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venerdì 23 agosto 2019

Ferie non godute e indennità: quando si perdono



L’ordinamento riconosce al lavoratore il diritto alla sospensione della prestazione lavorativa attraverso il godimento di un periodo di riposo finalizzato anche alla reintegrazione delle proprie energie psico-fisiche.

La natura delle finalità del diritto alla fruizione del periodo di ferie è stata perentoriamente affermata anche dalla Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 543/1990, ha sostenuto che “non vi è dubbio che la disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 36 Cost. garantisce la soddisfazione di primarie esigenze del lavoratore, dalla reintegrazione delle sue energie psico-fisiche allo svolgimento di attività ricreative e culturali, che una società evoluta apprezza come meritevoli di considerazione”.

La rilevanza di tale istituto emerge infatti anche dall’accoglimento che la Carta Costituzionale riserva all’istituto delle ferie e che prevede, al terzo comma dell’articolo 36, che “Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

Il codice civile asseconda il dettato costituzionale, stabilendo, all’articolo 2109, rubricato “Periodo di riposo” che il lavoratore: “Ha anche diritto, dopo un anno d’ininterrotto servizio, ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità. L’imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie. Non può essere computato nelle ferie il periodo di preavviso indicato nell’articolo 2118”.

La norma riportata ha reso necessari diversi interventi della Corte Costituzionale, in particolare con la sentenza n. 66/1963, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del comma 2 limitatamente all’inciso “dopo un anno d’ininterrotto servizio“, con la sentenza n. 189/1980, con cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo in parola nella parte in cui non prevede il diritto a ferie retribuite anche per il lavoratore assunto in prova in caso di recesso del contratto durante il periodo di prova medesimo e con la sentenza n. 616/1987, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevede che la malattia insorta durante il periodo feriale ne sospenda il decorso.

Ribadendo le previsioni del codice civile, l’articolo 10, D.Lgs. 66/2003, così come modificato dall’articolo 1, D.Lgs. 213/2004, precisa taluni aspetti in ordine alla modalità di fruizione delle ferie, prevedendo che “il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane. Tale periodo, salvo quanto previsto dalla contrattazione collettiva o dalla specifica disciplina (…), va goduto per almeno due settimane, consecutive in caso di richiesta del lavoratore, nel corso dell’anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro”.

In tempi recenti, l’articolo 24, D.Lgs. 151/2015, ha previsto la possibilità per i lavoratori di cedere a titolo gratuito le proprie ferie ai colleghi bisognosi di assentarsi per gravi motivi familiari.

In tale contesto, emerge la rilevanza del divieto di monetizzazione introdotto con il D.Lgs. 66/2003, al fine di assicurare la corretta fruizione delle ferie in linea con la finalità di tutela del benessere del lavoratore, che può essere pregiudicato dallo svolgimento continuativo della prestazione lavorativa. Tale divieto è accompagnato da ipotesi tassative, in cui risulta invece possibile monetizzare le ferie residue e non godute, in particolare nei casi di ferie maturate nei contratti a tempo determinato di durata inferiore all’anno, ferie residue al momento della cessazione del rapporto di lavoro che avvenga in corso dell’anno, ferie previste dalla contrattazione collettiva eccedenti il periodo minimo di 4 settimane previsto dalla legge e nel caso di lavoratore inviato all’estero, qualora vi sia l’impossibilità oggettiva della fruizione delle ferie giustificata dal breve tempo che intercorre tra la decisione di inviare il lavoratore all’estero e la sua partenza, che non consente una programmazione delle ferie stesse in relazione alle esigenze produttive e/o organizzative dell’impresa.

Se il datore di lavoro invita a fruire delle ferie e il lavoratore non lo fa, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, perde anche il diritto all'indennità sostitutiva, che invece spetta agli eredi: le sentenze della Corte di Giustizia UE.
Niente indennità sostitutiva delle ferie non fruite dal lavoratore, non richieste per sua volontà, in caso di cessazione del rapporto di lavoro. A stabilirlo è stata la Corte di Giustizia UE con le recenti sentenze C-619/16 e C-684/16). Diversamente il diritto del lavoratore a un’indennità finanziaria per le ferie non godute è trasmissibile agli eredi allorché sia deceduto (sentenza C-596/16 della stessa Corte di Giustizia UE).

