gli ha “firmati”. I lavoratori non iscritti a quel sindacato possono comunque aderire all’accordo, cosa che può avvenire anche tacitamente. In mancanza di un CCNL di riferimento, nella disciplina del rapporto di lavoro si applicano infatti le norme di legge ordinaria, ovverosia il Codice Civile.

Quindi è possibile che un contratto collettivo sopravvenuto introduca, con efficacia vincolante per tutti, una disciplina peggiorativa del rapporto di lavoro,  infatti la legge ammette che un nuovo contratto collettivo di lavoro introduca modifiche peggiorative al rapporto di lavoro.

Da qualche tempo sembra essere più diffuso il fenomeno del datore di lavoro non iscritto ad alcuna associazione imprenditoriale. Questa scelta è spesso dettata da motivi pratici più che ideologici, poiché la non iscrizione comporta la inapplicabilità dei contratti collettivi nazionali di lavoro, che sono ordinari contratti di diritto privato e, come tali, si applicano solamente alle parti stipulanti e ai soggetti da esse rappresentati.

Nel caso in cui il datore di lavoro, pur non essendo iscritto ad alcuna associazione imprenditoriale, abbia di fatto applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro, i lavoratori avranno diritto alla applicazione di tale contratto. Tuttavia, al di fuori di questo caso, se il datore di lavoro non è iscritto alle associazioni imprenditoriali, il rapporto di lavoro è disciplinato esclusivamente dalla legge, e i lavoratori non potranno invocare alcuna normativa contrattuale.

Il datore di lavoro può recedere dal CCNL applicato e adottarne un altro senza consultare il lavoratore?
Si. La Giurisprudenza  ha stabilito che la modifica del rapporto di lavoro può avvenire anche in assenza delle rappresentanze sindacali senza che ciò comporti una violazione dei diritte dei lavoratori. Il contratto collettivo come già esposto si configura come una fattispecie di diritto comune e, pertanto, qualora non sia previsto un limite temporale alla sua efficacia, è concesso alle parti di recedere anche unilateralmente. Il lavoratore anche quando non consultato deve sempre essere messo al corrente della modifica del CCNL applicato in azienda

Ma il contratto collettivo non ha una durata di 3 anni? Si, ma validità ed efficacia sono concetti giuridici distinti, ovviamente collegati, ma comunque non coincidenti. Senza addentrarci in argomentazioni giuridiche che esulano dalla presente, basilare, trattazione è opportuno far presente che la validità concerne la conformità dell'atto alle regole legali (sia di carattere generale, sia specificamente dettate per il tipo di atto) che lo disciplinano, mentre l'efficacia attiene all'attitudine dell'atto a sortire gli effetti di cui è capace.

E’ ovvio che un contratto collettivo “scaduto” sarà privo di efficacia eccezion fatta per la parte normativa. Il datore può utilizzare un CCNL che includa condizioni peggiorative rispetto a quello adottato precedentemente? Si, ma le modifiche peggiorative non si applicano ai lavoratori già in forza nell’azienda prima dell’adozione del nuovo CCNL. Si ipotizzi ad esempio che il datore in data 1 settembre 2014 decida di adottare un nuovo contratto collettivo con retribuzioni inferiori per i vari livelli di inquadramento rispetto a quelli utilizzati prima. Ne consegue che i nuovi trattamenti economici verranno applicati ai dipendenti assunti dal 1 settembre in poi, mentre i vecchi dipendenti hanno diritto a ricevere la medesima retribuzione.

Quali sono i vantaggi nel mutare un contratto collettivo applicato in azienda?
Molteplici. Innanzitutto le disposizioni del nuovo contratto troveranno applicazione nei confronti del personale assunto dopo la variazione. In secondo luogo i CCNL offrono strumenti differenti e peculiari che li differenziano uno dall’altro (si pensi ai servizi che offerti dagli Enti Bilaterali o dai Fondi interprofessionali di formazione continua che fanno riferimento alle medesime parti sindacali firmatarie del CCNL) che non devono essere sottovalutati e che rendono un contratto più appetibile rispetto ad un altro. Ricordiamo inoltre che al di fuori dei diritti quesiti (cioè diritti già entrati nella sfera giuridica del lavoratore e quindi immutabili) il nuovo CCNL applicato in azienda può apportare mutamenti anche al trattamento complessivo dei lavoratori assunti in precedentemente alla variazione.

sabato 26 dicembre 2015

Jobs Act, collaborazioni: requisiti per la stabilizzazione e contratto di lavoro


Nel decreto di riforma dei contratti di lavoro, attuativo del Jobs Act, è prevista per il datore di lavoro la possibilità di stabilizzazione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa e di persone titolari di partita IVA.