I principi esposti dalla Corte si applicano sia in caso di occupazione nel settore pubblico sia in quello privato.

Ferie non richieste
In particolare il diritto alle ferie si estingue quando queste non siano state fruite per volontà del lavoratore, nonostante l’invito dal datore di lavoro a farlo. E questo principio è valido anche con riferimento al periodo minimo legale, pari a quattro settimane di ferie retribuite, generalmente un diritto irrinunciabile e mai monetizzabile se non a fine rapporto di lavoro.
Nel caso esaminato dalla Corte, circa due mesi prima della fine del rapporto, il datore di lavoro aveva invitato il lavoratore a fruire della rimanenza di ferie, senza costringerlo a osservare date prefissate. Il dipendente tuttavia aveva scelto, per ragioni proprie, di fruire di soli due giorni di ferie.

La Corte UE ha dunque chiarito che le norme UE non sono contrarie alla perdita del diritto alle ferie annuali non fruite e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla perdita del correlato diritto a un’indennità sostitutiva per le ferie non godute quando il lavoratore non abbia formulato richiesta di fruizione prima della cessazione del rapporto di lavoro e sia stato posto dal datore di lavoro, con informazione adeguata, in condizione di fruirne in tempo utile.
Questo perché viene ritenuto non legittimo il comportamento del lavoratore che si astenga deliberatamente dal fruire le proprie ferie annuali al fine d’incrementare la propria retribuzione all’atto della cessazione del rapporto.

Indennità agli eredi
Diversamente, in caso di decesso del lavoratore che non abbia fruito delle ferie che gli spettavano, il diritto all’indennità per ferie non godute non si estingue ma si trasmette agli eredi.
La Corte ha inoltre affermato che nel caso in cui il diritto nazionale escluda la possibilità per gli eredi di chiedere all’ex datore di lavoro del lavoratore deceduto un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute dal congiunto, gli eredi possono invocare direttamente il diritto dell’Unione.

Il dibattito giurisprudenziale sorto intorno all’istituto delle ferie, e declinato nei vari aspetti di quest’ultimo, manifesta la necessità di un approccio cauto e consapevole nella gestione sia contrattuale con il lavoratore che amministrativa e fiscale rispetto a pretese degli Enti.

Pur in presenza di riferimenti di legge e principi che possono essere ritenuti manifesti e consolidati, la Corte di Cassazione ritorna a ribadire determinati aspetti, che, invero, in un discorso generale sull’istituto delle ferie, non si limitano a quelli relativi alle 2 ordinanze trattate, ma riguardano altri aspetti altrettanto delicati, come, a puro scopo esemplificativo, gli obblighi contributivi sulle ferie non godute, le possibilità conferite alla contrattazione collettiva di determinare le modalità di fruizione, incluso un possibile procrastinamento della stessa, e l’apparato sanzionatorio che accompagna le norme a tutela del corretto esercizio del diritto da parte del lavoratore nonché quelle relative agli obblighi contributivi.



domenica 31 maggio 2015

Pensioni, decreto ingiuntivo: l’Inps ripaghi l’indicizzazione



I giudici hanno accolto il ricorso di un pensionato partenopeo presentato prima il governo annunciasse il decreto sui rimborsi delle pensioni.

Le sentenze della Corte Costituzionale «producono la cessazione di efficacia della norma stessa dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» e gli organi politici possono adottare, «ove lo ritengano», «i provvedimenti del caso nelle forme costituzionali».

Un'ingiunzione di pagamento di 3.074 euro a titolo di arretrati dopo la bocciatura del blocco delle indicizzazioni delle pensioni da parte della Corte Costituzionale. Lo ha stabilito in un decreto ingiuntivo del 29 maggio dal Tribunale di Napoli, sezione Lavoro, che ha accolto il ricorso di un pensionato partenopeo presentato prima il governo annunciasse il decreto sui rimborsi delle pensioni. Lo ha riferito l'avvocato Vincenzo Ferrò, che ha assistito il pensionato.

I cittadini che ritengano di vedere leso un proprio diritto hanno pieno titolo fare ricorso, «ma i ricorsi dovranno tenere conto del decreto del governo», ha ricordato il ministero del Lavoro, ribadendo quanto già affermato dal ministro Giuliano Poletti sulla possibilità di ricorrere contro i rimborsi parziali previsti dopo la sentenza della Consulta sulle pensioni. «Dal punto di vista della legittimità - aveva sottolineato il ministro del Lavoro - noi siamo convintissimi di aver pienamente ottemperato a quanto la Corte ha in qualche modo sottolineato come limiti della normativa precedente per cui ha scelto di cassare quella parte della norma».

Con il decreto del 13 maggio il governo ha previsto che dal primo agosto i pensionati ricevano un rimborso che varierà a seconda della pensione percepita. Per il 2012-13 il provvedimento riconosce la rivalutazione del 40%” per gli assegni tra 3 e 4 volte il minimo, del 20% per quelli tra 4 e 5 volte il minimo e del 10% per quelli tra 5 e 6 volte il minimo. Per il 2014-15 sarà rimborsato il 20% di quanto previsto per il biennio precedente. Diversa l'opinione dell'avvocato Vincenzo Ferrò, che ha assistito il pensionato napoletano che, il 29 maggio, si è visto accogliere il ricorso. “Si tratta del primo decreto ingiuntivo di questo tipo.

Abbiamo sempre nutrito la massima fiducia nella Magistratura ed il nostro non facile lavoro è stato ripagato. Questo è solo il primo di una serie di ricorsi volti ad ottenere il riconoscimento del diritto alla rivalutazione delle pensioni”, ha spiegato all'Ansa Ferrò. Il suo assistito percepisce una pensione di circa 2mila euro lordi e rientra, perciò, nella fascia di pensionati alla quale arriverà, ad agosto, il bonus di massimo 750 euro.

Dello stesso avviso il Codacons che ritiene che il provvedimento del governo non valga per il pregresso e secondo il quale si apre la strada a “migliaia di ricorsi analoghi” L'Inps, si legge intanto nell'ingiunzione del tribunale di Napoli, ha ora 40 giorni per opporsi davanti al giudice: un'opposizione che, una volta entrato in vigore, potrà probabilmente basarsi anche sul decreto del governo.

Ricordiamo che la sentenza della Corte Costituzionale che ha 'bocciato' il blocco degli adeguamenti pensionistici.

La soluzione è complessa. Le possibili ripercussioni sui conti pubblici sono enormi. L'applicazione della sentenza sul totale dei pensionati interessati è stato quantificato dai tecnici del Mef in oltre 17 miliardi lordi. Il Governo sta lavorando a «misure che minimizzino l'impatto sui conti pubblici, nel pieno rispetto della Corte».

Intanto il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti dopo aver definito apertamente «impossibile» la restituzione a tutti i pensionati degli adeguamenti all'inflazione bloccati, è tornato sul tema, proponendo «una soglia di 5 mila euro che potrebbe rappresentare una misura giusta» oltre la quale non scatterebbe il rimborso, perché «non è giusto pensare di rimborsare tutte le pensioni, anche quelle più alte».

Il segretario generale dello Spi-Cgil, Carla Cantone, ha sostenuto che la sentenza deve essere applicata immediatamente». Ma ha aggiunto: «Siamo disponibili a ragionare con il governo sulle modalità e sulle tempistiche della restituzione degli arretrati».



domenica 17 marzo 2013

Licenziamento sentenze della Cassazione del 2013


Con la nuova riforma del lavoro la certezza è una sola: non esiste una strada sola per le istanze di reintegro nel posto di lavoro. A fare da esempio, c'è la vertenza che riguardava un lavoratore addetto a un appalto, poi improvvisamente cessato. Quel che più conta, però, è che, nel caso esaminato, il ritorno sul posto di lavoro non è stato interpretato come diretta conseguenza del sollevamento incongruo dall’incarico.