Al fine di promuovere il consolidamento di contratti flessibili (o precari, a seconda del punto di vista) il legislatore del Jobs Act ha previsto, nel decreto di riforma dei contratti di lavoro (decreto legislativo n. 81/2015), la possibilità, per il datore di lavoro, di stabilizzare contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, e di persone titolari di partita IVA.

Estesa dal 1° gennaio 2016 l’area della subordinazione, introducendo un nuovo regime per le collaborazioni personali e continuative che siano eterorganizzate dal committente. La norma contempera delle eccezioni all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato e investe sulla certificazione dei contratti. Si affaccia anche una nuova procedura di stabilizzazione con estinzione di illeciti e sanzioni a seguito di assunzione a tempo indeterminato e conciliazione individuale. Vengono abrogate le norme sul lavoro a progetto.

Questa forma di stabilizzazione di un contratto a tempo, qual è un contratto di collaborazione, potrà avvenire a decorrere dal 1° gennaio 2016 e soltanto per i datori di lavoro privati.

La stabilizzazione non rappresenterà una “sanatoria” esclusivamente per i contratti di collaborazione poco reali, ma può essere considerata una opportunità per le parti per consolidare un rapporto di lavoro con la tipologia contrattuale che lo stesso legislatore definisce “la forma comune di rapporto di lavoro” e cioè il contratto per antonomasia, che può essere solo eccezionalmente sostituito da altre forme contrattuali disciplinate dallo stesso decreto legislativo 81/2015.

Vediamo quali sono i requisiti perché si realizzi una stabilizzazione del rapporto e soprattutto perché questa procedura possa essere realmente valida contro un eventuale contenzioso proposto dal lavoratore o, soprattutto, dagli organi di vigilanza avverso i rapporti di collaborazione intercorsi precedentemente l’assunzione a tempo indeterminato.

Innanzitutto non si tratta di trasformazione del rapporto di lavoro, in quanto le due tipologie
contrattuali non possono prevedere una continuità logica. In pratica, vi dovrà essere una risoluzione anticipata del rapporto di collaborazione, qualora sia ancora in essere, e la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Quindi, il primo atto, sempreché la collaborazione sia ancora attiva in virtù di un contratto con scadenza più avanti nel tempo, è la risoluzione consensuale della collaborazione attraverso un atto di conciliazione. Conciliazione che dovrà contenere anche la convalida della risoluzione consensuale, al fine di rispettare il disposto normativo previsto dall’art. 4, della legge n. 92/2012 la Riforma Fornero.

Una volta risolto il rapporto di collaborazione, si passa a realizzare uno dei punti strategici della procedura. Infatti, il legislatore condiziona la stabilizzazione a due presupposti in capo alle parti, che dovranno essere inseriti in un atto di conciliazione sottoscritto in una delle sedi previste dagli articoli 410 e ss. del codice di procedura civile o dinanzi ad una Commissione di certificazione, ove:
a) il lavoratore sottoscriva, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, un atto tombale di “nulla più dovuto”.
b) il datore di lavoro dichiari che nei dodici mesi successivi alla assunzione non intenda recedere dal rapporto di lavoro, con un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. È fatto salvo il licenziamento per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo.

Nulla vieta che anche la risoluzione consensuale del pregresso rapporto di collaborazione possa essere incardinata nell’accordo conciliativo sopraindicato.

Infine, la procedura definisce gli effetti dell’assunzione a tempo indeterminato effettuata alle condizioni suindicate: la stipula del contratto subordinato comporterà l'estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all'erronea qualificazione del rapporto di lavoro.

In pratica, si realizza una blindatura del pregresso rapporto di collaborazione con la quale gli organi ispettivi dovranno fare i conti. Questi ultimi non potranno entrare nel merito della collaborazione al fine di verificarne la genuinità.

La chiusura a verifiche ispettive non potrà avvenire qualora siano già stati accertati illeciti comportamenti sul contratto di collaborazione a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione.

Una volta provveduto a stabilizzare il collaboratore con un rapporto a tempo indeterminato, la domanda sorge spontanea: il datore di lavoro (ex committente) potrà usufruire dell’esonero contributivo previsto nella nuova legge di Stabilità per l’anno 2016? Quello sgravio del 40%dei contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, nel limite massimo di 3.250 euro su base annua, per un periodo massimo di ventiquattro mesi?

Secondo la Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro, la risposta è affermativa, in quanto “la
procedura di stabilizzazione si attiva su espressa volontà delle parti, e solo dopo la legge regola quale forma contrattuale adottare per l’ex collaboratore.”