Esclusa, per il soggetto coinvolto, anche la possibilità di vedersi collocato ad altra mansione o funzione sempre nello stesso ambiente di lavoro.
Qualora un caso simile fosse pervenuto all’attenzione del Tribunale prima dello scorso 18 luglio, quando, cioè, è diventata legge dello Stato la riforma Fornero, l’esito del procedimento sarebbe stato opposto. Dunque, anche qualora l’autorità giudiziaria ravvisi l’illiceità dell’interruzione del rapporto di lavoro, non è automatico che a questa sentenza consegua il ritorno all’occupazione precedentemente svolta o a una affine.

Ne consegue che il diritto al reintegro non vada in alcun modo collegato alla legittimità o meno dell’atto di licenziamento, poiché viene inteso come collegato, ma non corrispondente, alla decisione di interruzione del rapporto di lavoro. Infatti, non è un caso che il datore di lavoro sia stato condannato, in chiusura di dibattimento, al risarcimento del lavoratore, ma non alla sua riassunzione completa. Quindi, il panorama sviluppatosi con la legge Fornero è molto, forse troppo, variegato e scivoloso: saranno le situazioni contingenti a determinare il diritto al reintegro o meno del lavoratore ingiustamente licenziato che ha sporto ricorso. Questo è uno scenario che porta sempre più incertezza sulla posizione occupazionale di moltissimi dipendenti, anche nel caso si rivolgano al giudice essendo certi di spuntarla contro il datore di lavoro.

Comunque la riforma del mercato del lavoro potrebbe riportare in primo piano la figura del licenziamento discriminatorio, anche se – alla luce degli orientamenti della giurisprudenza – non sarà facile per un lavoratore dimostrare di esserne stato vittima. La legge 92/2012 ha modificato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, incidendo sui licenziamenti disciplinari e su quelli per motivi economici, ma ha sostanzialmente lasciato immutata la disciplina dei licenziamenti discriminatori.

Mentre la risoluzione del rapporto basata su motivi disciplinari o economici, se ritenuta illegittima, può essere oggi sanzionata, in alcuni casi, con il solo indennizzo economico, in luogo della reintegrazione sul posto di lavoro, l'illegittimità del licenziamento discriminatorio continua a prevedere come sanzione la reintegrazione del lavoratore in azienda.

Con la sentenza 3547 del 7 marzo 2012, la Cassazione ha affermato che il licenziamento del dirigente può essere considerato arbitrario solo quando si dimostra pretestuoso e quindi non corrispondente alla realtà. In pratica, se il licenziamento è collegato a un effettivo processo di riorganizzazione del settore aziendale, la motivazione risulterà lecita e obiettivamente verificabile, escludendo in questo modo l'arbitrarietà del provvedimento espulsivo. Di diverso avviso la tesi del ricorrente, secondo cui la soppressione dell'area di responsabilità non rientrava in precise scelte organizzative ma era dettata da intenti ritorsivi o discriminatori.

Ricordiamo inoltre che in un'altra vicenda giuridica la Cassazione ha dato ragione al direttore provinciale di una confederazione e consigliere di amministrazione di una società controllata dalla stessa confederazione. Il lavoratore sosteneva di essere stato licenziato per volontà del presidente in conseguenza del proprio rifiuto di sottoscrivere il bilancio aziendale e di aver espresso un fermo rifiuto sul distacco di alcuni dipendenti della federazione presso la società controllata, poiché si sarebbe potuta ravvisare l'ipotesi di somministrazione di manodopera vietata. La Cassazione, con la sentenza 2958 del 27 febbraio 2012, ha confermato la pronuncia di merito ritenendo che l'assunto difensivo fosse adeguatamente motivato. Infatti, da un lato c'erano indici di ritorsione nei confronti del dipendente, dall'altro era mancato un riscontro fattuale del motivo economico posto alla base del licenziamento per riduzione dei costi ingenti legati alla posizione lavorativa del direttore.

Altra sentenza. Niente licenziamento se il lavoratore è costretto all'inattività. E' quanto ha stabilito la Cassazione con la sentenza 1693 depositata il 24 gennaio 2013. Un dipendente di un'azienda telefonica denunciava di aver subito una dequalificazione professionale giungendo alla totale inattività lavorativa. La ditta aveva privato quasi completamente il dipendente delle sue mansioni, fino a licenziarlo per giusta causa per mancata osservanza dell'orario di lavoro. Il tribunale accoglieva la domanda di risarcimento del danno e rigettava quella sull'illegittimità del licenziamento. In appello, invece, la corte disponeva la reintegra del lavoratore e gli riconosceva il risarcimento del danno. In sostanza, l'inattività forzosa  del lavoro voluta dall'azienda ha contribuito a determinare l'inadempimento del lavoratore, ridimensionando la gravità delle mancanze imputategli. La società sosteneva che per il datore di lavoro esiste solo l'obbligo di retribuire il proprio dipendente, non anche quello di farlo lavorare, e che se il datore di lavoro provvede al regolare pagamento della retribuzione il lavoratore non può rifiutarsi di eseguire la propria prestazione.

La Cassazione ha affermato che il rifiuto del lavoratore subordinato di svolgere la propria prestazione lavorativa (mansioni inferiori) può essere legittimo, e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive, se il rifiuto è proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede (Cassazione n. 4060/2008). L'interesse aziendale all'esecuzione della prestazione è venuto meno nella misura in cui il comportamento del dipendente di non osservare l'orario di lavoro è stato tollerato dalla società che non ha contestato immediatamente con sanzioni di carattere disciplinare. L'inattività forzata del lavoratore non solo non giustificherà il licenziamento ma sarà anche fonte dell'obbligo di risarcimento del danno in capo al datore di lavoro.

La Cassazione civile, sezione lavoro con la sentenza 4197 del 20 febbraio 2013 ha stabilito che è illegittimo il licenziamento per abbandono del posto di lavoro se il codice disciplinare aziendale richiede, per rendere lecito l'atto del datore di lavoro, una condizione in più, vale a dire che il comportamento del lavoratore abbia determinato un danno o pericolo all'azienda o a persone.

Il caso riguarda un dipendente di una società cooperativa, che, durante l'attività lavorativa, lascia, improvvisamente, il posto di lavoro, esce dall'azienda e viene, di conseguenza, licenziato. Il lavoratore impugna l'atto del datore di lavoro di fronte al giudice sostenendo, a sua giustificazione, di essersi dovuto recare in ospedale per rimuovere un corpo estraneo dall'occhio e, comunque, di avere comunicato l'uscita al proprio superiore. Il tribunale dà ragione alla società e conferma il licenziamento. Il dipendente licenziato si rivolge alla Corte d'appello, che rovescia la decisione di primo grado, ritenendo illegittimo il licenziamento: secondo i giudici, il lavoratore era ricorso, effettivamente, a cure mediche, aveva segnalato il suo allontanamento al suo superiore e non aveva determinato, con la sua condotta, né interruzione nel ciclo produttivo aziendale né, come richiesto per la liceità del licenziamento dalla specifica regolamentazione aziendale, danno o pericolo a cose o a persone.

La Cassazione riconosce, che si era verificato un infortunio sul lavoro, avvalorando così le affermazioni del lavoratore circa l'esistenza di una situazione di emergenza. In secondo luogo, la Corte d'appello ha tenuto presente il principio in base al quale un licenziamento è giustificato solo se la condotta del lavoratore fa venir meno la fiducia del datore nell'esattezza delle future prestazioni.
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