Il dubbio comunque resta, in quanto, l’assunzione avviene all’interno di una procedura più ampia che stabilisce la non applicazione di eventuali illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all'erronea qualificazione del rapporto di lavoro, qualora si proceda attraverso un iter ben disciplinato dall’art. 54 del decreto legislativo n. 81/2015; e visto che l’art. 4, comma 12, lettera a), della legge n. 92/2012 prescrive che “gli incentivi non spettano se l'assunzione costituisce attuazione di un obbligo preesistente, stabilito da norme di legge o della contrattazione collettiva”, sembrerebbe non applicabile l’incentivo in questione.

E' bene sottolineare che non tutte le collaborazioni eterorganizzate sono ricondotte alla disciplina del lavoro subordinato. È prevista una serie di eccezioni, che in parte, ma solo in parte, ricordano quelle già previste dall’art.61, co.1 e 3, D.Lgs. n.276/03, con riferimento al lavoro a progetto.

Ai sensi dell’art.2, co.2, la disposizione di cui al co.1 non trova applicazione in relazione:

alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive e organizzative del relativo settore. Tale disposizione rimette all’autonomia collettiva la possibilità di sottrarre alla disciplina del lavoro subordinato rapporti di lavoro autonomo eterorganizzato con riferimento anche ai tempi e al luogo di lavoro. Come si è già detto, se si ammette che le collaborazioni, pur eteroganizzate, conservino formalmente carattere di autonomia, allora non viene in questione il principio di indisponibilità del tipo contrattuale, che vieta al Legislatore e alle parti, individuali e collettive, di escludere l’applicazione delle discipline del lavoro subordinato a rapporti che di fatto hanno le caratteristiche del lavoro subordinato. La disposizione, piuttosto, potrebbe forse alimentare qualche dubbio di conformità rispetto al principio di cui all’art.3 Cost.. Le particolari esigenze produttive e organizzative di un certo settore possono giustificare il fatto che due collaboratori eterorganizzati nelle modalità di esecuzione della propria prestazione, anche con riferimento ai tempi e al luogo della prestazione, siano destinatari, l’uno della disciplina del lavoro subordinato, l’altro del trattamento economico e normativo definito dall’accordo collettivo? Se le “esigenze produttive e organizzative” si riducessero alla mera necessità di contenere il costo del lavoro in un certo settore qualche dubbio si porrebbe;

alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
alle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni, come individuati e disciplinati dall’art.90, L. n.289/02.

Le tre eccezioni richiamate riproducono, al netto di alcuni minimi aggiustamenti lessicali, altrettante ipotesi già escluse dall’applicazione della disciplina del lavoro a progetto.

sabato 10 ottobre 2015

Cessione gratuita ferie e riposi ai colleghi


Tra le novità del d.lgs 14 settembre 2015 la cessione gratuita dei permessi e ferie maturati a colleghi che devono assistere figli minori. Ovvero i lavoratori possono cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie da loro maturati ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro, al fine di consentire a questi ultimi di assistere i figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti, nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicabili al rapporto di lavoro.

Sarà possibile cedere le proprie ferie ai colleghi: è questa una delle novità più interessanti contenute nel “Decreto Semplificazioni”, uno dei tanti che attua la riforma contenuta nel Job Act. Il sistema prevede la possibilità, per i dipendenti di cedere gratuitamente parte delle ferie e riposi ai colleghi impiegati in mansioni di pari livello e categoria che devono assistere figli minori bisognosi di cure costanti. Spetterà ai contratti collettivi di lavoro stabilire poi le modalità pratiche per l’attuazione di questa previsione.

Fermo restando quanto disposto dal decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 i lavoratori di cedere, a titolo gratuito, ai  colleghi,  dipendenti dallo stesso datore di lavoro, che svolgono mansioni di pari livello e categoria, i riposi e le ferie maturati, con esclusione dei giorni di riposo e di ferie minimi garantiti dalla legge, al fine di assistere i figli minori che, per le particolari condizioni di salute, hanno bisogno di assistenza e cure costanti da parte dei genitori.

Insomma, la cessione delle ferie non potrà avvenire in modo completamente libero, ma solo se il dipendente beneficiario avrà dimostrato esigenze familiari e, in particolare, relative allo stato di salute dei propri figli e sempre che questi ultimi siano ancora minorenni.

Di conseguenza, oggetto della cessione potranno essere:
le giornate di ferie ulteriori (rispetto alle quattro settimane), maturate dal lavoratore e definite dalla contrattazione collettiva;

i permessi di genesi contrattuale. Le ulteriori limitazioni e modalità di cessione e conseguente godimento sono disciplinati dalla contrattazione collettiva.

Quindi i lavoratori dipendenti di cedere a titolo gratuito i riposi e le ferie da loro maturati ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro impiegati in mansioni di pari livello e categoria, al fine di consentire a questi ultimi di assistere i figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti, nella misura, alle condizioni e secondo le modalità stabilite dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale applicabili al rapporto di lavoro.

domenica 4 ottobre 2015

Garante della privacy: il datore di lavoro non può spiare le conversazioni dei dipendenti


Con provvedimento del 4 giugno del 2015, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha affermato che “il datore di lavoro non può spiare le conversazioni dei dipendenti”. Il contenuto di comunicazioni di tipo elettronico o telematico scambiate dai dipendenti nell'ambito del rapporto di lavoro godono di garanzie di segretezza tutelate anche a livello costituzionale.

Il principio è stato rinnovato dal Garante privacy nell'accogliere il ricorso proposto da una dipendente che lamentava l'illecita acquisizione di conversazioni, avute con alcuni clienti/fornitori, poste poi alla base del suo licenziamento.

A seguito del provvedimento del Garante, il datore di lavoro non potrà effettuare alcun trattamento dei dati personali contenuti nelle conversazioni ottenute in modo illegittimo, limitandosi alla conservazione di quelli finora raccolti ai fini di una eventuale acquisizione da parte dell'autorità giudiziaria.

Nel caso esaminato, rileva il Garante, il datore di lavoro è in corso in una grave interferenza nelle comunicazioni, attuata, per sua stessa ammissione, attraverso l'installazione di un software sul computer assegnato alla dipendente in grado di visualizzare sia le conversazioni effettuate dalla ricorrente dalla propria postazione di lavoro prima di uscire dall'azienda, sia quelle avvenute successivamente da un computer collocato presso la propria abitazione.

Una procedura, secondo il Garante, in evidente contrasto con le "Linee guida del Garante per posta elettronica e Internet" e con le disposizioni poste dall'ordinamento a tutela della segretezza delle comunicazioni, nonché con la stessa policy aziendale approvata anche dalla competente Direzione territoriale del lavoro. Pur spettando, infatti, al datore di lavoro definire le modalità di utilizzo degli strumenti aziendali, occorre comunque che queste rispettino la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché i principi di correttezza (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti di dati devono essere rese note ai lavoratori), di pertinenza e non eccedenza stabiliti dal Codice privacy. Principi questi da tenere ben presenti, in considerazione del fatto che l'esercizio del controllo da parte del datore di lavoro può determinare la raccolta di informazioni personali, anche non pertinenti, di natura sensibile oppure riferite a terzi.

Infatti, afferma il Garante, pur spettando al datore di lavoro definire le modalità di utilizzo degli strumenti aziendali, occorre comunque che queste rispettino la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché i principi di correttezza, di pertinenza e non eccedenza stabiliti dal Codice privacy.

A tal fine il Garante per la protezione dei dati personali ha pubblicato, sul proprio sito internet, la Newsletter n. 406 del 28 settembre 2015, con la quale, tra le altre cose, tratta della materia delle conversazioni telefoniche in azienda. Nel documento il Garante della privacy ha sottolineato che il datore di lavoro non può spiare le conversazioni Skype dei propri dipendenti. Il contenuto di comunicazioni di tipo elettronico o telematico scambiate dai dipendenti anche nell’ambito del rapporto di lavoro godono di garanzie di segretezza tutelate anche a livello costituzionale.

Ricordiamo che il tema del trattamento dei dati personale mediante il controllo dei lavoratori viene ulteriormente approfondito dalla nuova normativa del Jobs Act che prevede la integrale sostituzione del vigente art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. In particolare, come noto, la nuova formulazione mira a distinguere tra controlli sugli impianti, che dovrebbero restare vietati salvo autorizzazioni particolari, da quelli sugli strumenti di lavoro, i quali, invece, sono stati liberalizzati e comunque sganciati da un’apposita procedura da seguire. In sostanza, i dispositivi aziendali potranno essere oggetto di controlli a distanza senza dover passare attraverso l’accordo con i sindacati o attraverso l’autorizzazione dell’ex ispettorato del lavoro, purché però il datore di lavoro predisponga un’informativa sulla policy di controllo che l’impresa intenda implementare, tale da rendere consapevoli i lavoratori interessati. Si affronta quindi un tema molto rilevante da inquadrare più approfonditamente in quanto fonte di cambiamento rispetto ad abitudini consolidate.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...
BlogItalia - La directory italiana dei blog